Un filo rosso lungo un secolo
Sarà un’iperbole, ma Giovanni Zaretti, con le sue storie e i suoi attraversamenti, mi appare come una delle icone più potenti della Storia del secolo scorso. In particolare, di come l’esperienza partigiana sia un punto di estremo addensamento della storia. Un nodo formato da quel lungo filo rosso che taglia trasversalmente il Novecento, un nodo dove confluiscono molti passati e si dipartono molti futuri.
«Devi aver pazienza, ma queste gambe hanno fatto 3500 chilometri!», dice scendendo lentamente dall’automobile mentre andiamo nel centro di Domodossola per bere un caffè.
Poi ti racconta le sue storie, e se la ride di gusto. «Ormai sono anch’io come gli ex combattenti del ’15-’18», intercala a un certo punto del racconto della guerra: «E i reduci io li ho sempre detestati!». Ride, e poi continua a raccontare le sue storie ridendoci sopra. Questo suo riso, del resto, fa di lui un non-reduce. È un riso che rende vive e presenti tutte quelle mille storie che si intersecano continuamente in una aggrovigliata matassa, da cui Giovanni si lascia avvolgere seguendo il filo dei ricordi e delle immagini che gli si presentano continuamente vivide davanti agli occhi, una matassa che a te che ascolti è dato di fartene avvolgere a tua volta, e di sbrogliare.
A otto mesi Giovanni, in braccio a sua madre, sale sull’Orient Express che ferma a Domodossola a mezzanotte. Dopo poco attraversa il Sempione, entra in Svizzera, e nel primo pomeriggio è a Parigi. Suo padre, Francesco, è già lì da qualche mese. Lui in Svizzera c’è arrivato passando per i monti della Valle Antrona, aiutato da un cugino contrabbandiere.
I monti, suo padre, li conosceva fin troppo bene. E non solo perché era nato in Valle Anzasca, una delle tante valli laterali dell’Ossola, ma perché sui monti, quelli veneti, ci aveva fatto pure la Grande Guerra. C’era andato volontario, a diciott’anni, nel ’16. A Giovanni era la madre a raccontare le storie del papà in guerra. Gli diceva che stavano sul colle dietro l’altipiano di Asiago, e che gli austriaci urlavano agli alpini che andavano all’assalto: «Cosa aspettate a far fuori quell’idiota di Cadorna? Vi fa ammazzare tutti! Qui non passerete mai!». «Siete italiani? Allora non sparateci addosso!». «Dobbiamo spararvi, se no ci mettono al muro per tradimento!», rispondevano urlando quei trentini dell’esercito del kaiser. Giovanni si immaginava un mondo incredibile, che quel grande uomo di suo padre era riuscito ad attraversare indenne. Adesso quel grande uomo lo faceva crescere in quel mondo grande e incredibile che era Parigi.
Giovanni è parigino, ancora conserva quella erre alla francese e l’accento parisien. Nato a Villadossola, ma fuoriuscito a otto mesi, la Francia la sentiva come la sua patria. Sapeva bene di essere italiano, ma l’Italia era distante e ostile, non voleva quelli come suo padre, e come lui.
Forse era diventato socialista in trincea, Francesco, o forse qualcosa aveva già ruminato prima, quando lavorava in fabbrica, alla Ceretti, dov’era entrato a lavorare quando aveva dodici anni, ed era comunque riuscito a fare la sesta elementare grazie a un maestro che faceva volontariamente le scuole serali per i ragazzi delle famiglie operaie: Giovanni questo non lo sa. Fatto sta che era già dovuto scappare: prima dall’Agro Pontino, dove faceva il meccanico di trattori per i lavori di bonifica, perché i fascisti del luogo lo avevano preso di mira; e poi, quando nel ’21 si era iscritto al Partito comunista d’Italia dopo essere tornato a Villadossola – città operaia che diede sempre filo da torcere ai fascisti –, era dovuto scappare anche da lì, perché a Villadossola venivano mandati gli squadristi in fuga dalla Toscana che avevano commesso delitti e teoricamente erano ricercati, e così potevano sfuggire a eventuali ricerche della polizia, e intanto venivano messi a lavorare in fabbrica grazie alla protezione del fascio locale. Il figlio del proprietario della Ceretti – che adesso era ingegnere ma che prima della guerra lavorava in officina insieme a Francesco, come usava all’epoca per le famiglie di imprenditori, e perciò erano diventati amici – gli aveva detto: «Ho saputo che quei delinquenti che ci hanno mandato in fabbrica ti hanno messo sulla loro lista nera. Ne hanno già ucciso uno, qui, il prossimo potresti essere tu. Non avevi un cugino contrabbandiere? Ecco, fatti aiutare da lui e scappa». Gli conferma la cosa il Sandro, un suo amico di infanzia che adesso è il segretario del fascio di Villadossola, e si sa che in un piccolo paese dove ci si conosce tutti i rapporti sono diversi rispetto a una grande città, e anche lui gli dice che è meglio che scappi, «Io quelli non li controllo».
