Nota bibliografica
Ma Marco Polo è andato davvero in Cina? L’inquietante dilemma dovette cominciare a circolare già nel Medioevo, se a proposito del grande viaggiatore veneziano e del Milione il domenicano Jacopo d’Acqui così scriveva nella sua Imago mundi seu Chronica: «Ha registrato meno di quanto ha visto, causa le malelingue, sempre pronte a riconoscere in altrui i bugiardi e a definire falso ciò che essi stessi sono incapaci di credere o capire. Codesto libro è chiamato del Milione sulle meraviglie del mondo. Ora in esso sono contenute notizie mirabolanti e quasi incredibili; per cui gli amici chiesero all’autore, morente, di emendare la sua opera, e togliere ogni eccesso. E la risposta fu: non ho scritto neppure la metà delle cose che ho visto». I detrattori dell’opera (e della vita) poliana non sono mai mancati, e la querelle sull’effettiva esperienza cinese del veneziano non si è mai del tutto spenta, attraversando i secoli e giungendo più o meno integra fin quasi ai nostri giorni, per riacutizzarsi o smorzarsi a seconda della temperie geostorica, dell’evoluzione delle ricerche ovvero degli interessi personali dei vari studiosi. La definizione di «questione marcopoliana», adottata in G. Bertuccioli, F. Masini, Italia e Cina, Laterza, Roma-Bari 1996, sembra esprimere efficacemente l’alternarsi di polemiche e il comporsi di schieramenti.
Il dubbio, peraltro, aveva iniziato ad accendere il dibattito scientifico sin dal 1745, con la pubblicazione a Londra di A New General Collection of Voyages and Travels, una collana di viaggi meglio conosciuta come Astley’s Voyages (dal nome dell’editore). Tradotta in francese col titolo di Histoire générale des voyages (a cura dell’abate A.-F. Prévost, 15 voll., Didot, Paris 1746-1770) e in tedesco col titolo di Allgemeine Historie der Reisen (Breitkopf, 21 voll., Leipzig 1747-1774), l’opera tendeva a ridimensionare i viaggi di Marco Polo, addebitandogli diverse lacune descrittive – quali la mancata menzione della Grande Muraglia – e avanzando l’ipotesi che le storie del viaggiatore fossero state in realtà confezionate per sentito dire. Un tale embrione di teoria «negazionista» dovette essere puntualmente e categoricamente ricusato in W. Robertson, An Historical Disquisition Concerning the Knowledge which the Ancients Had of India, Strahan and Cadell, London 1791 (trad. it., Ricerche storiche su l’India antica, su la cognizione che gli antichi ne avevano, e su i progressi del commercio con questo paese avanti la scoperta del passaggio pel Capo di Buona Speranza, Ferrario, Milano 1827), laddove si intese sottolineare come la narrazione di Marco Polo fosse «l’indagine più minuziosa realizzata riguardo all’Oriente fino a oggi, e la descrizione più completa offerta da un europeo». Ma il dibattimento s’era ormai avviato, e pertanto nuove critiche dovevano essere portate alla veridicità poliana in K.D. Hüllmann, Städtewesen des Mittelalters (4 voll., Marcus, Bonn 1826-1829).
In seguito, però, nessuno dei grandi orientalisti dell’Otto e del primo Novecento ebbe a contestare l’autenticità della spedizione di Marco Polo nell’Impero di Mezzo (o Celeste Impero). Non ne dubitò M.G. Pauthier in Le livre de Marco Polo citoyen de Venise, 2 voll., Didot, Paris 1865, né H. Yule in The Book of Ser Marco Polo, the Venetian, Murray, London 1871 (edizione integrata successivamente e a più riprese da H. Cordier, fino a Ser Marco Polo: Notes and Addenda to Sir Henry Yule’s Edition, Containing the Results of Recent Research and Discovery, Murray, London 1920). Non ci fu spazio per lo scetticismo in A.C. Moule e P. Pelliot nella loro edizione del testo poliano, The Description of the World, 2 voll., Routledge, London 1938, e tanto meno in P. Pelliot, Notes on Marco Polo, in Oeuvres posthumes de Paul Pelliot, vol. I, a cura di L. Hambis, Imprimerie National, Paris 1959. E non esitò ad avallare la genuinità del viaggio poliano L. Hambis in La description du monde, Klincksieck, Paris 1955 (edizione aggiornata Le devisement du monde, introduzione e note di S. Yérasimos, Maspero, Paris 1980).
