Avventure in cucina
Dal crudo al cotto (e ritorno)
Crudo è sinonimo di ‘natura’. Ce lo ha insegnato Claude Lévi-Strauss, analizzando il pensiero e le consuetudini alimentari dei popoli senza scrittura, e ce lo insegnano i testi antichi, che inevitabilmente associano le pratiche crudivoriste all’idea di non-civiltà. Il mito di Prometeo, che ruba agli dei il segreto del fuoco per regalarlo agli uomini, fonda un’idea di cultura come capacità di trasformare la natura: di questa capacità, la cucina è una dimensione essenziale. Perciò i greci e i latini, volendosi rappresentare come i depositari unici della civiltà, amano descrivere gli altri, i ‘barbari’, come mangiatori di carne cruda: i germani di Tacito (che «si nutrono solo di frutti selvatici e di cacciagione appena uccisa»), gli unni di Ammiano Marcellino (che si limitano a scaldare la bistecca fra il dorso del cavallo e il proprio corpo) sono il prototipo di un modello mentale che durerà nei secoli, tanto che ancora nel Medioevo sono descritti come ‘barbari’ i popoli che non cuociono le carni (gli scandinavi di Paolo Diacono) o i cereali (i mauri di Procopio). E gli eremiti cristiani, quando vogliono esprimere la loro contestazione radicale del ‘mondo’ e della ‘civiltà’, scelgono di cibarsi di sole erbe crude (e selvatiche). E il nobile Ivano, cortigiano di re Artù, reso folle da una delusione amorosa, si inoltra nella foresta dove, abbandonata ogni forma di ‘cortesia’, inizia a cibarsi di sola carne cruda: poi, un po’ alla volta, tornerà gentiluomo, e il primo segno di rinsavimento sarà il ritorno al cibo cotto, preparatogli (curiosamente) da un eremita, come racconta Chrétien de Troyes in un famoso romanzo del dodicesimo secolo.
A questi pregiudizi culturali si sovrappone la diffidenza del pensiero medico-dietetico nei confronti dei cibi crudi. A queste premesse si attengono i libri di cucina, totalmente sbilanciati verso le pratiche di cottura: tutto in tavola si vuole cotto, non solo carni e pesci ma anche frutta e verdura e persino i formaggi, i salumi, i tartufi. Qualche eccezione non manca: il medico Antimo, nel sesto secolo, allude all’uso dei Franchi di mangiare lardo crudo per curare le affezioni del ventre e nota, con stupore ma senza scandalizzarsi, che i popoli abituati a mangiare carni crude solitamente godono di buona salute. Ma il più ampio spiraglio crudista è legato al gusto tutto italiano per le verdure, a cui sono dedicati, fra Cinque e Seicento, appositi trattati di Costanzo Felici, di Salvatore Massonio e di Giacomo Castelvetro (particolarmente significativo il titolo di quest’ultimo, dedicato a «tutte le radici, tutte l’erbe e tutti i frutti, che crudi o cotti in Italia si mangiano»).
Due profondi cambiamenti accompagnano la definitiva riabilitazione del crudo nella gastronomia contemporanea. L’uno di carattere filosofico: il pensiero illuminista e quello romantico, da angolature diverse, per la prima volta rappresentano la natura come qualcosa di buono, come un ‘buono originario’ (pensiamo a Rousseau) che non va modificato, ma conservato così com’è. Il secondo di natura scientifica: solo nel corso del Novecento si è scoperto che ci sono componenti nei cibi, le vitamine, fondamentali per l’equilibrio nutrizionale ma che scompaiono con la cottura. Aggiungiamo lo sviluppo delle tecniche di conservazione, oggi più efficaci e sicure di un tempo. Su queste basi si è rovesciata la nostra prospettiva, che non pensa più al crudo come a un arcaico residuo, ma come a un segno della modernità alimentare. Il percorso dal crudo al cotto pare sulla via del ritorno.
La ricetta perfetta
Leggo che all’Università di Leeds, in Inghilterra, un gruppo di studiosi ha deciso di determinare scientificamente le regole per confezionare il «sandwich perfetto». Dimensione delle fette di pane, spessore del bacon (forse noi avremmo preferito il prosciutto), numero esatto dei secondi di permanenza in forno, temperatura. Dopo centinaia di prove e di assaggi, finalmente è uscita la ricetta (meglio: la formula) ideale.
Confesso la mia perplessità di fronte a iniziative come questa e alla filosofia che le anima: scoprire il canone perfetto, la ricetta giusta, la regola da seguire. Ho sempre nutrito diffidenza verso ogni pretesa di codificazione, normalizzazione, uniformazione: la ‘vera’ ricetta del ragù, le ‘vere’ dimensioni della tagliatella, il ‘vero’ ripieno dei tortellini... C’è troppa ambiguità in questo terribile aggettivo (vero) che vorrebbe bollare come falsa ogni variante, ogni invenzione, ogni scostamento dalla regola. Parlando di tagliatelle e tortellini magari si chiama in causa la ‘tradizione’, che parrebbe l’esatto contrario della scientificità da laboratorio invocata a Leeds. In realtà, le due prospettive si assomigliano molto.
