La fabbrica delle storie
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La fabbrica delle storie

Diritto, letteratura, vita

  1. 148 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La fabbrica delle storie

Diritto, letteratura, vita

Informazioni su questo libro

Bruner si impegna a rompere l'isolamento settoriale del diritto per avvicinarlo al più vasto settore della narrazione. Al racconto come regno del possibile. "Tuttolibri"

Tre magistrali lezioni di una delle figure più autorevoli della psicologia contemporanea indagano i meccanismi del pensiero narrativo e il ruolo che esso svolge nella strutturazione della realtà.

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Informazioni

Capitolo primo. Gli impieghi del racconto

I

C’è bisogno di un altro libro sulla narrativa, sui racconti, sulla loro natura e il modo in cui vengono impiegati? Noi li ascoltiamo in continuazione, li raccontiamo con la stessa facilità con cui li comprendiamo – racconti veri o falsi, reali o immaginari, accuse e discolpe – li diamo tutti per scontati. Siamo così bravi a raccontare che questa facoltà sembra «naturale» quasi quanto il linguaggio. Addirittura modelliamo i nostri racconti, senza alcuno sforzo, per adattarli ai nostri scopi (a cominciare dalle piccole astuzie per gettare la colpa del latte versato sul fratellino minore), e quando gli altri fanno la stessa cosa ce ne accorgiamo. La nostra frequentazione dei racconti comincia presto nella vita e continua senza sosta; non meraviglia che sappiamo come trattarli. Abbiamo davvero bisogno di un libro su un argomento così ovvio?1
Io credo di sì, e proprio perché la narrativa è così ovvia, di un’ovvietà che quasi ci deprime. Giacché le nostre intuizioni su come confezionare un racconto o come coglierne il «succo» sono così implicite, a noi così inaccessibili, che ci troviamo nell’imbarazzo quando cerchiamo di spiegare a noi stessi o a qualche dubbioso Altrui che cos’è che costituisce un racconto e non – poniamo – un’argomentazione o una ricetta. E per quanto abili siamo nell’adattare i nostri racconti ai nostri scopi, lo stesso imbarazzo avvertiamo quando cerchiamo di spiegare perché, ad esempio, le cose raccontate da Jago fanno vacillare la fiducia di Otello in Desdemona. Non siamo tanto bravi a comprendere in che modo il racconto esplicitamente «trasfigura il banale»2. Questa asimmetria tra il fare e il comprendere ci ricorda l’abilità dei bambini nel giocare a biglie senza avere un’idea delle leggi matematiche che le governano – o anche quella degli antichi Egizi, che costruivano le piramidi quando ancora non possedevano le cognizioni geometriche indispensabili.
Ciò che sappiamo intuitivamente basta a farci affrontare le routines familiari, ma ci soccorre assai meno quando cerchiamo di comprendere o spiegare ciò che stiamo facendo o di sottoporlo a deliberato controllo. È come la facoltà, celebrata da Jean Piaget, che fin da piccoli ci fa cogliere ingenuamente le categorie dello spazio e del numero. Per farci superare questa intuitività implicita, sembra necessaria una specie di spinta esterna, un qualcosa che ci faccia salire di un gradino. E questo è ciò che questo libro precisamente vuole essere: una spinta verso l’alto.
Perché non esistono altri precedenti di questa spinta? Sarà perché i principi che sono alla base della narrativa sono così difficili da cogliere e da formulare? Forse è così. Oppure, abbiamo qualche ragione per evitare il problema, preferendo convivere con le nostre vaghe intuizioni? Certo non sono mancati i geni che si sono occupati dell’argomento, anche se abbiamo avuto la tendenza a ignorarli come troppo astrusi o troppo sottili – come Aristotele, la cui Poetica abbonda di intuizioni stupefacenti anche per il lettore contemporaneo. Perché la sua peripéteia non è altrettanto nota agli scolari quanto la meno magica idea geometrica dell’ipotenusa di un triangolo rettangolo? La peripéteia descrive le giuste, immediate circostanze che fanno di una normale sequenza di eventi un racconto – ad esempio quando si scopre che un fisico inglese di Oxford o Cambridge apparentemente fedelissimo alla patria passa segreti atomici ai Russi, o quando un Dio che si presume misericordioso chiede d’un tratto al fedele Abramo di sacrificargli il figlio Isacco. Ma non ogni attesa smentita è buona per una peripéteia. L’analisi aristotelica delle condizioni perché una peripéteia funzioni è forse meno utile della definizione pitagorica dell’ipotenusa come una linea che interseca altre due linee formanti tra loro un angolo retto e il cui quadrato è pari alla somma dei quadrati delle altre due? E allora perché rifiliamo Pitagora agli alunni delle elementari, mentre passiamo sotto silenzio ciò che Aristotele ha da dire sulla narrativa? (Ci occuperemo tra poco delle finezze della peripéteia.)
