Francesco d'Assisi
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Francesco d'Assisi

La storia negata

  1. 228 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Francesco d'Assisi

La storia negata

Informazioni su questo libro

Messi ai margini, tacciati di essere gente rozza, semplice e senza cultura, i suoi compagni furono i soli che Francesco volle accanto nell'ultimo atto della sua vita terrena. I loro scritti, ignorati per secoli, raccontano un Francesco diverso, finalmente sottratto all'immagine stereotipata in cui la storia ufficiale l'ha confinato. Mai letto nulla di così appassionato sul più ribelle dei santi. Roberto Saviano. Il rigoroso e affascinante libro della Mercuri si legge con passione: è un luminoso esempio di come, di fronte a certi testimoni del Vangelo, sia sufficiente ridare voce alla loro semplice, quotidiana, laboriosa sequela cristiana. Enzo Bianchi. Un libro limpido, pieno d'intensità e di coraggio quanto spoglio di sussiego accademico e di preoccupazioni erudite. Una caccia serrata, a tratti affannosa e incalzante eppure serena, alla ricerca di un personaggio evidentemente a lungo non solo studiato ma anche amato. Franco Cardini

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VII.
La grande censura

1. I frati dottori e lo studio

Alla metà del XIII secolo, molti tra quelli che hanno vestito il saio sono diventati maestri all’Università di Parigi.
La capitale del regno capetingio si è trasformata in un faro della cultura teologica dell’Europa cristiana. Se Bologna brilla per lo studio del diritto e Salerno per la medicina, Parigi rappresenta il sole del nascente sistema universitario, perché eccelle nella cultura teologica, ritenuta summa e fondamento di tutte le altre scienze.
Si tratta di un mondo capovolto rispetto al nostro: la scienza fatica a guadagnarsi uno spazio vitale, stretta dai lacci che le sono imposti dalla fede e derubricata al rango della téchne. Nella percezione dell’epoca, un medico o un notaio messi a confronto con un dottore in teologia sono semplici artigiani e la loro cultura è ritenuta modesta e finalizzata all’esercizio di un umile mestiere. Al contrario, gli studenti che affollano le aule dei maestri parigini e si affrontano in dispute, tese a stabilire i principi della fede e della conoscenza, hanno la ragionevole sensazione di rappresentare l’intellighenzia del mondo cristiano.
La facoltà di teologia dell’Università di Parigi diviene il massimo centro culturale dell’Europa cristiana, in un periodo in cui la cultura è tutta religiosa per definizione. Non è un caso che i due maggiori filosofi dell’epoca, Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio, insegnino nello Studium posto sulla riva sinistra della Senna.
Non è neppure un caso che entrambi appartengano ad un ordine mendicante, rispettivamente all’Ordine domenicano il primo e a quello francescano il secondo, in quanto nel Duecento l’uniformità del mondo religioso altomedievale – formato solo da sacerdoti e monaci – va in frantumi. Sulla scena irrompono i frati, francescani e domenicani, i quali – non soggetti all’obbligo di residenza nel cenobio, come i monaci – vivono e si spostano nelle rinate città, popolando le grandi università, prima come studenti e poi come maestri.
Se per i domenicani, però, il legame con la cultura e l’insegnamento universitario è tacito e auspicabile, per i francescani non lo è altrettanto.
Domenico, il cui ordine non a caso fu denominato dei «Predicatori», incentra la sua attività e quella dei confratelli sulla catechesi delle masse cittadine. Egli intende fare concorrenza ai predicatori improvvisati, in odore di eresia, che, senza il permesso del vescovo o della Curia, nelle piazze dei borghi bassomedievali tuonano contro la corruzione del clero. Egli si accorge che il loro successo non risiede solo nel contenuto dei loro sermoni, ma nel fatto che – a differenza dei vescovi e dei sacerdoti, che sempre meno curano il proprio gregge – essi incontrano le loro «anime», ci parlano, nutrono il loro spirito, e si presentano vestiti umilmente come l’uditorio al quale si rivolgono.
L’intuizione di Domenico è allora quella di formare un esercito di predicatori professionisti che, imitando i contestatori anticuriali, si presentino alle folle armati da un lato della loro stessa ostentata povertà, dall’altro di una migliore preparazione teologica.
