Beatles
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Beatles

  1. 310 pagine
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Informazioni su questo libro

La polemica contro la guerra in Vietnam, la ribellione forte e aperta da parte di una intera generazione, i figli dei fiori, la rivoluzione sessuale. Questo gigantesco rivolgimento ebbe una voce e un volto: i Beatles. Quattro ragazzi che, per una di quelle rare combinazioni di talento e di caso, furono in grado di creare la colonna sonora di un decennio irripetibile. Le pagine di Assante e Castaldo, per chi quel decennio l'ha vissuto e per chi ascolta i Beatles oggi, si leggono d'un fiato. Corrado Augias, Il Venerdìdi RepubblicaEsiste un mondo prima dei Beatles e un mondo dopo i Beatles. Esiste una musica prima dei Beatles e una dopo i Beatles. E si può dire lo stesso della moda, della cultura popolare, della politica. Perché tutto negli anni Sessanta è cambiato dopo il loro avvento. E se volessimo raccontare la storia di quel decennio, potremmo racchiuderla in una sequenza di foto dei Beatles.

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Informazioni

1. Please please me. 22 marzo 1963

I saw her standing there - Misery - Anna (go to him) - Chains - Boys - Ask me why - Please please me - Love me do - P.S. I love you - Baby it’s you - Do you want to know a secret - A taste of honey - There’s a place - Twist and shout
Alla fine, anzi all’inizio di tutto, c’è soprattutto un suono. È l’impressione che si ha sempre quando si ascolta la musica dei Beatles: quella singolare sensazione di grazia, di magico scintillìo, come se le canzoni fossero sempre toccate da una forza luminosa, allo stesso tempo naturale e prodigiosa. In fin dei conti un mistero, che s’infittisce se proviamo a collocare questo suono nella Liverpool all’alba dei Sessanta, ordinaria e fuligginosa città industriale, totalmente emarginata dal grande circuito dello spettacolo, che ai tempi passava solo per Londra.
Oggi Liverpool è molto cambiata, è più ridente, ripulita, ma ancora adesso se andiamo a ritrovare le desolate stradine dove i Beatles sono cresciuti, non si può fare a meno di riprovare questo brivido del mistero: com’è possibile che quattro ragazzi, originari della working class o, nel caso di Lennon, della piccolissima borghesia, più o meno poveri, cresciuti in un ambiente tutt’altro che colto, armati solo di voglia e fantasia, abbiano potuto generare un fenomeno come questo, con tutto il suo immenso bagaglio di idee, un fenomeno capace di cambiare alla radice il volto stesso della musica popolare, e non solo di quella? Perché proprio loro quattro e perché in quel momento? In fin dei conti ogni narrazione, ogni analisi del fenomeno Beatles, è un tentativo di rispondere a queste domande.
La preistoria dei Beatles è lunga quasi quanto la loro storia. Sei anni per arrivare a incidere per la Parlophone-Emi, otto anni di vita fino al 31 dicembre 1970, data ufficiale della fine. Quattordici anni in tutto, condivisi da quattro adolescenti diventati uomini insieme, diventati «più famosi di Gesù», secondo una controversa frase di Lennon del 1966; quattro musicisti che avrebbero cambiato per sempre l’industria musicale, la concezione stessa della condizione giovanile, e infine il modo in cui il mondo la percepiva: non più, o non soltanto, una fase di preparazione alla vita adulta, ma una parte della propria vita (tra i sedici e i vent’anni) da vivere pienamente, senza limiti, creativamente e politicamente.
Hanno intorno ai vent’anni quando il mondo li scopre, nel 1962. Ringo Starr e John Lennon nascono nel 1940, Paul McCartney nel 1942, George Harrison nel 1943. Sono figli di una guerra nella quale la Gran Bretagna prima da sola, poi con gli Alleati, si coinvolse fino all’ultima risorsa, uscendone devastata. La fine dell’impero britannico la rese più povera, ma la vittoria salvò il mondo dalla minaccia militare fascista. La geografia del pianeta sarebbe cambiata per sempre. Terminava il colonialismo e due superpotenze imperiali finirono per dividersi il mondo in sfere di influenza. Per mezzo secolo Urss e Usa avrebbero dettato l’agenda della storia.
I Beatles, e soprattutto John Lennon, il vero fondatore del gruppo, sono figli di quei padri sofferenti e lontani, assenti, padri ancora rivolti a un passato doloroso di guerra e tragedie che a metà anni Cinquanta verranno spinti sullo sfondo da una gioventù europea che vuole, al contrario, respirare, criticare, vivere.
Una delle prime foto in bianco e nero dei Beatles è particolarmente emblematica. Li mostra nel cielo di Londra nel momento di saltare su delle macerie. Sono sospesi per aria, sorridono, pieni di vita. Il passato è sotto i loro piedi; la guerra, gli anni delle privazioni, tutto è distante, in basso. Durante la loro adolescenza i quattro futuri Beatles sperimentarono ogni sorta di difficoltà, alimentari, familiari, esistenziali, come i loro coetanei delle isole britanniche e degli altri paesi europei. Ma quegli anni volgevano al termine. La lunga notte europea, perlomeno nella zona occidentale, stava terminando. Loro furono tra i primi a uscirne, sognando. Meglio, suonando.