Sulla medesima linea tesero a porsi pure un grande geografo e geologo quale Giotto Dainelli con La conquista della Terra, Utet, Torino 1950, e il filologo romanzo Leonardo Olschki (già artefice di una Storia letteraria delle scoperte geografiche, Olschki, Firenze 1937), che in L’Asia di Marco Polo, Sansoni, Roma 1957, condensò il ciclo di lezioni tenute presso la Fondazione «Giorgio Cini» di Venezia e nella vecchia sede dell’Ismeo (Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente) di palazzo Brancaccio a Roma. Lo stesso istituto romano s’era reso promotore nel 1954, su impulso del presidente Giuseppe Tucci, di una serie di conferenze atte a celebrare il settecentenario della nascita di Marco Polo, con l’intervento di insigni specialisti quali lo storico dell’arte medievale Rudolf Wittkower, il mongolista Antoine Mostaert, l’iranista Bertold Spuler, l’indologo Kallidaikurichi A. Nilakanta Sastri, lo stesso Leonardo Olschki e i sinologi Paul Demiéville, Étienne Balázs, Kazuo Enoki, L. Carrington Goodrich, Erich Haenisch, Louis Hambis ed Edward H. Schafer. Le relazioni dovettero confluire nel volume Oriente Poliano. Studi e conferenze dell’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente in occasione del VII centenario della nascita di Marco Polo, 1254-1954, Ismeo, Roma 1957, che in qualche modo faceva il paio con i contributi elaborati a cura di R. Almagià in Nel VII centenario della nascita di Marco Polo, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Venezia 1955. In entrambi i casi, la sincerità della vicenda cinese di Marco Polo veniva data per scontata. E una simile impostazione non mutava nella raccolta degli Atti del Convegno internazionale di studi cinesi tenuto alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia nel 1973, intitolata Sviluppi scientifici. Prospettive religiose. Movimenti rivoluzionari in Cina, a cura di L. Lanciotti, Olschki, Firenze 1975 (in cui Alessandro Bausani e Luciano Petech vollero lasciare degli ineguagliabili interventi).
Più avanti si è levata invece qualche voce discordante. Un esperto tedesco di studi mongoli, Herbert Franke, nell’articolo Sino-Western Contacts under the Mongol Empire, in «Journal of the Hong Kong Branch of Royal Asiatic Society», 6, 1966, pp. 49-72 (ripubblicato nel volume da lui curato China under Mongol Rule, Variorum, Aldershot 1994), ha suggerito che Marco Polo dovesse improntare le sue narrazioni a un’enciclopedia araba perduta, manifestando perplessità sul viaggio poliano in Estremo Oriente. Ancor più netto è stato il giudizio espresso da Frances Wood, direttrice del Chinese Department of The British Library, e autrice del volumetto Did Marco Polo Go to China?, Secker & Warburg, London 1995 (che faceva seguito ad articoli di tenore affine apparsi in «The Times» e in «The Sunday Times», con un’eco irraggiatasi al grande pubblico anche attraverso le pagine del «Courrier international»). A dire della Wood, la prova dell’impostura di Marco Polo risiederebbe nel fatto che egli avrebbe ignorato alcune specificità della Cina, come la Grande Muraglia, la consuetudine di avvolgere fasce strette ai piedi delle bambine per non farli crescere, e l’uso del tè. Inoltre, negli Annali e negli archivi cinesi non esisterebbe traccia alcuna dei Polo, né in funzione di inviati di Kubilai nelle province dell’impero yuan, né come accompagnatori ufficiali della principessa Kokacin presso l’il-khan di Persia. Per di più, la cronaca poliana riferirebbe della partecipazione di Marco, Niccolò e Matteo alla presa di Xiangyang nel 1273, quando i tre non erano ancora arrivati dal gran khan e, dunque, non avrebbero mai potuto esser stati delegati all’assedio della città. La sinologa ritiene credibili solo il primo viaggio di Niccolò e Matteo Polo attraverso l’Asia centrale, il loro arrivo forse nei pressi di Karakorum, e il rientro in Laguna accompagnati dalle tavolette d’oro di uno dei capi mongoli incontrati strada facendo. La partecipazione di Marco al secondo viaggio risulterebbe inverosimile. Sicché, a parere di Wood, il giovane mercante veneziano non sarebbe mai andato al di là degli empori commerciali di famiglia, a Costantinopoli e sul Mar Nero. Ciononostante, la studiosa asserisce che Marco Polo potrebbe aver utilizzato ottime fonti (d’ambito mercantile o di tradizione scritta, persiana e non solo) per compilare una buona descrizione della Cina e dell’Oriente, soprattutto di quello più prossimo al Mediterraneo.