Forse non è soltanto la sottigliezza della struttura narrativa che ci impedisce il salto dall’intuizione alla sua comprensione esplicita – qualcosa che va addirittura oltre il fatto che la narrativa è più nebulosa, più difficile da catturare. Sarà forse perché in certo senso il narrare non è innocente, di sicuro non innocente quanto la geometria, perché è circondato da un certo alone di malvagità o immoralità? Ad esempio, è bene in qualche modo diffidare di una storia troppo bella. Essa implica troppa retorica, un che di falso. Giacché i racconti, forse in contrasto con la logica o la scienza, appaiono nel complesso troppo sospetti di secondi fini, di caldeggiare uno scopo specifico e, in particolare, di malizia.
Forse questo sospetto è giustificato. Infatti i racconti non sono sicuramente innocenti: hanno sempre un messaggio, il più delle volte così ben nascosto che nemmeno il narratore sa quale interesse stia perseguendo. Ad esempio, i racconti cominciano sempre dando per scontata (e invitando il lettore o l’ascoltatore a dare per scontata) l’ordinarietà o normalità di qualche particolare stato di cose nel mondo – la situazione che dovrebbe esistere quando Cappuccetto Rosso va a far visita alla nonna, o che cosa un piccolo nero dovrebbe aspettarsi arrivando alla scuola di Little Rock, in Arkansas, dopo che il caso Brown contro il Consiglio per l’Istruzione ha posto fine alla segregazione razziale. A questo punto, la peripéteia sconvolge le attese: è un lupo travestito da nonna o, nell’Arkansas, la milizia del governatore Faubus che blocca l’ingresso alla scuola. Il racconto è partito, con l’iniziale messaggio normativo in agguato sullo sfondo. Forse la saggezza popolare riconosce che è meglio lasciare che il messaggio normativo rimanga implicito piuttosto che rischiare un confronto aperto su di esso. Vorrebbe la Chiesa che i lettori della Genesi criticassero l’iniziale «vuoto» del Cielo e della Terra, protestando «ex nihilo nihil»?
Così, i teorici della letteratura usano dire, ad esempio, che i termini della narrativa letteraria significano soltanto, non denotano nel mondo reale3. Solo gli avvocati o gli psicoanalisti chiederebbero chi rappresentava in realtà il Mago di Oz! Eppure, un giovane classicista di Oxford mi disse una volta in tono di rimprovero che il realismo familistico di Sigmund Freud aveva distrutto per la sua generazione l’Edipo Re come narrazione drammatica. E io di rimando non potei non protestare che ciò che Freud aveva fatto per l’Edipo Re avrebbe potuto essere anche peggio per la vita familiare fuori della scena!
In ogni caso, qualunque sia l’origine della nostra singolare reticenza, raramente ci chiediamo quale forma venga imposta alla realtà quando le diamo la veste di un racconto. Il senso comune si ostina ad affermare che la forma di racconto è una finestra trasparente sulla realtà, non uno stampo che le impone la sua forma. Non importa che tutti sappiamo, per esempio, che il mondo dei bei racconti è popolato di protagonisti dal libero volere, dotati di un coraggio o di una paura o una malevolenza controintuitivamente idealizzati, e che per realizzare i loro intenti debbono affrontare ostacoli soprannaturali, o anche soprannaturalmente ordinari. Non importa che sappiamo perfino – ancora una volta per così dire implicitamente – che il mondo reale non è «davvero» così, che esistono convenzioni narrative che governano il mondo dei racconti. Infatti, restiamo attaccati a quei modelli narrativi della realtà e li usiamo per dar forma alle nostre esperienze quotidiane. Diciamo che certe persone sono dei Micawber o personaggi da romanzo di Tom Wolfe.
Ricordo il mio ritorno a New York da una visita in Europa poco più di un mese dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, su una nave che era salpata da Bordeaux con un carico assai variopinto di espatriati americani che tornavano a casa. Ricordo un resoconto giornalistico, forse nella rubrica «Talk of the Town» del «New Yorker», che annunciava che la nave Shawnee, la mia nave, era arrivata il mercoledì precedente a New York con a bordo i personaggi de Il sole sorge ancora, il romanzo di Hemingway, allora ancora popolare, su Americani del bel mondo espatriati. Poiché durante i dieci giorni della traversata ero vissuto in mezzo a gente disperata – famiglie che si separavano per salvarsi, commercianti che avevano dovuto abbandonare le loro imprese, rifugiati in fuga dai nazisti – non potei non essere colpito, già allora, dalla nostra persistente tendenza a vedere la vita imitare l’arte. Perché anch’io ero ricorso alla narrativa nella mia interpretazione di quel viaggio: la traversata della Shawnee come un’altra traduzione in realtà del libro dell’Esodo!