La cucina è fatta soprattutto di libertà, di differenze, di varianti. Lo sapevano bene i cuochi del passato, quando, mettendo per iscritto le loro ricette, non si sognavano neppure di pensare che fossero quelle ‘vere’, da eseguire per filo e per segno: lasciavano, invece, alla pratica e all’inventiva di ciascuno la libertà di «variare sapori e colori» (come leggiamo in un testo italiano del Trecento), ovvero di rispettare il gusto dei commensali, o le abitudini del luogo. Anche i più grandi professionisti (un Bartolomeo Scappi, autore del più importante ricettario del Rinascimento italiano) si limitavano a ‘raccontare’ le loro ricette, mettendone insieme più di una per ciascun tipo di vivanda, proprio per suggerire la non-esistenza di un codice obbligatorio da seguire. Non parliamo poi della cucina di casa, anarchica per definizione, fatta di ricette che cambiano da famiglia a famiglia.
Voglio dire che, in cucina, a parlar di regole bisogna andarci piano. Le regole ci vogliono, eccome: i fondamenti delle tecniche di cottura, la tipologia dei condimenti, i princìpi di accostamento, e prima ancora la conoscenza dei prodotti, sono premesse indispensabili per un lavoro che non sia improvvisato. Ma questo vale (appunto) per i fondamenti: perciò il mio manuale di cucina preferito è un aureo libretto scritto da Gualtiero Marchesi un po’ di anni fa, dove non si trova nessuna ricetta, ma solo la spiegazione delle tecniche di base per conservare tenera la carne, per rendere croccante il risotto, per non far perdere sapore alle verdure... Dopo di che, liberi tutti.
Andare alla ricerca della «vera ricetta» (si tratti delle tagliatelle della nonna o del sandwich di Leeds) presuppone un atteggiamento autoritario, che mal si adatta al piacere del cibo.
Cappelletti e tortellini: il retrogusto della storia
Da che cosa nascono i gusti e le tradizioni alimentari? Di fronte a domande come questa, alcuni episodi sembrano fatti apposta per testimoniare l’importanza della storia come elemento costitutivo delle identità locali.
Prendiamo il gusto della carne ovina, che non si trova dappertutto, ma solo in alcune zone d’Italia. In parte ciò è legato a diversità ambientali: la presenza di pascoli erbosi nel centro-sud e nelle isole storicamente ha favorito la diffusione della pastorizia ovina, mentre al nord, nella valle padana, la presenza di foreste si adattava meglio al pascolo dei suini. Ma anche altri motivi, di natura culturale, servono a spiegare la geografia dei gusti. La tradizione del maiale aveva un ruolo centrale nella cultura alimentare delle popolazioni germaniche, che occuparono gran parte dell’Italia nel corso del Medioevo, stimolando (anche al sud) la predilezione per il suino; la pecora era stata l’animale per eccellenza della pastorizia romana e la si ritrova (anche al nord) nelle aree che restarono più a lungo legate a quella tradizione produttiva e culturale.
Si consideri il caso dell’Emilia-Romagna, una regione che deve il suo duplice nome alla duplice storia che la contraddistinse nel Medioevo: l’Emilia occupata precocemente dai longobardi, entrati in Italia nel sesto secolo, e la Romania (ossia «terra dei romani») che proprio allora prese questo nome, perché, sottraendosi per secoli alla conquista longobarda, rimase a lungo sotto il controllo imperiale della ‘nuova Roma’, Bisanzio, attraverso l’amministrazione dell’esarca di Ravenna. Queste diverse realtà politiche e amministrative produssero esiti importanti anche nelle tradizioni alimentari: il gusto della pecora non ha mai veramente ‘sfondato’ a nord di Bologna, mentre caratterizza fortemente la tradizione gastronomica della Romagna (consolidata, nel secondo dopoguerra, dall’arrivo di molti pastori sardi sull’Appennino). A metà strada fra i due modelli sta Bologna, dove il castrato si mangia, ma come specialità, per così dire, ‘esotica’: «castrato di Romagna» si può leggere nelle botteghe del mercato. Al di là di possibili diversità legate al paesaggio, all’ambiente o al clima, tali consuetudini non possono non richiamare la contrapposizione culturale fra longobardi e bizantini delineatasi durante il Medioevo.
La differenza tra le due culture si legge anche nel modo in cui sono riempiti i cappelletti e i tortellini secondo le tradizioni tipiche delle due aree: in Emilia, tortellini con ripieno di carne (che esprimono un’originaria cultura del maiale); in Romagna, cappelletti ripieni di formaggio (che esprimono una cultura della pecora, fornitrice di latte e di formaggio prima che di carne). Apparentemente simili, i due oggetti rispecchiano storie distinte, di cui si percepiscono gli elementi comuni e le diversità: a tenerle insieme c’è la grande tradizione italiana delle paste ripiene, frutto di una cultura condivisa, nata fra Medioevo e Rinascimento; a distinguerle ci sono le ‘declinazioni’ locali della farcia, che rimanda a storie e tradizioni diverse.
