IV.
Guerra e pace:
contrastare il linguaggio d’odio
1. Prologo: Lev Tolstoj, Guerra e pace
Nel primo libro di Guerra e pace troviamo un’altra, insolita proposta di matrimonio. Coinvolge Pierre, figlio illegittimo del conte Bezuchov, divenuto erede in maniera inaspettata di una fortuna immensa. Impacciato e sognatore, fino ad allora deriso dall’alta società, Pierre si ritrova a essere uno dei migliori partiti di Pietroburgo. Si incapriccia della bella Hélène, avida e perfida figlia dell’avido e perfido principe Vasilij Kuragin, ma tarda a chiederne la mano. Per affrettare la proposta di matrimonio, il principe Vasilij organizza una festa e fa in modo che i due giovani restino soli in un salottino, sorvegliati a distanza dai coniugi Kuragin. Pierre, un po’ per goffaggine e un po’ per la consapevolezza dell’inadeguatezza di quell’unione, non si risolve a fare la sua dichiarazione. Fino a che il principe Vasilij non decide di intervenire.
– Aline – disse alla moglie – allez voir ce qu’ils font.
La principessa si avvicinò a quell’uscio, vi passò dinanzi con una significativa aria d’indifferenza, e lanciò un’occhiata nel salottino. Pierre ed Hélène, sempre a quel modo, sedevano lì a chiacchierare.
– Nulla di nuovo – rispose la principessa al marito.
Il principe Vasilij aggrottò gli occhi, arricciò la bocca da un lato, mentre le guance incominciavano a saltellargli con quella sgradevole, brutale espressione che gli era propria; si diede una scrollata, si rizzò, gettò la testa all’indietro, e con andatura risoluta, rasentando le signore, s’avviò in salottino. A rapidi passi, giocondamente, s’accostò a Pierre. C’era, sulla faccia del principe, una tale inconsueta solennità, che Pierre, spaurito, si tirò su, appena se n’avvide.
– Dio sia ringraziato! – esclamò quello. – Mia moglie mi ha detto tutto! – Qui strinse a sé con un braccio Pierre, con l’altro la figliuola. – Cara la mia Lëlja! Io sono tanto, tanto felice... – La voce incominciò a tremargli. – Ho voluto un gran bene a tuo padre... e anche lei sarà per te una brava moglie... Che il Signore vi benedica!
Abbracciò la figliuola, poi di nuovo Pierre, e lo baciò, tra il cattivo odore che gli usciva dalla bocca. Le guance, realmente, gli si erano inumidite di lacrime.
– Principessa, ma vieni qui, dunque! – gridò.
La principessa entrò, e ruppe in lacrime anche lei. La signora anziana, a sua volta, si asciugava gli occhi col fazzoletto. Pierre fu baciato, e più volte, da parte sua, baciò la mano alla bellissima Hélène. Dopo un certo tempo li lasciarono di nuovo soli.
– “Tutto doveva andare così e non poteva andare altrimenti – pensava Pierre – è inutile, quindi, star a domandare se è bene o se è male. È bene, giacché è ormai definito, e non c’è più, come prima, quel tormento del dubbio!”. In silenzio, Pierre teneva stretta la mano della sua fidanzata, e lo sguardo gli andava al sollevarsi e al riabbassarsi di quello splendido seno.
– Hélène! – esclamò ad alta voce, e si fermò.
“C’è qualcosa di particolare che s’usa dire in queste occasioni” pensava: ma a nessun costo gli veniva in mente che cosa, di preciso, s’usasse dire in queste occasioni (Lev Tolstoj, Guerra e pace, pp. 326-327).
Intento per tutta la serata a “parlare di cose secondarie”, scrive Tolstoj, Pierre si ritrova d’un tratto ad aver chiesto la mano della bella Hélène. Il suo comportamento e il suo stesso silenzio vengono distorti – e trasformati dal principe Vasilji in dichiarazione d’amore e proposta di matrimonio.
“C’è qualcosa di particolare che s’usa dire in queste occasioni” – pensa Pierre – ma ricorda le parole solo paragrafi dopo:
– Je vous aime! – esclamò, ricordandosi finalmente di quello che bisognava dire in queste occasioni: ma le sue parole risonarono così squallide, che sentì vergogna di se stesso (Lev Tolstoj, Guerra e pace, p. 327).
