La vita delle cose
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La vita delle cose

  1. 146 pagine
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La vita delle cose

Informazioni su questo libro

Bodei segue la distinzione tra oggetti e cose, dove le cose sono ciò verso cui si ha un investimento affettivo, mentre gli oggetti sono semplicemente ciò che si contrappone ai soggetti. Le nature morte, cui Bodei dedica alcune tra le pagine più belle di questo libro, sono la massima espressione della caducità, perché gli oggetti trionfano sulla morte, i soggetti no, a meno che si facciano imbalsamare diventando oggetti resistenti. Maurizio Ferraris, "Il Sole 24 Ore"Questo volume ha qualcosa di eccezionale e sorprendente, anche se parte da un'osservazione che tutti in un certo momento della vita abbiamo fatto: gli oggetti vivono dentro di noi ma hanno anche una loro vita indipendentemente da noi. Bodei tocca e scioglie una serie di nodi che spesso impigliano la nostra mente e i nostri pensieri. Eugenio Scalfari, "L'espresso"Semplici cose. Oggetti nudi, ancora nuovi o già logori, intatti o consumati, comunque destinati all'insignificanza e alla distruzione. È questo il destino delle cose? O esiste un altro sguardo su di esse, capace in qualche modo di riscattarle dal loro ruolo anonimo e inerte? È questa la domanda, intensa e originale, che pone Remo Bodei in questo libro. Roberto Esposito, "la Repubblica"