Dopo un breve periodo a lavorare in miniera, come meccanico sui macchinari, Francesco prende dei contatti e va a Parigi. Sa di essere un bravo meccanico, e sa che le sue competenze gli possono permettere di trovare lavoro ovunque. Lo trova. E lì la moglie e il figlio lo raggiungono.
Per un po’ di tempo, prima di sistemarsi, i genitori di Giovanni lo lasciano a casa di uno zio minatore, con sei figli, in un paese della Normandia. Ed è dallo zio Isep che impara il dialetto ossolano, quello di Calasca, ancora prima di imparare l’italiano. Alla sera, tutti in ginocchio sul letto a pregare la Madonna.
Poi, Parigi, in centro, in boulevard Voltaire, quello che porta da place de la République a place de la Nation. Ma a Parigi ci sta poco, per il momento: a cinque anni Giovanni torna in Italia, e la vede per la prima volta. La madre è gravemente malata, ha bisogno di cure che il padre non può darle per il suo lavoro, che lo assorbe tantissimo, così torna a Villadossola con i suoi familiari. Due anni – il tempo, per Giovanni, di fare la prima elementare – e la madre muore. Quella madre che era tutto il mondo più prossimo, per Giovanni, ed è qui che il tempo e lo spazio si scardinano violentemente. Giovanni si trova a essere un piccolo uomo, adesso che torna a Parigi col padre, e la mattina va a scuola fino a tutto il pomeriggio, poi torna a casa, fa i compiti, e per tenere vivo il suo italiano ricopia ogni giorno dieci pagine di un libro italiano, finché alla sera il padre torna dall’officina. Lui è capofficina di una fabbrica di cinquecento operai che produce macchine per la lavorazione del caffè e del cacao, e una volta all’anno viaggia fino in Brasile per istruire quelli che devono utilizzarle.
Francesco cerca di non fargli mancare niente, a suo figlio, e gli compra pure un violino e lo manda a lezione dal professor Armando, che è dovuto scappare da Napoli alla vigilia di diventare primo violino al San Carlo perché i fascisti gliel’avevano giurata, e allora dà lezioni private nell’osteria del Campagnoli, che grazie a lui a ogni Natale si mangia sempre il panettone Motta a casa Zaretti, e insomma il maestro Armando gli vuole bene a Giovanni, come quel giorno che lo vede con una mano ferita, «Ehi che hai fatto?», «Maestro, mi hanno chiamato macaroni, e allora gli ho mollato un cazzotto!», che il cazzotto di Giovanni poi è bello tosto. Giovanni è piccolo, appena uno e sessanta, ma atletico, perché ha fatto per anni un sacco di sport, calcio, un’ala destra veloce come un cazzotto, ginnastica, atletica, bicicletta, che una volta vince una corsa di settanta chilometri e con il premio si compra la sua prima macchina fotografica. E insomma Armando gli dice: «Tu con le mani devi suonare il violino! Se ti chiamano macaroni, prendili a calci, piuttosto, a calci nei coglioni!», e quando finisce la lezione Giovanni torna a casa e le vecchiette del suo cortile lo sentono suonare a casa da anni, ormai, e sanno che è bravo, e gli chiedono di suonargli le canzoni di Tino Rossi, che ovviamente si dice Tinò Rossì, quel tenore corso arrivato a Parigi e diventato il chanteur de l’amour hereux: Jean, gli dicono le vecchiette del cortile, sonne Laissez-moi vous aimer!