In tale contesto, l’entrata dei domenicani nelle università fu, dunque, logica conseguenza del progetto di Domenico di Caleruega. Ma assai diverso si presentava, invece, il discorso per i francescani, i quali – come abbiamo visto – inizialmente non potevano neppure affrontare, nell’ambito delle loro prediche, questioni teologiche o dottrinarie, in quanto essenzialmente laici e quindi non autorizzati alla predicazione vera e propria. Predicare, inoltre, secondo l’intendimento di Francesco, non doveva tradursi – come lo era per Domenico – nello smascherare «la falsa scienza» dei contestatori, o nel mettere in minoranza l’interlocutore, vincendo su di esso attraverso la propria scienza; predicare doveva avere solo il senso di comunicare il Vangelo, di spingere ad abbandonarsi alla volontà e bontà divina. Ciò poteva e doveva essere fatto con la massima semplicità. Disquisire, discettare, interpretare, dimostrare, correggere, denunciare errori dottrinari era, invece, altra cosa rispetto all’annuncio del Vangelo e Francesco vi scorgeva il pericolo dell’orgoglio, vero nemico dell’umiltà e quindi della minorità.
Nel tempo Francesco aveva ammorbidito la sua posizione nei confronti della predicazione, quel genere di predicazione che andava, appunto, oltre la semplice esortazione, concedendo ad uno dei suoi, Antonio da Padova – il quale gliene aveva fatta espressa richiesta –, il consenso a preparare i frati a tale compito, raccomandando però che esso non togliesse tempo alla preghiera né, in alcun modo, intaccasse il loro spirito di umiltà:
A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco, salute!
Ho piacere che insegni ai frati la sacra teologia, purché nel tempo che le dedichi tu non spenga lo spirito di preghiera e di devozione, come è detto nella Regola1.
La richiesta di altri, che ugualmente intendevano fare dell’attività di studio e di predicazione il centro della propria vita minoritica, non ebbe, però, presso di lui lo stesso successo, e negli ultimi anni della sua vita Francesco non smise di tuonare contro i pericoli della progressione negli studi e della specializzazione nell’attività di predicazione:
Ma guardando in prospettiva, sapeva, per lume dello Spirito Santo (e lo disse molte volte ai suoi frati) che molti frati, sotto pretesto di insegnare agli altri, avrebbero abbandonato la loro vocazione, cioè la pura e santa semplicità, la santa preghiera e la nostra signora povertà. «E accadrà loro che proprio mentre dall’approfondimento delle scritture crederanno di imbeversi di maggior devozione e accendersi d’amore di Dio, rimarranno interiormente freddi e quasi vuoti, perché avranno perduto l’occasione di vivere secondo la loro vocazione. E temo che quanto gli sembrava avere gli sarà tolto, poiché hanno abbandonato la loro vocazione»2.
La corrente dell’Ordine francescano denominata «conventuale», che – come abbiamo visto – spingeva per un’attenuazione dei divieti imposti dalla Regola in materia di studio e predicazione, trovò, una trentina d’anni dopo la morte di Francesco, il suo massimo interprete in Bonaventura da Bagnoregio, nominato nel 1257 generale dell’Ordine.
A giudizio di Bonaventura, solo quando l’Ordine coincideva con una ristretta fraternitas, composta da laici di modesta cultura, il rispetto pedissequo della Regola aveva un senso, ma nei tempi in cui si era giunti – quando ormai vi era stato un massiccio ingresso nell’Ordine di sacerdoti, di lettori universitari, di maestri, di teologi e di predicatori –, essa non aveva più un orizzonte possibile di applicazione.
Non si poteva pensare che in grandi edifici come i collegi universitari ci si potesse attenere ad una povertà letterale, così come l’aveva intesa Francesco e anche per ciò che riguardava l’obbligo al lavoro manuale, egli introdusse una significativa variante, destinata a favorire la componente intellettuale dell’Ordine. A suo modo di vedere, Francesco lo intendeva come semplice fuga dall’ozio, e non come mezzo per rendere i frati tutti uguali, abbassandoli al livello degli emarginati della società. Se il lavoro intellettuale poteva, dunque, essere equiparato a quello manuale, in quanto simile rimedio contro l’ozio, veniva a caderne l’obbligo per gli studenti, per i sacerdoti e per i predicatori.
Anche per ciò che concerneva il possesso dei libri, tema connesso a quello dello studio, Bonaventura risolveva appoggiando la dottrina secondo la quale per non entrare in contraddizione con la Regola ci si dovesse limitare ad un loro semplice uso. Qui la questione si faceva, com’è evidente, fumosa, perché si trattava di considerare i frati come fruitori e non possessori dei libri e dei beni che, formalmente, rimanevano di proprietà dei donatori, del papa, o più in generale della Chiesa. Nella sostanza, però, ciò non impediva che essi restassero nella piena disponibilità dei Minori, facendo perdere quel senso di precarietà che solo – per Francesco – poteva rendere il minore davvero disponibile alla volontà di Dio, e libero da alibi e attaccamenti di sorta.
Nella Lettera sulle tre questioni, Bonaventura peggiorava ulteriormente le cose, spingendo oltre la sua posizione sul possesso e sul lavoro manuale. Egli arrivò a sostenere che le restrizioni imposte dalla Regola avevano il senso di vietare lo studio ai soli illetterati, cioè a quelli entrati nell’Ordine privi di una cultura di base: ognuno doveva mantenere la propria originale vocazione, quella cioè nella quale si trovavano al momento della chiamata. Chi, al contrario, aveva fatto il suo ingresso nell’Ordine già istruito, poteva proseguire fino ad abbracciare la carriera universitaria.