Nei capitoli precedenti abbiamo visto che le parole di chi è in una qualche posizione di dominio possono mutare in altro le parole di chi è in posizione subordinata. In questo capitolo vedremo che anche gli astanti – innocenti o conniventi, indifferenti o complici – possono condizionare il potere performativo dei parlanti, la loro capacità di fare cose con le parole. Siamo responsabili non solo delle nostre parole, ma in certa misura anche delle parole degli altri.
E questo nel bene e nel male. La nostra responsabilità ha infatti due direzioni. Abbiamo una pesante responsabilità negativa: possiamo (intenzionalmente o meno) legittimare interpretazioni indebolite e ingiuste, autorizzare la riduzione al silenzio di certi individui, avallare discorsi d’odio. È quello che fanno Hélène e la madre alle parole del principe Vasilij; i giudici in certi processi per stupro (“Le donne che dicono ‘no’ non sempre vogliono dire ‘no’”); i passeggeri che, di fronte a un’aggressione verbale nella carrozza di una metropolitana, restano in silenzio e guardano altrove; gli astanti che ridacchiano quando qualcuno si riferisce a un conoscente con “terrone” o “finocchio”, che minimizzano gli episodi di razzismo e sessismo, che si mostrano insofferenti davanti a denunce e proteste.
Accanto a questa responsabilità negativa, abbiamo anche una formidabile responsabilità positiva: possiamo ostacolare la distorsione degli atti linguistici degli altri, contrastare i meccanismi alla base della riduzione al silenzio, della subordinazione e, più in generale, del linguaggio d’odio. La riflessione teorica stessa può rivelarsi una forma di resistenza concettuale, che ci impegna in qualità di filosofe e filosofi. La filosofia ci permette di plasmare nuove, potenti nozioni, e di metterle a disposizione non solo degli individui ma anche del mondo giuridico, medico, educativo (Haslanger 2012). Dal momento che a contare è stata a lungo la prospettiva sulla realtà di uomini, bianchi, occidentali, eterosessuali, di ceto medio-alto, a volte mancano i concetti stessi utili a definire, raccontare e interpretare realtà che contano per certi gruppi discriminati, o per le donne. Per fare qualche esempio, concetti e termini come “molestie sessuali”, “sessismo”, “femminicidio”, o lo stesso concetto di “genere”, sono categorizzazioni recenti elaborate da studiose femministe allo scopo di colmare queste lacune interpretative e identificare elementi problematici comuni alle esperienze di molte donne. L’importanza di questo potere ermeneutico non deve essere sottovalutata: dare un nome a un problema è il primo passo per identificarlo e combatterlo.
Naturalmente, accanto alla resistenza concettuale abbiamo anche forme di resistenza pratica, che possiamo mettere in atto in quanto cittadine e cittadini. Possiamo allora resistere ai discorsi d’odio e contrastarli, sostenere e amplificare le lotte in difesa dei diritti civili, dare riconoscimento e valore a identità inconsuete di donne e uomini, promuovere narrazioni alternative delle loro relazioni. Tirrell distingue due tipi di contrasto al linguaggio d’odio: da un lato rimedi a un danno già provocato, sorta di antidoti al veleno introdotto nella società dai discorsi tossici; dall’altro strategie preventive, sorta di vaccini in grado di immunizzare la società, o parti della società (Tirrell 2018, p. 136). Parole come pietre; parole come veleno. Come scrive il filologo Victor Klemperer nella sua analisi della lingua del Terzo Reich: “Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico” (Klemperer 1947, trad. it. p. 15).
2. Resistenza concettuale: Pierre ed Elizabeth
2.1. Recezione effettiva
Fino a che punto può arrivare la distorsione degli atti linguistici degli altri? Quella di Pierre è l’antenata illustre di un’altra proposta di matrimonio, utilizzata da Kukla come esempio del ruolo degli astanti non solo nell’interpretare un atto linguistico, ma addirittura nel costituirlo o perfezionarlo come atto linguistico di un certo tipo. La forza performativa delle nostre parole, scrive Kukla, è s...