V.
Peccati capitali
Se prendiamo il globo intero come quadro di riferimento, il primo dato da considerare è proprio il fatto che i suoi abitanti non hanno sempre assunto binarismi di genere come criterio per l’organizzazione della vita sociale e, anche quando l’hanno fatto, ciò è spesso avvenuto in termini assai diversi da quell’opposizione «maschio» versus «femmina» a cui siamo così abituati. Il binarismo di genere è divenuto egemone a livello planetario solo nell’epoca delle grandi imprese coloniali che hanno accompagnato lo sviluppo del sistema capitalista mondiale. Questo non significa che la differenza sessuale non esistesse prima del capitalismo, o che è stato il capitalismo globale a inventare il patriarcato dal nulla. Significa semplicemente che, a differenza di oggi, i ruoli di genere binari non erano universalmente accettati come criteri primari per la classificazione dei corpi e che lo Stato non se n’era fatto l’amministratore biopolitico. Il capitalismo moderno ha reso egemonica la famiglia borghese mononucleare, con i suoi ruoli di genere binari, conferendo così una nuova, e potente, spinta propulsiva alle forme premoderne del patriarcato.
Il femminismo socialista ha da tempo evidenziato come il capitalismo si basi su una divisione di genere del lavoro: dal momento che si fonda sull’espansione illimitata del profitto, il sistema capitalista ha bisogno tanto di estrarre plusvalore dal lavoro produttivo salariato quanto di estrarre lavoro riproduttivo non retribuito, in larga parte ancora svolto dalle donne. Quando consideriamo un capitalista e un lavoratore all’interno del mercato del lavoro, entrambi ci appaiono come liberi soggetti che intrattengono un rapporto contrattuale. Se però seguiamo il capitalista nella «dimora nascosta» della produzione scopriamo il segreto della realizzazione dei profitti e, dunque, della creazione del capitale stesso: in un mercato del lavoro costruito su un sistema salariale, i lavoratori – e in particolare quelli che non hanno altro da offrire se non la propria forza lavoro – possono solo accettare il salario che viene loro offerto. Mentre quest’ultimo non sarà mai molto superiore ad un salario di sussistenza, il capitale si impadronirà del valore prodotto dal loro lavoro sotto forma di plusvalore1. Per questo il capitalismo coincide per definizione con lo sfruttamento e, dal momento che mira a un’espansione illimitata del profitto, sfrutta tanto i lavoratori quanto i secondi sessi che svolgono lavoro di cura non retribuito, i corpi razzializzati da cui viene estratto ancora più plusvalore, e l’ambiente stesso, da cui vengono estratte di continuo risorse senza che queste ultime vengano mai rimpiazzate.
Se continuiamo a seguire il capitalista e il lavoratore anche al termine dei rispettivi turni, quando si allontanano dalla «dimora nascosta» della produzione, ci imbatteremo infatti in un altro tipo di dimora nascosta, e cioè la dimora in cui i lavoratori stessi vengono prodotti e riprodotti. Nei recessi più nascosti di questa dimora non troveremo lavoro salariato ma piuttosto lavoro non retribuito, in larga parte svolto ancora dalle donne. Se è vero che il lavoro salariato è tuttora il fulcro del tardo capitalismo, e l’estrazione di plusvalore dal lavoro salariato è ancora un meccanismo cruciale per l’accumulazione del capitale, è altrettanto vero che, a livello globale, le donne continuano ad essere l’agente primario del lavoro riproduttivo e del lavoro di cura (care work). Senza l’estrazione di lavoro non retribuito dal secondo sesso, il capitalismo non sarebbe sostenibile. In effetti, se il capitalista dovesse corrispondere un salario per tutte le attività di pulizia, cucina, nutrizione, cura e crescita dei figli che le donne svolgono gratuitamente, si porrebbe certamente un grosso limite all’accumulazione illimitata di profitto e, dunque, al capitalismo stesso. In termini più espliciti: il capitalismo ha bisogno delle ‘donne’ perché ha bisogno di far credere che queste non stiano lavorando quando ‘lavano’ le mutande dei propri figli e dei propri mariti: devono credere di farlo perché proprio quello è il loro dovere naturale in quanto buone mogli e buone madri. Ma l’illusione non può durare eternamente: come hanno messo in evidenza Arruzza, Bhattacharya e Fraser, «la società capitalista ospita al suo interno una contraddizione della riproduzione sociale: la tendenza a costringere a servizio del capitale quanto più lavoro riproduttivo ‘gratuito’ sia possibile, senza preoccuparsi di rigenerarlo, producendo periodiche ‘crisi del lavoro di cura’ che logorano le donne, devastano le famiglie e stressano le energie sociali fino al punto di rottura»2.
