Storia di pazzi e di normali
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Storia di pazzi e di normali

  1. 136 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Storia di pazzi e di normali

Informazioni su questo libro

«Erica e Mario sono due pazzi, penso. Sono pazzi come tutti quelli che, un po' ovunque nella città, vengono riconosciuti come gente da manicomio. Pazzi che vivono di diritto negli stessi ambienti urbani della gente normale. Ma che tipo di convivenza è questa tra normali e pazzi? Com'è, dov'è il luogo della loro differenza?»

«Questo libro è uscito per la prima volta nel 1993, è il mio primo libro. Prima di internet, prima dei cellulari, prima dei reality show. C'erano ancora i gettoni del telefono, c'era ancora l'Usl. Sembra trascorsa un'intera era geologica a guardarla così (...) Forse la mia gita di oggi viene dal bisogno segreto di verificare se anche a Villa Bisutti il futuro ha disatteso le aspettative o se invece, in totale controtendenza, ha rispettato le previsioni, assumendo i connotati di un presente positivo, di un presente presentabile.» In una nuova edizione completamente riveduta, questo è il diario immaginario di sei mesi trascorsi presso il Dipartimento di salute mentale di Pordenone.

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Informazioni

1. La crisi

La nostra storia inizia di buonora, in una di quelle belle mattine d’inverno, quando a ogni respiro un fumo bianco esce dalla bocca in nuvolette rade. Il posto è una chiesa moderna in pesanti mattoni rossi, adiacente a un campo di calcio per dilettanti, zona Borgo Meduna. Il campo è deserto ovviamente, come in qualsiasi altra mattina feriale di una laboriosa provincia. Pordenone ha già messo in moto la sua gente. Per tutta la giornata terrà impegnati quelli che, di fama e di fatto, sono i suoi «onesti lavoratori» e per loro tramite farà funzionare ancora una volta quella pancia addormentata che è la sua ricchezza, quell’ampia distesa arginata dai fiumi, che si guarda placida e sorniona mentre ingrassa, mezza agricola, mezza industriale e acerbamente terziaria.
Per quel campo sono passati, circa un’ora fa, Erica e Mario. Lo hanno calpestato trasversalmente, in direzione del portale laterale della chiesa, guardandosi bene dal cadere nelle aree calve della zolla: lei anzi indicava le macchie senza erba con un’aria in certo modo divertita, lui, serio e contratto, perso in un soliloquio crescente, dava già le prime avvisaglie di una crisi acuta.
Dal momento in cui sono entrati in chiesa l’energia fluida del delirio è uscita dal corpo di Mario gonfiandosi negli ampi vani delle navate, è cresciuta su se stessa come il dolore di una piaga toccata sul vivo e ha guidato i movimenti e le espressioni della malattia. È da un’ora che Mario sta sfasciando grossi ceri sugli spigoli dei banchi, urlando e sussurrando a ritmo alterno. Questa volta non se l’è presa con i suoi capelli, le sue mani, il suo viso, almeno non finora. Probabilmente si scaricherebbe su altri che non fossero ceri, ma la chiesa si è svuotata in un attimo delle sue vecchiette e di un paio di ospiti casuali che prima erano intenti a pregare. Il parroco si è asserragliato in sacrestia. Solo Erica è rimasta lì a guardare. Sulle prime ha tentato un rimprovero, una controffensiva, ha sperimentato la sua legge morale, poi si è limitata a osservarlo in ginocchio sul banco, ancora con le mani giunte e quel sorriso ebete, suo come di tanti altri psicotici gravi. Lui cammina veloce lungo la corsia centrale, andata e ritorno – passi brevi, testa reclinata sulla spalla, occhi appuntiti oltre gli occhiali –, a tratti guarda in alto, verso i finestroni colorati, e inveisce, bestemmia, si lamenta, per poi riprendere a bisbigliare, senza mai interrompere il cammino. Le cose che dice non sono facilmente comprensibili, restano imprigionate in una corrente di suoni