Il cavillo trovato da Bonaventura per attenuare i divieti di Francesco risultava così più nocivo della sua stessa messa in discussione. Esso stigmatizzava, infatti, una pericolosa distinzione tra frati letterati e frati illetterati, che stabiliva, di fatto, anche una diversità di mansioni, in base alla cultura d’origine e all’estrazione sociale. Veniva così a riproporsi quella divisione, secondo il ceto e secondo il ruolo, che aveva caratterizzato il mondo monastico e che la fraternitas di Francesco aveva voluto cancellare di netto.
L’aver ricondotto la necessità del cambiamento ad una mutata composizione sociale dell’Ordine andò nella direzione consueta – già tante volte sperimentata, ancora vivo Francesco – di fingere che nell’Ordine vi fosse stato un avvicendamento antropologico tra frati illetterati e frati dottori. Come se, per una casualità, i compagni di Francesco fossero stati ignoranti o di bassa cultura, mentre quelli giunti successivamente – reclutati fuori dall’area umbro-marchigiana – istruiti e di ceto elevato.
In realtà l’avvicendamento suggerito da Bonaventura vi fu, ma non dipese né dalla diversa estrazione sociale dei nuovi adepti né dal loro differente bacino di reclutamento, ma dal deciso cambio di rotta voluto dall’ala clericale dell’Ordine. Basterebbe porre a confronto proprio il percorso di studi di Bonaventura con quello di Bernardo di Quintavalle, primo compagno di Francesco. Bonaventura proveniva da una famiglia borghese di Civita di Bagnoregio, piccolo borgo della Tuscia, mentre Bernardo era originario di una nobile famiglia di Assisi. Il secondo dunque era superiore al primo per nascita e, come abbiamo visto, l’origine nobiliare dei compagni di Francesco fu un fatto tutt’altro che eccezionale.
Bernardo, al momento del suo ingresso nella fraternitas aveva terminato, o stava per terminare a Bologna gli studi in giurisprudenza. Il che vuol dire che, in entrambi i casi, egli aveva dovuto necessariamente conseguire il titolo di magister in artibus, maestro nelle arti, che era propedeutico alla specializzazione universitaria. Tale titolo, magister in artibus, era anche quello posseduto da Bonaventura al momento della sua entrata nell’Ordine francescano.
La differenza, dunque, non era in ingresso – come voleva suggerire Bonaventura – ma si determinava una volta vestito il saio: mentre Bernardo aveva rinunciato agli studi, Bonaventura aveva voluto proseguirli fino al massimo grado.
L’avvicendamento, dunque, non fu né antropologico né di area di provenienza, ma culturale: all’epoca di Bonaventura i frati erano incoraggiati a proseguire negli studi, proprio nel solco del monachesimo tradizionale, in quanto essi favorivano l’avanzamento nella carriera ecclesiastica ed universitaria. L’aspirazione a divenire un’istituzione capace di incidere profondamente sulle scelte e gli indirizzi della Chiesa e della società determinò quel cambiamento, un cambiamento legittimo – come legittimo è il mutare di ogni istituzione – e che non avrebbe arrecato alcun danno alla figura storica di Francesco, che qui ci sta a cuore, se non si fosse voluto mascherarlo, attenuarlo, dissimularlo, negarlo.
Mentre i predecessori di Bonaventura, inoltre, avevano permesso – nonostante le personali simpatie e inclinazioni – che all’interno dell’Ordine convivessero più anime e più modi di confrontarsi con la figura del fondatore, Bonaventura volle imporre un pensiero unico, rivendicando, al contempo, la perfetta filiazione tra l’istituzione da lui trasformata e la primitiva fraternitas assisana.
Tale pretesa continuità col passato portò a tutta una serie di aggiustamenti della verità storica, di piccole omissioni, di adattamenti, di forzature che sfociarono, com’era prevedibile, in una clamorosa azione di censura, il cui esito più funesto fu quello di definire un’immagine univoca di Francesco, da assumere come si assume un dogma.

2. Bonaventura e Gerardo da Borgo San Donnino

Ma vediamo ora come Bonaventura venne a trovarsi all’apice dell’istituzione francescana e perché ebbe l’occasione d’imporre una svolta tanto decisiva.
Egli nacque intorno al 1217, co...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Parte I. Salvare la memoria e non il corpo
  3. I. Il suo corpo non sarà toccato
  4. II. Una biografia ufficiale
  5. Parte II. Francesco nel ricordo dei compagni
  6. III. Un’antica amicizia
  7. IV. Vita alla Porziuncola
  8. V. La scelta di Chiara e le sorelle
  9. VI. Francesco messo ai margini
  10. Parte III. La storia negata
  11. VII. La grande censura
  12. VIII. Una lampada resiste accesa
  13. Nota bibligrafica