Domande frequenti

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Informazioni

I. Oggetti e cose

Preludio. Quasi una fantasia

Con salutare effetto di straniamento, presento all’inizio alcuni testi di carattere letterario, volutamente ambientati in epoche lontane, che ci aiuteranno a comprendere la genesi dei nostri abituali rapporti con le cose. Lo faranno ravvivando il ricordo della sensazione che si prova ogni volta che, svegliandoci, percepiamo gli oggetti in maniera non ancora focalizzata, quando le cose, pur apparendo sprovviste dei loro normali attributi, si mostrano disponibili a rivestirsi di quei molteplici strati di senso di cui vengono successivamente spogliate quando le si tratta come entità note o semplici valori d’uso e di scambio.
Mi riferisco dapprima a un poemetto del I secolo d.C., a lungo attribuito a Virgilio, che rende efficacemente l’atmosfera del presentarsi delle cose nella loro iniziale indeterminatezza, allorché rientrano sulla scena del quotidiano spettacolo prodotto dall’irradiarsi della luce, che le sottrae alla notturna latitanza e le riporta a noi.
Si tratta del Moretum (La focaccia o La pizza rustica), in cui un povero contadino, Simulo, svegliatosi al buio, «solleva il corpo, lasciato scivolare pian piano giù dal misero lettuccio» e «con la mano esperta esplora le tenebre inerti e cerca il focolare» per ravvivare, soffiando via la cenere, il tizzone ardente. Scoperta la brace e accesa la lampada a olio, Simulo passa dall’esperienza tattile, che può fare a meno della luce per riconoscere gli oggetti, alla vista che, inquadrandoli e scandendoli, gli consente di preparare il frugale pasto, la focaccia che dà il titolo all’opera.
Dopo l’intervallo del sonno, la vita pratica riprende i suoi diritti e i suoi ritmi: ricomincia la diuturna lotta contro la fame e la miseria. Nel lucore latteo dell’alba, assieme alla casa, anche l’orto riassume la consueta apparenza. La luce elenca ora le cose, distinguendo le diverse coltivazioni: «Qui il cavolo, qui prosperano rigogliose le bietole che stendono in largo le loro braccia [...] e cresce il ravanello a punte e la zucca che scende pesante nel largo ventre» [(Virgilio) 1983, 5-8; 71-75].
Rinasce la meraviglia di fronte al sorgere del sole, alla sua vittoriosa riapparizione, al graduale passaggio dal buio della notte al fulgore della luce naturale, che rivela e dipinge il mondo nella molteplicità delle sue forme e colori. Quando le ultime stelle impallidiscono e le fantasmagorie del sogno si dissolvono, la determinatezza del giorno subentra a districare ciò che la notte aveva confuso.
Se prima le stelle brillavano palpitando nell’oscurità – «in obscura nocte sidera micant» è scritto su uno stipite del monastero benedettino di Subiaco –, ora sono scomparse e chi dormiva passa dal dissolversi dell’abituale solidità del mondo alla sua ricomposizione in un noto e saldo assetto, dalla logica allucinatoria del desiderio alla prevalenza dell’aspro principio di realtà. In ognuno l’elaborazione dei più intimi timori, interessi, speranze, fantasie (che, come in una seconda vita, il sogno sgomitola in storie parallele a quelle della veglia) cede il passo alla prepotente univocità della coscienza diurna.