indistinti, un’articolazione di forme vuote, come di una lingua straniera. Quel suo itinerario ossessionante tra i banchi della chiesa va di pari passo con il suo monologo, è uno sfogo che esce incontrollato, dappertutto, un’eccedenza, una sovrabbondanza di segni e rappresentazioni al punto di perdere nel proprio dilagare sconnesso l’ordine con cui è stato concepito. Non c’è controllo, non c’è freno, tutto si deve dire, tutto si deve fare, tutto deve uscire, andare fuori e mostrarsi all’altro. E in questa rincorsa tutto si perde in un sormontarsi di frasi e passi: una storia che sgorga con tanta violenza da annegare sul nascere. Mario si sta mettendo in scena, non fa che raccontare se stesso, ma nessuno lo capisce. La sua mano, alta in cielo, prima benedice e poi maledice, corre sui banchi, afferra e porta alla bocca sempre nuovi frammenti di cera da ingoiare. È visibile il suo smarrimento, il panico di non riuscire a fermarsi, il fremito sordo che lo scuote da un’ora, è visibile l’angoscia di non poter interrompere l’appello che lancia fuori di sé e di non poter neppure lasciarlo andare senza seguirlo: niente gli appare possibile senza l’azione, come se non fosse sufficiente la voce e bisognasse «dire» con il corpo.
Erica guarda Mario in preda a quella corsa balbettante e gli sorride con indifferenza, come da lontano. Tutto ciò sembra non riguardarla, è troppo vicino per non opporvisi, è qualcosa che ha già visto, che ha provato su di sé e che prima o poi riproverà. L’unica misura che la sua autodifesa le consente è questo sorriso, che non è approvazione né pietà, ma triste consapevolezza.
Erica e Mario sono due pazzi, penso. Sono pazzi come tutti quelli che, un po’ ovunque nella città, vengono riconosciuti come gente da manicomio, pazzi che dal lontano 1978, anno in cui i manicomi sono stati aboliti, vivono di diritto negli stessi ambienti urbani della gente normale. Così può capitare, come sta accadendo oggi, che la loro presenza inquietante allontani i normali dalle chiese, magari anche spaventandone i preti. Logico, penso. Ma che tipo di convivenza è questa tra normali e pazzi? Com’è, dov’è il luogo della loro differenza?
Intanto che il parroco, chiuso in sacrestia, telefona al centralino dell’Ospedale Civile, Mario non smette il suo tramestio di gesti minacciosi, invocazioni, atti violenti. Non è ancora riuscito a sedare quella fretta pura che gli viene da dentro, una fretta disastrosa di far niente: pura perché gratuita, gratuita perché inesorabilmente insoddisfatta. Dagli angoli della bocca gli esce una schiuma che ha il colore dei ceri che ha ingoiato e che assomiglia forse a quella che ha sputato in quel colorificio tedesco, dove negli anni Sessanta lavorava come operaio specializzato.
Com’è frequente nei casi di psicosi avanzata, è difficile risalire ai primi sintomi della malattia di Mario. Già parlare di sintomi potrebbe risultare azzardato, visto che nelle psicosi non sembra esserci nulla di delimitato e organico (per patologico che sia) al quale qualcosa come un sintomo possa rinviare. L’esistenza di una struttura psichica definita, ad esempio quella della nevrosi, è messa in discussione alle radici. Per cui bisogna accontentarsi del poco che si vede e di ciò che i famigliari sono disposti a raccontare. Dicevo appunto del colorificio tedesco: a diciott’anni Mario è emigrato a Dortmund con il fratello, di poco più grande di lui. Insieme hanno lavorato e vissuto per qualche anno, poi l’uno è rimasto e l’altro è impazzito. La previdenza sanitaria tedesca ha affrontato i disturbi del paziente fin dove arrivava l’assicurazione per lavoratori stranieri, dopodiché, con l’aggravarsi della situazione, ha sollecitato l’intervento dei famigliari. Il padre ha cambiato l’ultimo assegno della pensione ed è andato a riprendersi il figlio, che ha iniziato così la carriera psichiatrica vera e propria a Pordenone. Da quel giorno Mario vive tra le cure talvolta oppressive dei genitori in una vecchia casa tra l’estrema periferia della città e i primi segni della campagna.
