Caporetto
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Caporetto

Alessandro Barbero

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Caporetto

Alessandro Barbero

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Alle due del mattino del 24 ottobre 1917, i cannoni austro-tedeschi cominciarono a colpire le linee italiane. All'alba le Sturmtruppen, protette dalla nebbia, andarono all'assalto. In poche ore, le difese vennero travolte e la sconfitta si trasformò in tragedia nazionale. Oggi sappiamo che quel giorno i nostri soldati hanno combattuto, eccome, finché hanno potuto. Ma perché l'esercito italiano si è rivelato così fragile, fino al punto di crollare?

Da cent'anni la disfatta di Caporetto suscita le stesse domande: fu colpa di Cadorna, di Capello, di Badoglio? I soldati italiani si batterono bene o fuggirono vigliaccamente? Ma il vero problema è un altro: perché dopo due anni e mezzo di guerra l'esercito italiano si rivelò all'improvviso così fragile? L'Italia era ancora in parte un paese arretrato e contadino e i limiti dell'esercito erano quelli della nazione. La distanza sociale tra i soldati e gli ufficiali era enorme: si preferiva affidare il comando dei reparti a ragazzi borghesi di diciannove anni, piuttosto che promuovere i sergenti – contadini o operai – che avevano imparato il mestiere sul campo. Era un esercito in cui nessuno voleva prendersi delle responsabilità, e in cui si aveva paura dell'iniziativa individuale, tanto che la notte del 24 ottobre 1917, con i telefoni interrotti dal bombardamento nemico, molti comandanti di artiglieria non osarono aprire il fuoco senza ordini. Un paese retto da una classe dirigente di parolai aveva prodotto generali capaci di emanare circolari in cui esortavano i soldati a battersi fino alla morte, credendo di aver risolto così tutti i problemi.In questo libro Alessandro Barbero ci offre una nuova ricostruzione della battaglia e il racconto appassionante di un fatto storico che ancora ci interroga sul nostro essere una nazione.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858130933