Questa capacità che ha il racconto di modellare l’esperienza quotidiana non può venire semplicemente attribuita a un ennesimo errore nell’umano sforzo di dare un senso al mondo, come sono soliti fare gli scienziati cognitivisti. Né va abbandonata al filosofo da tavolino, che si occupa del secolare dilemma di come i processi epistemologici portino a validi risultati ontologici (vale a dire, di come la pura esperienza ci faccia pervenire alla vera realtà). Nel trattare la «realtà narrativa», noi amiamo invocare la classica distinzione di Gottlob Frege tra «senso» e «referenza»: il primo è connotativo, la seconda denotativa. La finzione letteraria – amiamo dire – non si riferisce ad alcunché nel mondo, ma fornisce soltanto il senso delle cose. Eppure, è proprio quel senso delle cose, spesso derivato dalla narrativa, che rende in seguito possibile la referenza alla vita reale. Anzi, noi ci riferiamo a eventi, a oggetti e persone mediante espressioni che li collocano non già semplicemente in un mondo indifferente, bensì in un mondo narrativo: «eroi» che decoriamo per il loro «valore», «contratti violati» dove una parte non si è «sforzata in buona fede», e simili. Possiamo riferirci agli eroi e ai contratti violati solo in virtù della loro precedente esistenza in un mondo narrativo. Forse Frege intendeva dire (egli è ambiguo al riguardo) che il senso offre anche un mezzo per dare forma sperimentale, addirittura per trovare ciò cui ci si riferisce – così come Mr. Micawber, frutto della fantasia di Dickens, ci induce a vedere certe persone della vita reale in una luce nuova e diversa, forse anche a cercare altri Micawber. Ma sto anticipando. Per il momento intendo solamente affermare che la narrativa, anche quella di fantasia, dà forma a cose del mondo reale e spesso conferisce loro addirittura un titolo alla realtà.
Questo processo di «costruzione della realtà» è così rapido e automatico che spesso non ce ne accorgiamo – e lo riscopriamo con uno shock di riconoscimento, o ci rifiutiamo di scoprirlo esclamando «sciocchezze postmoderne!». I significati narrativi arrivano a imporsi ai referenti di storie presumibilmente vere, perfino nel diritto, come nel caso del «reato di attrazione», illecito che sussiste quando – poniamo – una persona viene indotta in una situazione pericolosa da una tentazione irresistibile creata da un’altra persona. Quindi, in virtù di un verdetto giudiziario, la vostra piscina non recintata viene trasformata, da luogo di innocente svago familiare, in un pericolo pubblico legalmente perseguibile, e voi siete responsabile. Tentazione irresistibile? Beh, non possiamo definirla con precisione assoluta, ma possiamo illustrarla con una linea di precedenti giudiziari che raccontano storie che si presumono simili. Perfino gli antropologi si stanno rendendo conto delle conseguenze politiche nella vita reale del loro modo di raccontare la vita dei popoli primitivi – di come, ad esempio, il loro parlare di autonomia culturale possa aver fornito una giustificazione, per quanto cinica, alla politica di apartheid del Sudafrica4.
Solo quando sospettiamo di trovarci di fronte alla storia sbagliata cominciamo a chiederci in che modo un racconto strutturi (o «distorca») la nostra visione del reale stato di cose. E alla fine cominciamo a chiederci in che modo il racconto stesso modelli eo ipso la nostra esperienza del mondo. Perfino la psicoanalisi si interroga su come la maniera in cui un paziente racconta la sua vita influisce in effetti sul suo modo di viverla: è il detto di Oscar Wilde sulla vita che imita l’arte trasferito sul lettino dello psicoanalista5.
Ma soffermiamoci ancora un poco sui racconti di fantasia e sul modo in cui la narrativa crea realtà così irresistibili da modellare l’esperienza non soltanto dei mondi ritratti dalla fantasia, ma anche del mondo reale. La grande narrativa letteraria restituisce un aspetto inconsueto al familiare e all’ordinario, come usavano dire i formalisti russi, «alienando» il lettore dalla tirannide di ciò che è irr...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Capitolo primo. Gli impieghi del racconto
  3. Capitolo secondo. Il diritto e la letteratura
  4. Capitolo terzo. La creazione narrativa del Sé
  5. Capitolo quarto. Perché la narrativa?