Anche qui il suo squilibrio si è manifestato gradualmente, dai gesti quotidiani, dall’ovvietà domestica, dalla consuetudine senza chiasso di una vita disimpegnata: prima la manomissione delle cose, degli utensili del giardino, o della cucina, la loro alterazione, per incendio, per caduta o per altro ancora, poi la ridisposizione dei mobili della sua stanza verso un’idea di chiusura protettiva, verso la costruzione di una fortezza che respingesse le voci calunniose via via crescenti nella sua mente, le presenze invisibili dell’allucinazione, infine lo sprofondamento in un linguaggio incomprensibile, fattosi veicolo di angoscia e distruzione, dove insieme si corrodono sintassi e logica, dove i termini si scambiano di posto e sovvertono le associazioni ordinarie di significazione. Col tempo lo sproloquio è diventato tutt’uno con le reazioni aggressive, perlopiù autolesioniste, che in certi casi possono anche esprimersi verso l’esterno, lasciando i genitori nel panico e nello smarrimento più completo.
Chiunque abbia provato un’aggressione di un malato di mente ricorda la speciale sensazione di inadeguatezza che di solito accompagna la paura. Colpisce la loro volontà di annientarsi e di annientare contrapposta alla poca famigliarità con il senso del tatto, colpisce il loro desiderio di un contatto fisico violento contro la più totale ripulsa a farsi anche solo sfiorare. È una contraddizione che scuote profondamente: lo dicono per primi gli operatori, che hanno il primato di queste aggressioni. Lo psicotico si difende con l’aggressione da ciò che lo incalza, che lo minaccia e lo invade, che gli chiede di aprirsi per entrare, e il corpo psichiatrico, medico e paramedico, nei primi anni Ottanta, ossia subito dopo la riforma sanitaria, non ha fatto altro che questo. In assoluta buonafede si è presentato dicendo: «Noi siamo qui per voi, venite che vi curiamo, siamo nuovi e siamo buoni». Si è mostrato, suo malgrado, nella forma di un nuovo istituto persecutore, completamente altro rispetto a quello asilare, eppure ancora connotato da un atteggiamento oppressivo. A conferma di ciò aggiungo che, dagli episodi a cui ho assistito, la violenza verso gli operatori non è mai quella indiscriminata di una crisi, ma assume piuttosto il tono preciso di una risposta consapevole, un no all’ennesima ingiunzione a fin di bene, a chi controlla e scruta per salvare. Questa reazione può irrompere improvvisa in una situazione apparentemente serena. Una volta Mario ha scagliato contro un operatore un boccale di birra per essersi sentito chiedere in modo vagamente perentorio di abbassare il volume della radio, e un’altra, di ritorno da una gita al mare, anche in questo caso dal nulla, si è messo a spiegarci accuratamente come avrebbe picchiato, di lì a qualche istante, la suora seduta a un paio di sedili davanti a lui, obbligandoci a fermare il pullman e a far scendere tutta la comitiva prima che accadesse il peggio. Anche la suora custodisce, controlla, aiuta a salvare, ma è soprattutto l’ancella di quell’occhio superiore che tutto vede, che entra ovunque e tutto sa. Ci sono inoltre dei motivi più strettamente biografici, e non solo clinici, che legano Mario alle questioni religiose e che riportano il discorso ai fatti odierni.
Prima che Mario fosse partito per la Germania, il consiglio diocesano locale aveva pressoché costretto suo padre a svendere buona parte dei terreni di famiglia che circondavano la casa, per la costruzione di un campetto di calcio ancora più piccolo e modesto di quello di Borgo Meduna. Il che, oltre ad aggravare le condizioni economiche famigliari, provocò in Mario un profondo senso di ingiustizia che lo guidò in numerosi atti di ritorsione: una vendetta spicciola, infantile, consumata in sabotaggi all’impianto sportivo, dichiarata in scenate ingiuriose durante le funzioni in chiesa, agitata però da un impulso mai completamente sopito. Spesso, insieme agli operatori arrivava anche la polizia e tutto si amplificava a dismisura, prendendo la piega di un intervento di pubblica sicurezza, con tanto di manette e cellulare.