IV
Il conto alla rovescia

Mentre l’artiglieria italiana si preparava al bombardamento contro il San Gabriele e il generale Krafft von Dellmensingen faceva i bagagli per il suo viaggio sul fronte alpino, il 1° settembre Cadorna emanò gli ordini per la prossima offensiva della Seconda Armata, quella che nelle previsioni doveva essere la XII battaglia dell’Isonzo. Il Capo non aveva dubbi sull’opportunità di lanciare l’offensiva, anche se il tempo occorrente per ammassare le riserve e le scorte di munizioni lo indusse a rimandarla alla fine di settembre1. Eppure in quei giorni la corrispondenza di Cadorna con le figlie rivela quanto si stesse insinuando nel suo animo la sensazione che l’esercito era demoralizzato, e che la propaganda sovversiva dilagava “in queste turbe improvvisate che si chiamano eserciti”. Alle violente dimostrazioni contro la guerra cominciate a Torino il 22 agosto e represse nel sangue corrispondevano gli umori sempre più insofferenti della truppa:
Ricevo ora un’anonima di un soldato il quale mi dice che se non faccio finire la guerra tutto l’esercito si rivolta ed ammazzeranno tutti gli ufficiali dal sottotenente al Comandante Supremo. Di roba di tal genere ne ricevo tutti i giorni2.
Mentre cominciavano gli spostamenti dell’artiglieria e l’accumulo dei materiali in vista della nuova offensiva, domenica 2 settembre Cadorna partì per un’altra settimana di vacanza a Lorenzago di Cadore, dov’era già stato a ritemprarsi un mese prima3. Lì continuò a rimuginare sulla crisi morale del popolo e dell’esercito, e sull’incapacità dei politici di porvi rimedio. Alla notizia di un riuscito contrattacco nemico sull’Hermada formulò questo giudizio desolante sulle proprie truppe sconfitte: “sono truppe male inquadrate che non tengono di fronte a un attacco serio, minate anche dal cattivo spirito del Paese”4. Possiamo chiederci se quell’anche non significhi che Cadorna sapeva d’essere lui stesso, in parte, il responsabile di quel malessere, dato lo sforzo immenso che continuava a imporre alle truppe. Ma è come se la consapevolezza che l’esercito di cui era a capo si stava logorando non incidesse minimamente sull’uso che intendeva continuare a farne: davvero, come vide il colonnello Gatti, per Cadorna l’esercito era uno strumento, non un organismo.
Il 3 settembre un’infermiera ventiquattrenne raggiunse l’ospedale che i volontari inglesi della Croce Rossa, diretti dallo storico George Macaulay Trevelyan, avevano impiantato nella settecentesca villa dei conti Trento, a San Giovanni al Natisone. L’infermiera si chiamava Freya Stark, viveva da diversi anni in Piemonte e sarebbe poi diventata una famosa esploratrice. Il viaggio per raggiungere il fronte le aveva suscitato impressioni contrastanti, come scrisse alla madre l’indomani:
Già quando si arriva a Venezia si nota la differenza nel tipo degli ufficiali; perché tutti quegli imboscati di Torino non ci sono più, e trovi la gente che fa il lavoro vero. Una delle prime impressioni è stata davvero triste. Fra Udine e qui il mio vagone si è riempito di giovani sottotenenti che tornavano ai loro reggimenti dopo una licenza e hanno cominciato a parlare della situazione in generale e della vita nelle città da cui venivano; del fatto che tutti sono indifferenti e freddi rispetto alla guerra – e l’atteggiamento delle donne! Posso solo sperare che gli sia capitato di incontrare le compagnie peggiori, ma davvero ascoltandoli mi hanno ferito la loro amarezza e l’assoluto scoraggiamento – tanto che ho dovuto guardar fuori dal finestrino perché mi stavo mettendo a piangere. Spero che nessun inglese possa parlare così delle nostre donne.
Anche le notizie dei giornali erano deprimenti: la più recente era la conquista tedesca di Riga. L’afflusso di feriti era incessante, e quasi tutti (... ma qui la censura ha cancellato la frase, e non sapremo mai cosa aveva scritto Freya a proposito dei feriti). Ma la villa era meravigliosa, il paesaggio anche, e il rombo sordo del cannone, nel sole estivo, faceva battere il cuore al pensiero di tutti quegli uomini che si trovavano laggiù.
Ieri sono uscita con due delle infermiere e ho contemplato lo spettacolo al tramonto, un bel paese di colline, che salgono gradualmente fino alla barriera delle rocce – un paese per cui vale davvero la pena di combattere – “Evviva l’Italia!”5.
Al ritorno di Cadorna da Lorenzago, domenica 9 settembre, il Comando Supremo fu scosso dallo scandalo Bencivenga. Già da tempo era stato deciso che quell’ufficiale, capo della segreteria, avrebbe lasciato il suo posto per andare a comandare una brigata, e a Ferragosto era arrivato a Udine il suo sostituto. Si trattava, come scrisse Cadorna alla figlia Carla, del
colonnello Gabba, distintissimo, figlio del generale Gabba che era capitano del genio a Chieti nel 1861 con Nonno e la cui madre mi faceva uscire quando ero in collegio militare.
La composizione del Comando Supremo, come si vede, era ancor sempre una faccenda di famiglia. A fine agosto il colonnello Bencivenga partì a Roma in licenza e Gabba prese servizio a capo di quello che nel frattempo era stato finalmente ribattezzato Ufficio operazioni. Il commento privato di Cadorna tradisce il suo sollievo alla partenza di un collaboratore che si stava ritagliando troppo spazio: rispetto a Bencivenga Gabba era “altrettanto intelligente ed assai più educato. Non sempre aveva il primo il tatto necessario”6.
