VII. Perdita, cordoglio, lutto: il paradigma psicologico
1. Il lutto e il contributo della psicoanalisi classica
La perdita di un essere caro è, certamente, una delle prove più difficili che un essere umano debba affrontare. Tuttavia il dolore che essa provoca, per quanto sia profondo e terribile, si attenua e poi sparisce col tempo. Ossia, poco per volta, i legami che univano il dolente al suo oggetto esterno vengono trasferiti all’interno del soggetto, dove l’oggetto perduto trova un nuovo status grazie al lavoro del lutto1.
Questa definizione, come molte altre presenti in volumi dedicati al lutto, si situa sulla falsariga della descrizione psicoanalitica e psicologica del lutto, che ha caratterizzato il Novecento e che è tuttora utilizzata, anche se con maggiore cautela critica, nel XXI secolo. Ma tale interpretazione del lutto, che la nostra cultura tende a considerare universale, si presenta fortemente connotata dal punto di vista geografico e cronologico. La visione del lutto come processo di «guarigione psicologica», che si compie nell’interiorità dell’uomo, non poteva avere altra culla che l’Occidente, che fin dal XIX secolo ha puntato a valorizzare l’autonomia dell’individuo, la sua unicità, la sua creatività.
Alle origini ci fu l’opera di Sigmund Freud: nel breve saggio Lutto e melanconia2, pur distinguendo il lutto dalla depressione egli pose al contempo in luce i punti comuni tra i due stati psichici. Enucleò i sintomi di un lutto profondo, specificò in cosa consiste il «lavoro del lutto» e contemplò la possibilità che il lutto divenga, in alcuni casi, patologico. Il lutto comporta la «perdita di interesse per il mondo esterno», la «perdita della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d’amore (che significherebbe rimpiazzare il caro defunto)», «l’avversione per ogni attività che non si ponga in rapporto con la sua memoria»3.
Il lavoro del lutto richiede, per Freud, tempo e dispendio di energia: è necessario infatti un «esame di realtà», che dimostri al dolente «che l’oggetto amato non c’è più», affinché, lentamente, egli si convinca dell’esigenza «che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto»4. Poiché «gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica»5, può manifestarsi un’avversione per la realtà, un ripiegamento del dolente su se stesso: l’elaborazione del lutto, in tal caso, si prolunga, fino a che non sia stipulato un doloroso compromesso tra il riconoscimento della realtà della perdita e la necessità di ritornare alla vita normale. Infatti, scrisse Freud, «la normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento»6.
Un lutto normale si risolve spontaneamente, secondo l’iniziatore della psicoanalisi, a patto che ci siano il tempo e l’energia necessari per portare a termine il lavoro del lutto, che ha come esito lo scioglimento del «proprio legame con l’oggetto annientato»7, ossia con il defunto.
Il lutto patologico, invece, può insediarsi nella psiche quando la relazione con il deceduto era particolarmente ambivalente, intrisa d’odio inconscio: l’ambivalenza amore/odio, infatti, genera senso di colpa nei confronti del morto8, «conferisce al lutto una configurazione patologica e lo costringe a manifestarsi sotto forma di autorimproveri secondo i quali il soggetto è responsabile – ossia ha voluto – la perdita dell’oggetto d’amore»9.
Freud, dunque, tendeva a pensare, all’inizio del secolo, alla rottura del legame con il defunto come esito di un lutto sano e normale. Dal punto di vista culturale, tale teoria si rivela estremamente interessante.
Il lutto vittoriano infatti – che Freud non poteva ignorare, essendo nato nel 1856, nonostante provenisse da una famiglia ebraica e povera10 – prescriveva precise regole sociali per i dolenti e una complessa etichetta11. Le donne, in particolare, erano investite del ruolo di protettrici della memoria dei defunti della famiglia e di custodi della memoria collettiva; erano loro a portare il nero più a lungo, a recarsi più sovente al cimitero, a fare la maggior parte delle visite di condoglianze: compito che non si interrompeva con la chiusura del periodo di lutto vero e proprio: l’idea che sottendeva tali aspettative sociali era che i legami con i defunti non dovessero mai essere completamente recisi12. Nell’Ottocento la durata del lutto sociale era, anzi, percepita sempre come troppo breve, e molte sono le dichiarazioni in questo senso13. La figura della vedova suscitava una particolare commozione e pietà proprio perché lo spettacolo del suo strazio annunciava un lutto definitivo. Di «lavoro» del lutto, come di una sua risoluzione, non si parlava affatto, e l’infinita melanconia per la morte di un essere caro era vissuta come normale.
Ma, come hanno posto in evidenza molti studiosi14, la Prima guerra mondiale costituì una cesura rispetto a questi costumi, determinandone il graduale abbandono: sia per la quantità di vedove che creò, sia per l’esigenza di avvalersi del lavoro femminile, che mutava necessariamente il ruolo delle donne, allontanandole dalla loro funzione di protagoniste del culto dei morti.