Francesco non parla granché con Giovanni del mondo, o di politica. Anzi, non ne parla proprio. A parte il fatto che anche lui, come è costume normale per i valligiani, ai ragazzini non dà granché confidenza, e poi non ci tiene che suo figlio si occupi di politica. Ma sarà la politica a occuparsi di Giovanni. Fin da piccolo, il sabato sera Giovanni segue il padre all’osteria sul canale dove lui s’incontra con altri italiani, operai e non, e molti di loro si pigliano dietro anche il ragazzino, e i ragazzini stanno nei paraggi a giocare, ma tra un gioco e l’altro in quell’ambiente le parole si orecchiano, e si familiarizza con la parola comunista, e con gli insulti lanciati al Duce, e sai che è per colpa sua che l’Italia non ha voluto tuo padre e te, e il comunismo invece è un’idea dove ci si sta comodi, dove nessuno deve lasciare il proprio paese se non vuole, e dove tutti hanno da mangiare e sono liberi di essere quello che sono. Le cose gliele dice anche un grande amico del padre, Invernizzi, che dopo la guerra diventerà segretario della Camera del Lavoro di Milano, un lecchese scappato anche lui per i monti, di notte, verso la Svizzera, per sfuggire ai fascisti che lo cercavano, e insieme a lui, sia quella notte della fuga che nell’osteria del canale, c’era anche Gandolfi, che era dovuto scappare da Pescarenico dove aveva dato vita a un gruppo libertario, e poi andò nelle brigate internazionali in Spagna, che il Giovanni quindicenne, che si sentiva ormai adulto, sognava di andarci anche lui a combattere contro i fascisti, mentre l’Invernizzi nel ’35 decise di tornare in Italia per fare attività antifascista clandestina, e dopo un anno lo presero e lo misero in galera, fino al ’43, e poi avrebbe fondato la prima brigata partigiana del lecchese, la Carlo Pisacane, anche lui, Pisacane, uno che per qualche tempo era emigrato a Parigi.
Giovanni ascolta, e apprende. E apprende leggendo. Tanto è vero che suo padre lo manderà al liceo classico, al Voltaire. Suo padre per fortuna può permetterselo, lavora tanto e guadagna bene, almeno abbastanza bene da potersi comprare, proprio in quel ’34, una Citroën, una delle prime auto a trazione anteriore. C’era poi un amico del padre che insegnava letteratura russa alla Sorbona, e allora Giovanni si innamorò della letteratura russa: a quattordici anni legge Guerra e pace, e poi Cechov, Dostoevskij... Dopodiché si concede anche di andare, al giovedì pomeriggio, a vedere i film di indiani, di Tom Mix, quelli dei ragazzini della sua età insomma.
Ecco, Giovanni è uno sveglio, che si appassiona alle idee, ai nuovi mondi possibili. Legge «L’Humanité», il giornale comunista, e anche «le Populaire», quello socialista. E si iscrive alla Jeunesse Communiste, i giovani del Pcf. E insieme ad altri giovani italiani antifascisti organizza incontri con comunisti fuoriusciti, come Giorgio Amendola, o Vincenzo Grieco, che poi finiscono a dormire in casa sua, ché nella sua camera c’è sempre a disposizione un secondo letto per un ospite.
Solo che ha la lingua lunga, Giovanni, come sempre ce l’avrà nella vita, e rischia subito l’espulsione dal Pcf. È il ’36, l’anno in cui vagheggia di andare in Spagna, e in sezione c’è una riunione a cui interviene André Marty, quell’ingegnere navale che nel ’19, a bordo dell’incrociatore Jean Bart, era stato uno dei leader dell’ammutinamento dell’equipaggio che si ribellò all’ordine di intervenire nella guerra civile russa al fianco dei russi bianchi contro i comunisti. Proprio nei giorni precedenti alla riunione con Marty, era arrivata l’ennesima notizia che Stalin aveva fatto fucilare qualche oppositore. Giovanni si sentiva un rivoluzionario comunista, ma si ostinava a pensare a fondo sulle cose che vedeva: così nel suo intervento fu drastico, Ormai sono dieci che hanno fatto la rivoluzione, e ci sono ancora le spie nel comitato centrale? qui si raccontano un mucchio di balle! Dopo di lui, altri presero la parola in difesa del compagno Stalin, e contro il compagno Zaretti, proponendone l’espulsione. André Marty prese da parte Giovanni: Camarade Zaretti, stai attento perché queste cose si possono anche pensare, ma non si devono dire. Curioso che lo stesso Marty, nel ’52, sarebbe stato espulso con l’accusa di essere una spia della polizia.
