Noi e il greco, una storia
(...) dai ponti
sul fiume scoprirò dove si riposano
i gabbiani che hanno così tanto
viaggiato.
Non mi riconoscerete voi
che andate a casa senza guardare
non saprete mai chi è l’esiliata
ragazza che vi taglia la strada e
ride.
Giuseppe Conte, da Poesie
Premessa: che cos’è una lingua
Una lingua, qualsiasi lingua, è umana – in ogni sua parola. La vita di una lingua non sta nel funzionamento della psiche – nei singoli pensieri – né negli organi fonatori – nelle labbra, nella gola – di chi la parla. La vita di una lingua sta negli esseri umani che se ne servono per concepire il mondo e per vivere esprimendolo a parole; dunque la vita di una lingua sta nella società.
Una lingua, come a lungo indagato da de Saussure e da Antoine Meillet, è un fatto sociale, perché esprime una certa, irripetibile idea di mondo. Il linguaggio serve agli uomini che condividono quell’idea di mondo per farsi capire ed essere capiti. Una lingua non può esistere senza gli uomini e le donne che in quella lingua parlano e scrivono: se una lingua esiste senza più esseri umani che la usano per esprimersi, allora si definisce lingua morta.
Allo stesso tempo, una lingua è immanente, indipendente dal singolo individuo: non basta che uno solo muti una parola perché la lingua di tutti cambi all’improvviso. Ogni mutamento linguistico è prima di tutto un mutamento sociale: se cambia la società che quella lingua parla, allora la lingua cambierà con lei.
La linguistica è la scienza che studia le lingue e i loro mutamenti. Non è una scienza esatta, matematica, naturale: è una scienza sociale. Se il senso della lingua non è un insieme di regole, la linguistica contemporanea s’intreccia con l’archeologia, l’antropologia, la statistica, la geografia sociale, l’etnologia, l’economia e, prima di tutto, con la sociologia.
Una lingua non è ingegneria: non è possibile determinare incontrovertibili leggi che presiedano al cambiamento delle parole, così come non esistono ineluttabili leggi che presiedono al cambiamento di ogni essere umano.
Spesso si ha l’impressione, osservando l’italiano alle nostre spalle – quello di Petrarca, di Ariosto, di Manzoni, di Calvino –, che una lingua si trasmetta semplicemente di generazione in generazione (trenta o poco più sono quelle che separano il nostro italiano da quello di Dante Alighieri). E così si finisce per credere che i mutamenti della nostra lingua – una parola che scompare, una che appare, una sillaba finale che sparisce, una sillaba iniziale che si aggiunge, verbi dimenticati e verbi arrivati d’altrove, da altre lingue – siano solo il frutto o l’incidente di questa meccanica trasmissione di padre in figlio, di bocca in bocca.
Chiunque abbia mai visto un bambino imparare a parlare – meraviglia – sa che non è così. Non c’è bisogno di alcuna accademia per dimostrare che un errore o una fantasia individuali non bastano a cambiare una lingua in tutti i suoi parlanti: della bizzarria singola non resta che un sorriso. Allo stesso tempo, chiunque abbia mai viaggiato in un paese straniero conosce il senso di emarginazione, confusione o smarrimento che si prova a non comprendere la lingua del posto: non basta balbettare una parola in italiano per cambiare la lingua altrui (anche in questo caso non resta che un sorriso, come i nostri immigrati che ringraziano dopo aver ricevuto un insulto senza capirlo; e chissà quante volte sarà accaduto a noi, viaggiatori smart con la Lonely Planet in mano).
La lingua è quindi lo strumento di una civiltà e l’espressione di una coscienza unitaria di popolo. Non di nazione: quella viene poi, con i confini verticali o sghembi tracciati da chissà chi e chissà perché sul mappamondo (o forse proprio a questo servono le guerre e le religioni). Non basta né serve essere uno Stato per avere una lingua comune. Si pensi alle tante lingue dell’India, ad esempio, o all’arabo parlato dal Marocco all’Iraq fino all’inglese parlato ovunque. Siamo quindi tutti inglesi? Assolutamente no.
La geografia politica non ha nulla a che vedere con la linguistica; la geografia umana invece sì. Se non è sufficiente un’unità nazionale, è però necessaria un’unità culturale per formare una lingua comune.
E se il senso di una lingua sta nel modo di concepire il mondo e di esprimerlo a parole da parte di un popolo, forse nessuna lingua potrà mai illuminare questa verità come il greco. I Greci non sono stati per millenni Stato o nazione, ma sempre sono stati popolo. Costantemente indotti a misurare la loro lingua con la loro concezione della vita, hanno formato, limato, amato o rinnegato il greco scegliendo ogni sua singola parola e preferendola alle parole dei popoli vicini o talvolta usurpatori, secolo dopo secolo, millennio dopo millennio.
Lingua viva, lingua morta: il significato del greco è racchiuso nello sguardo, nella sua storia e soprattutto nel modo di pensare dei Greci, da cui giungono le lontane cartoline raccolte in questo libro.
L’indoeuropeo
Del greco si conosce il suo trapassato remoto: è una lingua indoeuropea. È vero, si dice sempre così, ‘indoeuropeo’, per spiegare – quasi per giustificare o scusare – la natura tutta particolare del greco.
Ma cosa significa, esattamente, lingua indoeuropea? L’indoeuropeo è una lingua di cui non è rimasta traccia né mai è stata scritta: non resta alcuna testimonianza, quindi, né memoria del popolo che l’ha usata. Ma le concordanze tra la maggior parte delle lingue dell’Europa (potremmo dire tutte le lingue europee, ad eccezione dell’iberico e del basco, dell’etrusco, del finnico, dell’ungherese e del turco) e delle lingue dell’Asia (l’armeno, l’iranico, le parlate dell’India e il sanscrito) sono troppo evidenti per essere solo frutto del puro caso. Le comunanze tra quasi tutte le lingue, antiche e moderne, che attraversano l’Europa e l’Asia dimostrano quindi che si tratta di evoluzioni di una lingua originaria più antica: appunto l’indoeuropeo.
Persa la memoria, non resta che la ricostruzione: le nozioni che oggi abbiamo dell’indoeuropeo sono frutto di precisi studi di linguistica storica per ricomporre i frammenti e approfondire la conoscenza di una delle primissime lingue parlate al mondo. Se una lingua è la trasformazione di una lingua più antica, significa quindi che sono esistiti esseri umani che, in un certo periodo, hanno utilizzato la stessa pronuncia, lo stesso vocabolario, la stessa grammatica per definire il mondo: per farsi capire ed essere capiti.
Tuttavia, in nessun tempo e in nessun luogo esisteranno mai due individui che parlano e scrivono esattamente nello stesso modo. Né è possibile che una lingua si trasmetta immutata e invariata da una generazione all’altra. Parliamo forse oggi lo stesso identico italiano della nostra nonna? Scriviamo forse tutti lo stesso identico biglietto – anzi, sms – di auguri? Provate a pensare a qua...