Il sogno è un fenomeno assolutamente comune e assolutamente sconvolgente, che non smette di lasciarci perplessi sino a farci supporre che qualche potenza estranea ci trasferisca in un’altra dimensione. Come attratti da una speciale forza di gravità, siamo però ciclicamente ricondotti da un altro spazio e da un altro tempo all’ordine e alla continuità della vita quotidiana e dalla perdita di noi stessi al nostro ritrovamento. Per designare questo ricongiungimento con noi stessi dopo il rientro di ognuno dal mondo notturno, Proust si è servito di una immagine che ricorda i soldatini dei giochi infantili: «Si dice allora: un sonno di piombo. E sembra di esser diventati noi stessi, durante i brevi istanti che seguono un tal sonno, nient’altro che un ometto di piombo. Non si è più nessuno. E come mai, in tal caso, cercando il nostro pensiero, la nostra personalità, come si cerca un oggetto smarrito, finiamo per trovare proprio il nostro io, piuttosto d’un altro? Perché, quando ci rimettiamo a pensare, non accade mai che un’altra personalità diversa dalla prima si incarni in noi?» [Proust, II, 89-90]. Dopo la parentesi notturna ogni cosa riprende gradualmente la solita posizione nello spazio e rientra in una predisposta casella mentale. Rinasce l’ordine delle parole e delle cose: noi rientriamo nella quotidiana routine, riallacciandoci a precedenti esperienze e ridestando sopite inquietudini, mentre le cose recuperano la loro apparente impassibilità.
Il poter assistere quotidianamente allo sbiancarsi del cielo notturno, al momento in cui la maggioranza degli esseri viventi esce dal proprio torpido raccoglimento in sé per riprendere contatto con il mondo, è per noi un evento eccezionale. Nelle società preindustriali a prevalenza contadina – quando la notte non era stata ancora colonizzata dal diffondersi dell’illuminazione elettrica, dei turni di lavoro in fabbrica o dalla protrazione degli svaghi – ci si svegliava, per lo più, al canto dell’«alata sentinella» del mattino.
I classici della letteratura ci aiutano, ancora una volta, a ricostruire l’atmosfera che circondava la millenaria esperienza di innumerevoli individui nell’assistere alla transizione dal buio alla luce, dopo la loro quotidiana resurrezione dalla piccola morte del sonno. Ascoltiamo prima come Virgilio e Ovidio descrivono il riposo di tutti gli esseri nella natura in quiete. Dice Virgilio: «Era la notte, e in terra i corpi stanchi / godevano il placido sonno, e s’erano acquietati i boschi / e il mare tempestoso, quando le stelle si volgono / a metà del corso, e tacciono i campi, le greggi e i variopinti / uccelli, e gli esseri contenuti dalle liquide / ampie distese e dalle terre irte di rovi: composti nel sonno sotto la notte silenziosa / lenivano le pene e i cuori dimentichi degli affanni» [Virgilio, Eneide, IV, 522-528]. Ovidio così riprende questo topos: «Quiete profonda aveva liberato nel sonno uomini, uccelli e fiere [...] senza brusio alcuno immobili stavano e siepi e fronde; umida taceva l’aria: solitarie brillavano le stelle» [Ovidio, Metamorfosi, VII, 185-187]. Molto più tardi, nella poesia di Nikolas Lenau [musicata da Felix Mendelssohn Bartholdy, nei Lieder, con la titolatura di Schilflied op. 71, n. 4] il motivo ritorna con riferimento agli uccelli che fremono e si agitano nel sonno, immersi nella profondità di un canneto, in un immobile stagno notturno illuminato dalla luna.
Per l’evocazione del risveglio nelle società premoderne valga almeno questo intenso passo tratto da La morte di Virgilio di Hermann Broch, dove l’imminente arrivo del giorno è annunciato dal tradizionale risuonare delle cose del passato, dal respiro degli animali e dalle occupazioni e preoccupazioni di uomini diretti al mercato: «La fila dei carri avanzava con assonnata lentezza; si udiva il frastuono delle ruote sul lastrico della carreggiata, lo scricchiolio degli assali, lo stridere dei cerchioni contro le pietre del margine, il cigolio delle catene e dei finimenti; ma qualche volta brontolava lo sbuffante ansimare d’un bove, qualche volta echeggiava un sonnolento richiamo [...] Il respiro delle creature viventi attraversava il respiro della notte e con loro respiravano i campi, gli orti ed i frutti, e il respiro dell’universo si apriva ad accogliere le creature» [Broch, 267].