Percepire il lavoro delle donne non come lavoro in senso proprio, ma come semplice risultato della loro appartenenza di genere, è fondamentale per mantenere la distinzione tra lavoro produttivo e riproduttivo, tra «lavoro salariato», esposto allo sfruttamento, e «lavoro non retribuito», oggetto di «super sfruttamento»3. Questa forma di sfruttamento di genere può essere caratterizzata come «super» perché, mentre lo sfruttamento del lavoro salariato avviene tramite estrazione di plusvalore, lo sfruttamento del lavoro domestico delle donne passa per la negazione della sua natura di lavoro. Lo sfruttamento delle donne non è dunque semplicemente riscontrabile in fenomeni quali il divario retributivo di genere o il fatto che, nel globo intero, le donne sono sistematicamente pagate meno degli uomini per svolgere lo stesso lavoro4: è ancora più evidente proprio nel fatto che gran parte del loro lavoro quotidiano non è retribuito per nulla.
Inoltre, gran parte del lavoro riproduttivo svolto dalle donne del sud globale è escluso dal mondo del lavoro salariato ma è strettamente connesso all’uso di risorse naturali e dell’ambiente: spesso quelle che agli occhi delle corporazioni multinazionali appaiono come ‘erbacce’ da estirpare sono giardini che le donne indigene hanno coltivato per secoli. Le monocolture e l’allevamento industriale, che producono capitale per il mercato globale, sono spesso creati proprio a spese della distruzione di quell’ambiente solo apparentemente ‘naturale’ che fornisce alle popolazioni indigene i mezzi di sussistenza. Come sottolineano da tempo le ecofemministe, ciò che l’industrializzazione considera ‘natura’ – un qualcosa di cui ci si può appropriare gratuitamente – molto spesso non è altro che il lavoro sociale del secondo sesso5.
Oltre ad estrarre lavoro non retribuito dal secondo sesso, il capitalismo ha infatti bisogno di estrarre risorse naturali gratuite dall’ambiente e di creare meccanismi per regolare il flusso del lavoro. Questo è il motivo per cui, fin dai suoi esordi, il capitalismo è andato di pari passo con il colonialismo, cioè con l’estrazione forzata di risorse naturali dalle terre occupate e con l’istituzione di rapporti di dominazione che sottoponevano la maggioranza indigena al comando di una minoranza di invasori stranieri. L’occupazione di terre straniere per mezzo della forza è stata per lungo tempo la fonte principale di estrazione di risorse naturali che non sono mai state ripagate, né alla natura né agli abitanti di quelle terre. L’invenzione del moderno schema razziale, che ha classificato i corpi sulla base del colore della pelle, ha permesso inoltre di regolare il mercato mondiale del lavoro, facendo sì che gli schiavi neri potessero essere spossessati delle proprie vite e del proprio lavoro e che i mestizos e gli indigeni di colore potessero essere completamente eliminati, o retribuiti solo in minima parte. La divisione della popolazione mondiale in razze, distinte tra di loro sulla base del colore della pelle ed altri fenotipi, non è un a priori della mente umana ma una formazione storica a posteriori del capitalismo, formazione che ha mutato profondamente la natura dell’autorità, generando ciò che Anibal Quijano ha definito la «colonialità del potere»6. L’odio per le altre popolazioni e le rivalità intertribali esistevano certo anche prima, ma non hanno mai assunto la forma di una classificazione sistematica della popolazione mondiale sulla base di supposti tratti biologici, come il colore della pelle7. Questa classificazione è iniziata in uno specifico momento nel tempo e nello spazio: è stata inventata dagli europei all’apice della propria impresa coloniale, quando aveva la funzione – che per molti versi ha tuttora – di classificare i corpi a livello globale, così da garantire il primato della bianchezza: catalogare le pelli come nere, marroni, rosse o gialle ha come unico obiettivo quello di rinforzare il bianco come norma rispetto alla quale le altre persone sarebbero tutte ‘di colore’. Il capitalismo necessita di frontiere statali, perché abbisogna di un meccanismo per la regolamentazione della forza lavoro, e quindi anche del razzismo, al fine di assicurarsi che alcuni corpi siano più sfruttabili di altri. È qui che si manifesta con chiarezza il ruolo dell’intersezionalità: essere una donna di colore implica essere oggetto di sfruttamento in un modo che non può essere spiegato dalla somma di «essere donna» ed «essere una persona di colore». Alle persone che sono posizionate in questa intersezione accade qualcosa di molto specifico8.
Muovendo da osservazioni di questo tipo, Maria Lugones ha avanzato di recente l’utile nozione di «colonialità del genere»9. Con questa espressione Lugones ha messo in evidenza l’intreccio tra la divisione binaria «uomo/donna», «maschio/femmina» e la classificazione dei corpi sulla base della...