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«Fatti che la storia del nostro paese
non ricorda»1
Ci sono frequenti richiami di testimoni e giornalisti che vedono in questa spaventosa esplosione un’appendice bellica, come se si fosse tornati ai tempi della guerra. Per trovare qualcosa di simile, la memoria arretra ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Proprio perché la pace regna incontrastata da 24 anni e nulla sembra minacciarla, la bomba omicida alla Banca Nazionale dell’Agricoltura irrompe inattesa. Nessun altro episodio stragista farà tremare le fondamenta dello Stato democratico quanto questa bomba.
La Piazza Fontana di Milano ha una composizione spuria con due interessanti presenze settecentesche, frutto dei progetti dell’architetto Giuseppe Piermarini. Suo è il disegno della fontana, con due sirene sopra ai delfini, che dà il nome alla piazza. Suo è il rifacimento dell’Arcivescovado, in una rinnovata composizione neoclassica. L’armonia settecentesca è interrotta da un moderno palazzo quadrato con terrazze agli ultimi due piani, nel 1969 ingrigito dallo smog. È l’edificio che ospita la Banca Nazionale dell’Agricoltura, giusto all’angolo con l’Arcivescovado. Piazza Fontana è quasi a ridosso del Duomo, se ne può ammirare il profilo alto delle guglie sovrastare i palazzi. La piazza nel 1969 è uno snodo vitale, al suo centro c’è un’edicola, si può parcheggiare la macchina, si fermano gli autobus e i tram.
L’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura è un cerchio di venti metri di diametro. I dipendenti la chiamano la rotonda. Al centro è collocato uno spesso tavolo di mogano di forma ottagonale rivestito di vetro. Le postazioni degli impiegati sono disposte a emiciclo su tre livelli. Le immagini fotografiche che documentano la banca distrutta ingannano: il vano interno sembra molto più ampio. Soltanto entrandoci ci si rende conto che lo spazio equivale a un salone signorile. Lo si immagini stipato di persone, per cogliere quanto sia stato devastante l’effetto dell’esplosione. Quanto alla carica, con una potenza maggiore sarebbe crollato l’edificio, ma è stata sufficiente per seminare distruzione e morte. Una bomba che scoppia in un interno produce conseguenze più gravi rispetto a una carica maggiore che deflagra all’aperto. Al chiuso, oltre all’onda d’urto, il potere distruttivo è innalzato dalle schegge dei materiali colpiti. La posa dell’ordigno sotto al tavolo ottagonale risponde anche all’esigenza di sfruttare il mobilio come corpo contundente.
La mattinata del 12 dicembre «è uggiosa, molto buia, ma tutto attorno c’era un clima di festa». Nel pomeriggio il tempo non migliora, ma rimane una piacevole atmosfera di attesa. Più al riparo, nel giro dei portici che va da Piazza della Scala a Piazza del Duomo, la gente è fitta. Un viavai tra le vetrine illuminate, i sensi solleticati dall’aroma delle caldarroste o infastiditi dal suono delle zampogne. Per alleviare il freddo, con cinquanta lire si può bere un caffè. I bar sono pieni. Questo scenario va simbolicamente in frantumi quando un fragore improvviso irradia la sua onda sonora nel cuore di Milano: raggiunge Piazza del Duomo, la Galleria Vittorio Emanuele, Piazza San Babila, Piazza Diaz, Via Larga e la sede dell’Università Statale in Via Festa del Perdono. È la bomba di Piazza Fontana.
Sono le 16,37 del 12 dicembre 1969. Una carica di circa un chilo e mezzo di cartucce di gelatina di dinamite esplode nel salone circolare della Banca Nazionale dell’Agricoltura. L’edificio è ancora pieno. Ci sono un’ottantina di clienti e circa settanta impiegati. Tutti sanno che al venerdì, per il mercato degli agricoltori, le contrattazioni si protraggono sino alle 18,30. La Banca Nazionale dell’Agricoltura è l’unico istituto di credito del centro di Milano a seguire questo orario2.
L’onda d’urto sprigionata dall’ordigno apre una breccia di circa 80 centimetri sul pavimento, proprio sotto al tavolo ottagonale che l’esplosione polverizza. È lì, nel centro della sala dove la bomba è stata posata, che si trova il maggior numero di persone: clienti che compilano moduli, mediatori agrari intenti nelle contrattazioni.
La pressione del congegno genera una spinta anche verso l’alto, in conseguenza della maggiore resistenza opposta dal fondamento di cemento armato, scaraventando con il suo impeto persone e oggetti. Si sentono i muri tremare, come una forte scossa di terremoto. Gli infissi si sventrano, la cupola a vetro del soffitto e le vetrate dei piani superiori che si affacciano all’interno dell’emiciclo vanno in frantumi, generando uno scroscio di schegge che amplificano gli effetti della bomba. L’inerzia dell’ordigno giunge fino al marciapiede esterno colpendo sette persone con i frammenti della porta d’entrata. Il tram numero 13, a pochi metri dalla banca, si arresta all’improvviso e i passeggeri spaventati scendono di corsa. Sull’altro lato del palazzo, lungo il retro della banca, restano colpite altre due persone (Mario Benigni e Gianfranco Fiocchi) all’interno del ristorante «L’Angelo».