Nel 1917, quando Freud pubblicò Lutto e melanconia, la guerra non era ancora finita, ma egli già interpretava la nuova tendenza a un lutto più privato e limitato nel tempo. La visione freudiana del lavoro del lutto da un lato tagliava i ponti con la concezione dell’eterno dolore della vedova e stabiliva che l’elaborazione di una perdita poteva e doveva concludersi, per tutti, col recupero della libertà interiore dell’Io; dall’altro, situava tale lavoro all’interno della psiche dell’individuo, escludendo la dimensione sociale dalla sua considerazione15. Si può affermare, pertanto, che la teoria freudiana sia in parte un esito, in parte una concausa di un processo di profondo cambiamento nell’interpretazione collettiva del lutto. Durante la Prima guerra mondiale, e subito dopo, tale modificazione non fu evidente, poiché i governi delle nazioni belligeranti, oltre a richiedere di abbreviare il pianto per non demoralizzare la nazione, offrirono modalità di socializzazione del dolore per i morti in guerra (con tutti i monumenti ai caduti che ne seguirono, soprattutto al Milite ignoto) e creò una fitta rete di solidarietà associativa tra i cittadini che avevano perso un figlio o un marito al fronte16. Ma già nel periodo tra le due guerre, e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, il modello del lutto privato si impose dapprima nei paesi anglosassoni, e successivamente anche in quelli a maggioranza cattolica. La psicoanalisi, con la sua interpretazione intrapsichica del lutto che aspirava, inoltre, alla scientificità, diede un contributo importante a tale privatizzazione.
Le successive parziali correzioni della teoria del 1917, operate da Freud e da Abraham, i quali sottolinearono l’esistenza di un’identificazione e di un’introiezione del morto (il mettere i nostri morti all’interno del nostro Io), accentuavano, se vogliamo, proprio la dimensione privata e interiore del cordoglio.
Intanto, un approfondimento della teoria freudiana venne dalla riflessione della psicoanalista Melanie Klein. Nel saggio Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi, del 1940, Klein volle dare risposta al problema, lasciato aperto da Freud, del dolore profondo che si prova durante il lutto. La studiosa, che si era occupata della frustrazione infantile di fronte all’assentarsi della madre, affermò che esiste uno stretto rapporto tra le prime esperienze infantili di abbandono – anche se temporaneo – e la capacità di elaborazione del lutto in età adulta: «Ogni volta che più tardi nella vita si prova tale cordoglio si rivive il lutto infantile»17.
Lo stato psichico del bambino, d’altronde, è molto complesso per Klein, e dipende da una quantità di processi di interiorizzazione, non tutti connotati da segno positivo: accanto ai genitori «buoni», amati e rassicuranti, per esempio, vi sono i genitori, le sorelle e i fratelli «cattivi», figure persecutorie e vendicative che minacciano l’integrità psichica. Causa di questa situazione psichica infantile, definita «posizione maniaco-depressiva», è soprattutto l’ambivalenza amore/odio, la spinta aggressiva e il desiderio di morte diretto verso i genitori, sentimento che spaventa il bambino e lo induce a temere la vendetta, interiorizzando anche figure terribili e crudeli. La posizione maniaco-depressiva viene superata attraverso l’esame della realtà: per esempio, sperimentando che la madre ritorna dopo essersene andata, il bambino riconosce la positività della figura della madre reale e se ne lascia rassicurare.
Melanie Klein riteneva infatti, con Freud, che l’esame di realtà fosse una componente essenziale del lavoro del lutto: come il bambino con la madre «buona», il soggetto in lutto trae conforto ricordando la bontà e le qualità della persona perduta.
Il dolore che si soffre nel lento processo dell’esame di realtà nel lavoro del lutto pare dunque doversi attribuire in una certa misura alla necessità non solo di riannodare i legami col mondo esterno e, nel farlo, a riavvertire ogni volta la perdita, ma anche al fatto che nel riallacciare tali legami si deve soffrire lo spasimo di ricostruire un mondo interiore che si sente in pericolo di disfacimento e di crollo18.
Poiché l’attitudine ad affrontare con successo le fantasie infantili mediante l’esame di realtà è in buona parte costituzionale – potremmo dire genetica – se ne deve dedurre che se il dolente non era stato capace di superare le angosce delle prime fasi dello sviluppo, avrà maggiore difficoltà a elaborare il lutto, «con il conseguente insorgere del lutto anormale e della malattia mentale. Se ne era stato capace, il lutto può dimostrarsi un’esperienza di grande arricchimento»19.
Ma Melanie Klein non parlò di malattia solo a proposito del lutto anormale e patologico. Proprio in quanto nel lutto – anche quando è normale – si riattivano le angosce infantili, che ella definì «psicotiche»20, il dolente è in realtà una persona malata, anche se noi non lo consideriamo tale:
Colui che soffre di lutto in effetti è malato, solo che noi non chiamiamo il ...