Orientarsi nel mondo

L’ultimo testo letterario di cui mi servo, quale introduzione a questioni che si riveleranno di maggior spessore teorico, è relativamente più noto. Si tratta di alcune pagine iniziali della Recherche di Proust, dove il destarsi improvviso del protagonista in piena notte produce in lui un completo disorientamento: non sa più dove si trova e non è quasi più in grado di ricomporre l’unità e la consapevolezza del proprio io. Cerca allora di situarsi nuovamente nello spazio e nel tempo, di rammentare le posizioni dei mobili e dei muri, affinché «le pareti invisibili, mutando posizione secondo la forma della stanza immaginata», preparino il riconoscimento del posto in cui si trova, che si presenta all’inizio confuso e ritagliato dai fluttuanti contorni dei luoghi ricordati. È un attimo, poi la coscienza desta riprende il controllo della situazione e il pensiero e l’abitudine fissano gli spazi e i tempi.
Come residuo appena percepibile resta però il sospetto, suscitato dalla non immediata ricostruzione delle coordinate, che la presunta fissità delle cose non sia spontanea, ma rifletta essenzialmente la nostra rigida organizzazione mentale: «Forse l’immobilità delle cose intorno a noi è loro imposta dalla nostra certezza che sono esse e non altre, dall’immobilità del nostro pensiero nei loro confronti» [Proust, I, 8-9]. A scopo pedagogico, per identificarle, le abbiamo scarnificate, compresse nella loro polisemia e classificate. Isolandole dallo sfondo e dalla nostra attività, nel pensarle abbiamo tolto loro ogni riferimento a noi, riducendole a entità materiali che ci stanno semplicemente davanti secondo una tipologia elementare predefinita: «Le parole ci presentano, delle cose, una piccola immagine nitida e consueta, simile alle figure che s’appendono alle pareti delle scuole per dare ai bambini l’esempio di quel che sia un banco, un uccello, un formicaio, cose concepite come uguali a tutte quelle della medesima specie» [ivi, 468].
Nel crescere nominiamo le cose, le fissiamo nella memoria, le riconosciamo, le facciamo spiccare su uno scenario dai tratti sfumati ed è solo la familiarità acquisita attraverso questi processi a permettere di orientarci e di dar loro un significato. Impariamo così a situarle in una mappa spaziale e temporale, a farne uso o a rinunciarvi, a comprarle o a venderle, a dar loro valore o a trascurale, ad amarle, odiarle o rendercele indifferenti.
Nel condurre tutte queste operazioni trascuriamo il fatto che già la percezione rivela nelle cose innumerevoli differenze e sfumature. La descrizione di un semplice foglio di carta posato sul tavolo potrebbe, ad esempio, non aver mai fine: «Più lo guardiamo, più ci rivela le sue particolarità. Ogni orientamento nuovo della mia attenzione, della mia analisi, mi fa scoprire un particolare nuovo: l’orlo superiore del foglio è leggermente rialzato; alla terza riga, la linea continua finisce con l’essere soltanto punteggiata...» [Sartre, 21]. Grazie a schemi culturali e a interessi personali, prendiamo in esame solo ciò che ha senso e interesse per noi. Ritagliamo le cose dalla inesauribile tela di fondo del campo percettivo e le circoscriviamo per mezzo delle forme suggerite dai nomi della nostra lingua, dalle nozioni acquisite e dalle nostre personali proiezioni (circola tra gli antropologi l’aneddoto del selvaggio che, condotto in una grande città, non nota palazzi, tram e automobili, ma solo un casco di banane trasportato su una carriola, perché solo questo episodio s’inserisce coerentemente nella trama della sua esperienza).
Tenendo conto della condiscendenza degli oggetti della percezione, tracciare i contorni delle cose significa spesso – in origine – compiere delle scelte: «la linea non imita il visibile, ma ‘rende visibile’», dice Klee [cfr. Merleau-Ponty 1989, 32]. Nelle diverse culture, l’attribuzione dei nomi alle cose e la struttura delle classificazioni concettuali segue, infatti, percorsi specifici in base agli interessi dominanti e ai criteri che servono da guida: per noi la neve è neve, mentre tra gli Eschimesi vi sono decine di nomi per indicarla (distinguere le varie tipologie è per loro vitale). Solo l’abitudine all’ovvietà ci fa quindi dimenticare i processi che conducono al nome e all’identificazione della cosa.
Assegniamo alle cose un significato tendenzialmente univoco allo scopo di orientarci nel mondo, favorendo la conoscenza teorica e pratica, ma raschiando dalle cose i loro molteplici significati e dimenticando i valori simbolici e affettivi. Si pensi a quelli del focolare (attorno al quale tribù o famiglie si sono raccolte nei millenni a commentare gli avvenimenti del giorno e a raccontare leggende e fiabe) o, in altre culture, a quelli della stufa, che nella Cina dell’Ottocento era stata addirittura divinizzata, diventando «Dea Stufa», simbolo dell’unità familiare e del rango sociale di chi la possedeva [cfr. Molotch, 13-14]. Diversamente dal calore del termosifone, che non produce nessun piacere a guardarlo e non evoca nessuna fantasia, la fiamma non si riduce a semplice fenomeno di combustione e la stufa, in Cina, a mera fonte di calore. Fiamma e calore obbediscono, certo, a precise leggi fisiche, ma queste non ne esauriscono il senso.