Dopo l’esplosione, una ventata di aria calda accompagna i rumori dei crolli. C’è un principio di incendio al centro dell’emiciclo tra fumo e polvere. Si alzano grida e lamenti. Ci sono ustionati, corpi che bruciano rotolandosi a terra. Il pavimento è disseminato di calcinacci, fogli di carta, moduli e una brochure: Servizio affissioni pubblicità. Cappelli senza più proprietari saranno posati sui banconi di legno lungo il perimetro, altri resteranno per terra schiacciati e imbiancati dalla polvere. Fra il pietriccio, un paio di scarpe con i lacci disintegrati3.
L’impiegato Luigi Rossi si trova al piano terra all’Ufficio Titoli, sta parlando con un cliente, nell’istante del boato s’abbassa per ripararsi sotto al bancone, ma non appena si rialza, della persona che era davanti a lui non restano che brandelli di pelle4.
Anche Giacomo Ferrari lavora all’Ufficio Titoli: è matricola all’Università di Pavia e quell’impiego per lui è transitorio. Un collega l’aspetta per la pausa caffè, alla macchinetta, posta dall’altro lato del salone, ma una telefonata più lunga del previsto lo blocca. Quando riaggancia la cornetta è sorpreso dall’esplosione. Quella conversazione prolungata gli ha salvato la vita lasciandolo in una posizione più protetta.
Fortunato Zinni, ventottenne funzionario, è appoggiato alla parete di vetro dell’ammezzato che dà sul salone e come quasi tutti gli impiegati finisce d’un tratto sbattuto per terra5. Persino al terzo piano un dipendente rimane ferito, 5 restano colpiti al secondo piano, 14 al primo, 13 a pianterreno, in parte salvati dagli spessi banconi in legno degli sportelli che fanno da scudo alle schegge6.
Un altro giovane impiegato, al piano superiore, si sta allontanando dall’ufficio, ma torna indietro per rispondere al telefono. «Quel trillo di telefono mi salvò, ma fui investito dalle schegge di vetro»7. Non se ne libererà più. I frammenti gli si conficcano sotto la pelle, in particolare la sua fronte sotto il sole vedrà sempre apparire minuscoli punti luccicanti. Anche Fortunato Zinni intravede due colleghi colpiti al volto dalle schegge. Al primo piano c’è un altro dipendente: Egidio Pinziroli, 59 anni, di Lodi, si ritrova una scheggia di cristallo conficcata sulla spalla che gli segna di sangue la camicia. Pinziroli non si perde d’animo e, come altri dipendenti, è tra i primi soccorritori: va ad aiutare quei feriti che cercano di trascinarsi verso l’uscita caricandoli poi su auto di passaggio8.
L’esplosione fa scattare immediatamente il telefono della questura che richiama alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. È Fortunato Zinni a rispondere. La polizia ipotizza lo scoppio di una caldaia, nei primi momenti se ne parla anche per strada9. La prima telefonata alla questura, quasi immediata, è di un cittadino che avverte del botto in Piazza Fontana. È stato quell’uomo a immaginare l’esplosione della caldaia, che altro avrebbe potuto essere se non si è più in guerra? Per pura casualità, nel sotterraneo della banca è presente l’addetto al vano caldaie. La ventata dello scoppio lo scaraventa con la spalla contro il muro: pensa immediatamente all’effetto di un’avaria, arriva alle caldaie tra polvere e i calcinacci che cadono, ma le macchine sono intatte10.
All’interno i sopravvissuti cercano di uscire: la corrente è saltata e ha spento i tubi al neon. Fuori è quasi buio. Le persone sono sagome d’ombra nella luce fioca. Qualcuno corre, altri vagano storditi. Si pestano le schegge di vetro, si alza la polvere, un acre odore di mandorle amare si spande nell’aria. È la scia del gas lasciata dall’esplosivo. Un orologio a muro, all’interno del salone, rimane bloccato alle 16,37 e così resterà per diversi anni. Riesce a uscire anche Franca, la segretaria del direttore. Un collega l’accompagna fuori coprendole la faccia con la giacca per «risparmiarle la vista di quello scempio»11.
Raggiunto l’esterno dell’edificio, diversi sopravvissuti stentano a capire che cosa sia successo nella banca e che cosa è accaduto a loro. Feriti, anche gravi, arrivano nella farmacia accanto all’istituto di credito cercando dell’alcol: «Un uomo è entrato chiedendo di essere medicato e aveva uno squarcio alla testa con un occhio fuori dall’orbita»12. La farmacia, come i negozi circostanti, sono i posti nei quali, prima dell’arrivo delle ambulanze, si portano a braccia i feriti. Come in guerra, sono i meno malconci che si occupano di chi è in condizioni più gravi. Piero Papetti resta ferito alle gambe, ha i piedi umidi, bagnati dal sangue, ma nonostante questo aiuta una donna con la faccia tagliata, la porta in farmacia, poi torna in banca e crolla svenuto. L’impiegato Giacomo Ferrari non riesce a prestare aiuto, ha paura. È uscito. Cerca di riprendersi bevendo un cognac al bar, poi decide di rientrare ma è tardi, la banca è già stata transennata13. Altre persone colpite dalle schegge sono immediatamente accompagnate all’ospedale su auto private.
Don Corrado Fioravanti, di...