In assenza di Bencivenga, però, qualcuno scrisse al Capo riferendogli i discorsi che l’altro faceva a Roma; e Cadorna s’indignò con quel “mascalzone” che si era “montata la testa”. Non contento delle promozioni e decorazioni ricevute, Bencivenga pretendeva d’essere promosso generale e andava dicendo in giro che
in fin dei conti, i piani li aveva fatti in buona parte lui! Io, dimostrandogli molta fiducia, l’avevo ammesso spesso a discutere. Naturalmente le decisioni non potevo che prenderle io ed assumerne responsabilità nella buona ed avversa fortuna7.
Un commento straordinariamente istruttivo, perché dimostra che il Capo non distingueva tra la fase decisionale e il successivo studio dettagliato dell’operazione. O meglio, vedeva solo la prima, e considerava insignificante la parte di pianificazione: e un furfante quell’ufficiale che, essendone incaricato, s’illudeva di avere una qualche importanza.
Nel minuscolo entourage di Cadorna, la notizia che Bencivenga a Roma “dice corna del Capo” si diffuse fulmineamente, e per qualche giorno non si parlò d’altro. A ognuno venne in mente un episodio che dimostrava come il capo della segreteria fosse sempre stato inadatto a quel posto, perché troppo impulsivo, maleducato, presuntuoso, e soprattutto ignorante. Si rise di aneddoti incentrati sul fatto che Bencivenga non sapeva l’inglese e parlava male il francese. Insomma non era uno di loro, e l’impressione è che tutti quanti in segreto si siano rallegrati della sua disgrazia. Il colonnello Gatti, che nonostante tutto lo apprezzava, concluse filosoficamente che la sua rovina se l’era preparata da sé: si era convinto di essere indispensabile e inamovibile, si era abituato a comandare, “credeva di essere il segretario perpetuo; quando ha visto che era come un altro qualunque, tutto il suo risentimento è scoppiato”8.
Martedì 11 settembre il generale Otto von Below, comandante di un’armata sul fronte occidentale, giunse a Berlino e nel pomeriggio si recò all’immenso palazzo neorinascimentale del Grande Stato Maggiore al Tiergarten (nel gergo degli ufficiali, die grosse Bude, “la Gran Baracca”), più o meno sull’area dove oggi si trovano gli uffici della Cancelleria Federale. Una telefonata del generale Krafft von Dellmensingen da Vienna aveva già svelato a von Below il motivo per cui era stato convocato nella capitale; e dunque non rimase sorpreso quando Hindenburg e Ludendorff lo informarono che era stato scelto per comandare una nuova armata, la XIV, destinata a un’offensiva sul fronte italiano, con Krafft come capo di Stato Maggiore. La conversazione fu assai breve; tornato a casa dei suoceri, che lo ospitavano, Below chiamò di nuovo Krafft e decise che si sarebbero ritrovati a Vienna di lì a due giorni9.
La decisione di affidare a von Below il comando dell’offensiva sull’Isonzo non era stata immediata. All’inizio Hindenburg e Ludendorff presero in considerazione l’idea di nominare un’altezza reale, il duca Albrecht del Württemberg o il principe Rupprecht di Baviera, che all’epoca comandavano due gruppi d’armate sul fronte occidentale. Alle due altezze in questione la proposta non dispiaceva, in particolare al duca del Württemberg, che aveva già dovuto cedere per la nuova impresa il suo capo di Stato Maggiore, Krafft. Alla fine si decise diversamente, e questo potrebbe indicare che a Kreuznach, dopo il quadro tutt’altro che ottimistico dipinto da Krafft di ritorno dall’Isonzo, si temeva un fallimento, in cui era meglio non coinvolgere personaggi di sangue reale10.
Nelle fotografie il generale von Below appare alto, snello, sportivo, con piccoli folti baffi all’ingiù. Sessantenne, apparteneva a una delle più illustri famiglie della nobiltà prussiana, che diede alla Prussia e poi alla Germania qualcosa come ventisei generali, di cui sette durante la Prima Guerra Mondiale. Nelle sue memorie, scritte intorno al 1920, non esprime alcun giudizio sul compito che Hindenburg e Ludendorff gli avevano affidato: era un soldato, e obbediva. Per prudenza, in quei due giorni che gli restavano a Berlino non fece parola con i familiari dell’incarico ricevuto, ma quando la moglie, che viveva nella tenuta di famiglia a Insterburg in Prussia Orientale, venne a raggiungerlo per stare insieme qualche ora, non esitò a confidarsi (“la sua riservatezza era già stata collaudata”); poi parlarono soprattutto del figlio, che di lì a due settimane doveva andare sotto le armi11.
Quello stesso 11 settembre, una squadriglia da caccia tedesca dislocata sul fronte occidentale, la Jasta 31, partì per l’Italia; nei giorni successivi l’avrebbero seguita la Jasta 39 e la Jasta 1, oltre a 7 squadriglie da ricognizione12. Lo squilibrio delle forze aeree era uno dei maggiori problemi in vista dell’offensiva, e soprattutto della sua preparazione, che doveva avvenire nella massima segretezza. In quello scorcio d’estate del 1917, ...

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