Questa micro storia, al pari di tante altre, ci mostra lo straordinario spessore culturale che si nasconde dietro le tradizioni di cucina. Dietro ogni piatto, dietro ogni sapore c’è un diverso ‘retrogusto storico’, che vale la pena conoscere e gustare.
Maccheroni, ovvero gnocchi
I maccheroni immortalati da una celebre novella di Boccaccio erano gnocchi. Precipitavano (così vien fatto credere all’ingenuo Calandrino) lungo i fianchi della «montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato» situata nel bel mezzo del Paese di Bengodi, dopo essere stati cotti lassù in cima dentro un enorme paiolo: e giù in fondo, «chi più ne pigliava più se n’aveva». Fu Luigi Messedaglia, il primo vero storico dell’alimentazione italiana, a spiegare che quei maccheroni erano in realtà gnocchi, perché in origine era questo il senso della parola – da maccare cioè ammaccare, impastare. Vivanda cara alla cucina contadina, gli gnocchi erano come una variante delle polente, pultes, pulmenta. I ricettari del tardo Medioevo e del Rinascimento ce ne forniscono le prime ricette, all’insegna della più assoluta semplicità: farina, o pane grattugiato, mescolati con formaggio o rossi d’uovo, fino a ottenere polpettine da cuocere in acqua bollente (o meglio ancora in brodo di cappone, come accadeva a Bengodi).
Se questo era il sogno popolare, neppure i cuochi di corte del Rinascimento intendevano rinunciarvi: Cristoforo Messisbugo prevede gnocchi per la tavola degli Estensi a Ferrara, e anche Bartolomeo Scappi (che lavorava a Roma nelle cucine del papa) ricorda questi «maccaroni, detti gnocchi», «fatti con fiore di farina, mollica di pane e acqua bollente, su la gratacascio, allessati, coperti di agliata» ossia salsa all’aglio.
Dall’America, poi, vennero le patate, ma anche il nuovo prodotto fu assoggettato alla tradizione ed entrò nella composizione degli gnocchi, che a cominciare dal diciottesimo secolo assunsero il sapore dolce a cui siamo oggi prevalentemente abituati. Un esempio fra i tanti di come le culture alimentari sappiano rielaborare le novità adattandole alla propria storia.
Non per questo gli gnocchi medievali scomparvero. Pan grattato e farina, variamente mescolati e arricchiti di ingredienti e sapori, sono ancora oggi protagonisti delle ricette di canederli o knödel (stessa etimologia di gnocchi) che la gastronomia dell’area alpina continua a proporre in varianti in brodo o asciutte, condite con burro, formaggio e spezie dolci (cannella, noce moscata, semi di papavero). Esattamente come mezzo millennio fa. Gli gnocchi di patate hanno invece accolto il pomodoro, e non poteva forse essere diversamente: due prodotti americani si sono di nuovo accoppiati in una ricetta europea.
Ma che forma ha uno gnocco? Se la sua natura è semplicemente quella di essere un frammento di impasto, un pezzo di qualcosa, l’estetica non dovrebbe entrarci molto. Invece le forme sono tante: gnocchi piccoli e grandi, larghi e stretti, ovali, oblunghi, cilindrici, sferici, cubici... La fantasia e l’immaginazione, come sempre, hanno aggiunto sapore al cibo e accompagnato gioiosamente lo stimolo del ventre affamato. Il sogno del Paese di Bengodi non è solo quello della fame soddisfatta, ma anche quello del piacere di mangiare. Piacere di cui anche le forme sono parte essenziale.
L’ammalato ha preso un brodo
«L’ammalato ha preso un brodo». Il vecchio adagio, attribuendo virtù tonificanti al concentrato di succhi servito ben caldo (per gli spagnoli il brodo è caldo tout-court), pare escludere un approccio francamente gustativo a questo genere di preparazione alimentare. L’aspetto nutrizionale appare prevalente, l’idea dell’utile vince su quella del buono. Infatti il brodo – con tutte le sue varianti tecniche e concettuali: zuppe, minestre e così via – storicamente appartiene alla cucina di sussistenza. Soprattutto la tradizione contadina ha affidato alla pentola e alle sue lunghe cotture (bollite e ribollite) la funzione di ristorare il corpo affaticato dal lavoro, sfruttando fino all’ultima linfa le possibilità nutritive di carni e verdure. Modello di cucina domestico per definizione , quello del paiolo sul fuoco costantemente acceso: tante cose da fare ma niente fretta, molta pazienza, e la serenità di una preparazione che non lascia spazio all’inventiva.
In quel brodo si raccoglieva e si concentrava tutto, e mi sono spesso chiesto se ciò abbia a che fare con una singolare coincidenza terminologica che si ravvisa nella lingua latina: j...