Nel ’38 Giovanni ha finito da poco la seconda liceo al Voltaire, che si sposa lo zio Dante, classe 1914, quello che diventerà il comandante partigiano Barbarossa. Dante è andato dal Sandro, che è ancora segretario del fascio, per chiedergli se suo fratello Francesco può rientrare, e il Sandro gli dice che sì, alla pretura di Domodossola non risulta niente di penale contro di lui. Così, Giovanni, il giovane Jean, per la prima volta da quando ha coscienza vede l’Italia.
Il matrimonio è una gran festa. All’osteria di Petrini, sulla strada che porta in Valle Antrona. Giovanni è travolto da quell’allegria, vede perfino il segretario della federazione del Partito comunista di Novara, il biellese Stefano Schiapparelli che aveva già conosciuto in Francia, ballare furiosamente e gioiosamente sul tavolo con Gisella Floreanini, e quella è la prima volta che Giovanni vede Gisella, che poi sarà la prima donna ministro d’Italia durante la Repubblica dell’Ossola.
Francesco deve tornare in fabbrica e riparte dopo tre giorni, ma Giovanni può stare ancora lì, prima che ricominci la scuola. Che frequenti i suoi familiari, che viva in quelle montagne che gli appartengono, che respiri quell’aria. Così impara a conoscere quell’Ossola che poi è la sua terra, e da sportivo qual è va ad arrampicare con alcuni ragazzi e talvolta con una guida, imparando a usare corde e a piantare chiodi in parete, e poi si mette per la prima volta gli sci ai piedi, sul Moncucco sopra Domodossola.
Poco prima del rientro in Francia, Giovanni va al commissariato di frontiera, alla stazione di Domodossola, per farsi timbrare il lasciapassare per l’espatrio. «Ah, signor Zaretti, beato lei che va a Parigi», dice il commissario, cordiale con un giovanotto spigliato e simpatico. «Beh, devo andare a scuola, comunque sì, meglio andare a Parigi a scuola che star qui a guardare per aria!». Poi il commissario legge il documento: «Ah, ma lei è nato nel 1921!». «Dottore, se quel documento non racconta balle sì...». «Allora non posso concederle il visto. Forse lei non lo sapeva, ma è anticipata di un anno la visita militare per la classe del ’21. Mi spiace molto, ma queste sono le regole». Giovanni ci resta secco: appena esce da quell’ufficio, attraversando la stazione, pensa a cosa possa fare, ma capisce che c’è ben poco da fare. Certo, potrebbe uscire per i passi di montagna come aveva fatto suo padre, ma poi non potrebbe più rientrare, e a questa sua terra lui non vuole dire addio proprio adesso che l’ha ritrovata.
Giovanni resta dalla zia, un’altra sorella di Francesco: sta in una piccola stanza proprio sopra l’osteria del Pattarone che la zia gestisce. E con i soldi che gli ha lasciato il padre fa il signorino, in fondo. Che quegli amici con i quali va in montagna gli hanno invidiato fin dal primo momento quel bel paltò che indossa, «ma chi è questo, il figlio di Ceretti?», hanno detto la prima volta che l’hanno visto...
Prima della visita passeranno mesi, e allora la scuola bisogna farla qui. A Domodossola però di licei c’è solo il Rosmini, e il Rosmini è roba dei preti, e dai preti Zaretti non ci vuole proprio andare. Meglio sarebbe il liceo di Novara, che sì è statale, ma qualche professore non proprio fascistone lo puoi anche trovare. Certo, ci sarebbe da comperare la divisa, e iscriversi al Guf, ma tutto sommato sono compromessi che si potrebbero fare pur di continuare la scuola, perché studiare a Giovanni piace davvero. Però il fatto è che Novara è lontana, non puoi fare avanti e indietro, i parenti stanno tutti in valle, e poi c’è anche il p...