Ma che cos’è questo impulso a vendicarsi e il senso di ingiustizia che lo sottende? Innanzitutto sembra si tratti, piuttosto che di ingiustizia, di una specie particolare di giustizia della quale non si conoscono i criteri di giudizio. Ecco lo smarrimento dello psicotico di fronte a ciò che si mostra arbitrario e che, in quanto tale, gli ripresenta la stessa insensibilità e la stessa freddezza dei luoghi dai quali fugge. E dove si trovano quest’insensibilità e questa freddezza? Probabilmente nel rapporto tra l’interno del soggetto e l’esterno del mondo.
Che si tratti di perturbazioni delle facoltà comunicative o di una mancata coscienza dello stato morboso, o ancora di alterazioni psichiche profonde e irreversibili, la psicosi mette in luce una frattura tra l’io e la realtà così terrificante da costringere l’io stesso a rimettersi esclusivamente alle esigenze della sfera pulsionale e a ricrearsi, attraverso uno strumento come il delirio, un mondo reale che tuteli perlomeno la sua incolumità di soggetto: questa è l’opinione prevalente tra gli operatori dei servizi pordenonesi (non è la sola, ovvio, ma i personaggi che incontreremo in questa storia vi si riconoscono più o meno fedelmente). «Nessuno può parlare senza sentirsi», dice sempre uno di loro, il dottor Aschesi. Il che comporta che nessuno possa ascoltare la propria voce senza dividersi, senza sapere che essa gli parla come la voce di un altro. Imparare a parlare è imparare a conoscere questa separazione, imparare che c’è dell’altro fuori di sé, che la nostra madre non ci appartiene, nella misura in cui non è un tutt’uno con noi. E in un certo senso, il più ampio possibile, questo insegnamento ci viene dalla figura paterna, proprio là dove ci sostituisce nell’unione con la madre.
Il padre mostra al figlio la sua legge, gli insegna a riconoscere la distanza che divide il suo corpo dalle cose, distanza dolorosa forse, ma unica a consentirgli di nominarle, e di usare le parole per comunicare. Quando però la funzione paterna viene esercitata meccanicamente e privata delle sue finalità educative, oppure viene incarnata da una figura avulsa dal contesto affettivo del bambino, la legge da accettare diventa un mero capriccio, una norma imposta, una condanna alla separazione e alla distanza, ancora più dura da sopportare perché aleatoria. Accade così che lo psicotico si rifiuti di vivere in questa forma il rapporto con la realtà che lo circonda. Tutto il mondo sociale gli appare in un modo o nell’altro inquinato da meccanismi di ingiunzione altrettanto aridi e privi di calore di quelli che ha rigettato. Lo psicotico è innanzitutto deluso del modo in cui gli è stato presentato il mondo. Secondariamente, è triste perché il mondo gli mostra ovunque che la sua efficienza è garantita da regole di funzionamento (morali, politiche, sociali) caratterizzate dagli stessi tratti asettici della legge paterna. Tutte le macchine lavorano perfettamente, a pieno regime, ma non ne esce nulla che possa essere amato, così come nulla del padre giuridico ha a che vedere con l’amore paterno. Il dottor Aschesi, ma non solo, ritiene che lo psicotico dal punto di vista etico sia una persona eccezionale, uno che è diventato pazzo pur di dimostrare che questo è un modo meschino di perpetuare pratiche sostanzialmente vuote, uno ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Chiedere perdono
  2. Nota alla prima edizione
  3. 1. La crisi
  4. 2. Un divano senza analista
  5. 3. La vita funziona
  6. 4. Chiuso dentro
  7. 5. Esperimento simpatia