Imparare a distinguere

È illusorio immaginare che in questi interstizi temporali tra il sonno e la veglia sia più facile cogliere, quasi di sorpresa, le cose alle spalle, prima che esse assumano una loro precisa dislocazione mentale e reale? O si tratta, invece, di una mossa ingenua, simile a quella dei bambini che si voltano di scatto per vedere se l’Angelo custode esiste veramente? In ogni caso, di quali strategie teoriche bisogna servirsi per ridare al mondo un senso più pieno, meno appiattito sulla routine della quotidianità o meno interessato al dominio sugli oggetti?
Il richiamo musicale al «quasi una fantasia» con cui ho descritto l’attacco di questo libro serve non solo a indicare la presenza di un vago surplus di senso ancora da allocare, che traluce prima che le cose siano normalizzate nel passaggio dalla logica del sogno a quella della veglia o dal buio alla luce, ma anche a dimostrare che la fantasia costituisce un fattore ineliminabile del nostro rapporto con le cose. Essa accompagna l’incessante variare delle nostre proiezioni sul mondo e rielabora i molteplici significati che la nostra specie ha seminato sulle cose. Questa avvertenza è necessaria, non per tessere l’elogio del reincantamento del mondo o per invitare a una regressione all’animismo, ma per aderire alla natura stessa delle cose.
Ho messo in evidenza il momento del risveglio – in apparenza così insignificante – proprio per assecondare la comprensione del senso delle cose prima che l’abitudine e la funzione prendano il sopravvento. Il ricorso a questa esperienza basta, tuttavia, solo a rendere plausibile l’idea che a esse inerisce una virtuale e indefinita molteplicità di significati, ma non spiega come ciò avvenga. Per capirlo, occorre in primo luogo ricostruire analiticamente un vocabolario appropriato, teso a mostrare non solo come i significati simbolici, cognitivi e affettivi si coagulino sulle cose, ma anche perché – come ben sapeva la grande tradizione filosofica, mentre noi lo abbiamo dimenticato – essi non formino un’aggiunta impropria ed estrinseca.

La cosa

Dopo aver esercitato un minimo di pazienza nell’affrontare alcune inaggirabili questioni filologiche relative al restauro linguistico e concettuale del significato dei termini da usare, sarà possibile chiarire meglio anche l’espressione «vita delle cose», dando così una risposta al legittimo interrogativo su come gli oggetti inanimati possano avere una vita autonoma, muoversi, sentire o addirittura pensare ed agire.
Tale paradosso si scioglie non appena dissipato l’equivoco che, nascosto nel linguaggio quotidiano, si infiltra spesso anche nei concetti più sofisticati. Il malinteso dipende dalla mancata distinzione tra «cosa» e «oggetto», parole che il tempo ha confuso, provocando una serie di fraintendimenti a cascata che intorbidano tanto il pensiero filosofico, quanto il senso comune. Data l’abitudine, da cui è difficile staccarsi, a sentire questi due termini come sinonimi, è lecito cedere all’uso (qualche rara volta lo farò io stesso) quando non si corra il rischio di aprire un varco agli equivoci.
L’italiano «cosa» (e i suoi correlati nelle lingue romanze) è la contrazione del latino causa, ossia di ciò che riteniamo talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua difesa (come mostra l’espressione «combattere per la causa»). Respublica non indica perciò una semplice proprietà comune, bensì l’essenziale di ciò che riguarda tutti, che merita di essere discusso in pubblico e, di conseguenza, fonda il senso di appartenenza dei cittadini alla propria comunità. L’aggettivo publica di respublica sembra collegarsi a pubes, che designa in latino la piena maturità dei ragazzi/uomini in grado di portare le armi, di far parte dell’esercito (populus) e, per successiva estensione, di tutti i cittadini impegnati nella difesa e nell’incremento del bene comune [cfr. Guess, 54-56].
«Cosa» è, per certi versi, l’equivalente concettuale del greco pragma, della latina res o del tedesco Sache (dal verbo suchen, cercare), parole che non hanno niente a che vedere con l’oggetto fisico in quanto tale e neppure con l’uso corrente del tedesco Ding o dell’inglese thing (in contrasto con la loro etimologia, che rinvia all’atto del riunirsi per negoziare, per trattare un determinato affare o affrontare una questione decisiva), ma che contengono tutte un nesso ineliminabile non solo con le persone, ma anche con la dimensione collettiva del dibattere e deliberare. Pragma, Sache, res (e, solo in origine, Ding e thing) rinviano tutti all’essenza di ciò di cui si parla o di ciò che si pensa e si sente in quanto ci interessa. Res – che conserva la stessa radice d...

Indice dei contenuti

  1. Dedica
  2. Avvertenza
  3. I. Oggetti e cose
  4. II. Aprirsi al mondo
  5. III. Natura viva
  6. Bibliografia