Alla marcata diffidenza woodiana si è immediatamente addizionato il ponderoso lavoro di Dietmar Henze, Enzyklopädie der Entdecker und Erforscher der Erde, Akadem. Druck- u. Verlagsanst., Graz 1975-2004, teso nel quarto volume (1995-2000) a disprezzare costantemente le testimonianze di Marco Polo.
Come se non bastasse, a soffiare ulteriormente sul polverone delle diatribe sarebbe sopravvenuto un libro a cura di David Selbourne (autore inglese di opere di filosofia politica), The City of Light, Little, Brown, London 1997. L’opera tratta del presunto viaggio del mercante ebreo Giacobbe d’Ancona, che avrebbe raggiunto le coste cinesi e la «luminosa città» di Quanzhou (stupendamente rischiarata pure di notte) qualche anno prima dei Polo. Il commerciante anconetano sarebbe poi tornato in Adriatico nel 1273, recando seco tessuti in seta e cotone, pepe, zenzero, cannella, noce moscata, zafferano, rabarbaro, chiodi di garofano, mirabolano, nardo, galanga, muschio, balsamo, incenso, mirra, storace, indaco, legno di sandalo, ambra, perle, corallo e, insieme, oro e gioiellerie da donare alla moglie Sara. Tale e tanta mercanzia sarebbe stata accumulata comprando e vendendo, lungo il tragitto che, oltre alla Cina, avrebbe portato Giacobbe a toccare l’Indonesia, l’India, Sri Lanka, il Golfo Persico e il Mar Rosso. Evidentemente, la vicenda era un po’ troppo simile alle peripezie poliane. E comunque, a detta di Selbourne, il libro su Giacobbe d’Ancona sarebbe la traduzione d’un manoscritto in italiano dialettale (zeppo di termini arabi, ebraici e latini), datato al XIII-XIV secolo e conservato per lunghissimo tempo negli archivi familiari di un personaggio che, in cambio della pubblicazione, avrebbe imposto di restare anonimo per questioni connesse ai rapporti fra la Chiesa di Roma e l’ebraismo. A parte le descrizioni della rete commerciale duecentesca e delle località asiatiche, e insieme alle disquisizioni filosofico-religiose che mettono a confronto giudaismo, confucianesimo e cristianesimo, in diversi passaggi del testo i toni in effetti si inaspriscono e si fanno duri, allorché si parla delle persecuzioni e delle vessazioni patite dai giudei per mano dei cattolici. Da qui sarebbe derivata la decisione di tenere nascosto il documento per tanti secoli, in una regione, come le Marche, appartenente a un paese, come l’Italia, profondamente cattolico.
Prevedibilmente, una pletora di storici e orientalisti si è scagliata contro Selbourne, accusandolo di aver confezionato a tutti gli effetti un falso. Parimenti, la gran parte della più accreditata critica occidentale si è opposta, talvolta con crudezza, al «negazionismo» di Frances Wood. Fra gli interventi scientifici che hanno inteso sottolineare la genuinità della storia di Marco Polo, smontando pezzo per pezzo e ribaltando le teorie (invero deboli) della sinologa, vanno citati almeno Igor de Rachewiltz (Università di Canberra), Marco Polo Went to China, in «Zentralasiatische Studien», vol. 27, 1997, pp. 34-92; Ugo Tucci (professore emerito a Venezia), Marco Polo: andò veramente in Cina?, in «Studi Veneziani», Nuova Serie, t. 33, 1997, pp. 49-59; e Lionello Lanciotti, Marco Polo e la sinologia occidentale, in Marco Polo. 750 anni. Il viaggio. Il libro. Il diritto, Atti del congresso internazionale (Roma-Venezia, 23-25 novembre 2004), a cura di Federico Masini, Franco Salvatori, Sandro Schipani, Tiellemedia, Roma 2006, pp. 269-274. A loro si è associato un grande studioso poliano quale Philippe Ménard (Università di Parigi-Sorbonne Paris IV), che in più occasioni è intervenuto a sottolineare come le occorrenze geopolitiche espresse in Marco Polo siano troppo peculiari per risultare menzognere. Nei racconti poliani c’è insomma molto di vero e soltanto alcune approssimazi...