In Inghilterra, come in altri luoghi dell’Occidente, nel 1962 si respirava un’aria da «prima della rivoluzione». L’Europa usciva da una faticosa ricostruzione che aveva lasciato ferite profondissime. Molto più che in America, intatta a livello territoriale, dove la ripresa era iniziata prima, già alla metà degli anni Cinquanta. I paesi europei, con diversi tempi di marcia, arrivarono al «superamento» tra la fine degli anni Cinquanta e l’alba dei Sessanta, e l’Inghilterra era in buona posizione per essere la prima a dare segni di cambiamento.
Chiuse le ferite, riparate le distruzioni, c’era nell’aria il desiderio di uscire dal dolore della perdita, di non ripetere gli errori del passato, di immaginare un nuovo mondo, e quindi anche un nuovo modo di esprimerlo. C’era una nuova energia pronta a fluire e i Beatles, più o meno consapevolmente, la incarnarono. Il boom economico che aveva segnato la rinascita in Inghilterra veniva sottolineato, all’inizio del decennio, dal premier Harold McMillan, che diceva: «I lavoratori del nostro paese non sono mai stati così bene». Forse non era del tutto vero, ma di certo nelle case della working class erano entrati per la prima volta televisori e frigoriferi, lavatrici e beni di consumo. E i figli della working class, per la prima volta, avevano avuto la possibilità non solo di andare a scuola e non lavorare già da adolescenti, ma anche di accedere a scuole non professionali o addirittura artistiche. Negli Usa tutto questo era già accaduto, la gioventù aveva conquistato un ruolo diverso dalla fine degli anni Cinquanta, e questa novità si era tradotta addirittura in un clamoroso cambiamento politico: l’elezione alla presidenza, nel 1960, di John Fitzgerald Kennedy, il più giovane presidente nella storia degli Stati Uniti. Kennedy incarnava perfettamente le speranze di cambiamento, di rinascita, di progresso non solo del paese, ma di un’intera generazione planetaria.
Per quanto possa sembrare incredibile, il miracolo dei Beatles parte da una città piccola, povera, provinciale come Liverpool, un luogo talmente grigio e privo di speranza, però, da poter essere ridisegnato con colori completamente nuovi da un gruppo di ragazzi che pensa in grande e che incarna fin da subito il sogno della rinascita. Liverpool non aveva una tradizione musicale interessante; l’unico artista arrivato al successo nazionale negli anni Cinquanta era un cantante pop tradizionale come Frankie Vaughan, mentre nei primi anni del decennio da lì era partito solo un rocker, Bill Fury. Le vere star cittadine erano i comici, singolare tradizione locale dovuta al connaturato senso dell’umorismo dei «liverpudlians», anche se a volte per passare al successo nazionale dovevano cancellare il loro accento provinciale. Anche in questo i Beatles saranno diversi. Non smisero mai di parlare con l’accento di Liverpool. Ne erano anzi fieri e, come ebbe a dire Lennon, «we were... and we pronounced it...».
Nonostante il grigiore, Liverpool venne colpita subito dalla febbre del rock’n’roll, addirittura prima di Londra, dove qualcosa si era già mosso, ma non si era arrivati più in là di un generoso Cliff Richard, che cominciò col successo di Move it e poi allargò la sua fama nel resto d’Europa (fino a incidere qualcosa anche in italiano, secondo l’usanza dell’epoca). Il motivo era ovvio: c’era il grande porto che guardava verso l’America, luogo d’attracco delle navi che arrivavano dal Nuovo Mondo, con i marinai che portavano spesso dischi dagli Usa e li rivendevano in una sorta di «borsa nera» degli appassionati di musica alla ricerca del «suono originale» da poter copiare o interpretare. Malgrado questa iniezione di elettricità musicale, non c’era nulla, comunque, che facesse presagire l’imminente esplosione. Tanto meno se con un veloce zoom in avanti andiamo a stringere l’obiettivo su una piccola insignificante scuola di Liverpool, la Quarry Bank School, dove John Lennon mise su la sua prima band, uno scalcagnato gruppetto di skiffle chiamato Quarrymen.
La leggenda della nascita dei Beatles parte dalla figura di John Lennon, un bambino con un’infanzia piuttosto complicata. I suoi genitori, Alfred Lennon e Julia Stanley, si incontrano nel 1927. Alf è un buon musicista, e anche Julia ha una discreta capacità musicale, ma non ne fanno nulla di redditizio. Alfred inizia a lavorare sulle navi, parte spesso, ma la relazione continua, nonostante i genitori di Julia non vedano di buon occhio il ragazzo, abbastanza instabile e incline a mettersi nei guai. Nel 1938 Alfred e Julia si sposano e lui, per mantenere la famiglia, riprende il mare. Nell’ottobre del 1940 nasce John, mentre il padre è impegnato con le navi inglesi nella seconda guerra mondiale. Alfred torna poco a casa, ma manda regolarmente soldi alla moglie e al figlio; fino al 1943, quando diserta e scompare. Ritorna nel 1945, per scoprire che nel frattempo Julia è rimasta incinta di un altro uomo e non vuole più vederlo. Dopo qualche tempo Julia trova un nuovo amore, Bobby Dykins, con il quale va a vivere assieme al piccolo John. Sua sorella Mimi, però, trova la situazione assai sconveniente e dopo innumerevoli insistenze convince Julia a darle in affidamento John, che quindi si trasferisce presso la zia, a Menlove Avenue. Nel 1946 Alfred Lennon ricompare, si presenta a casa di Mimi e «rapisce» il piccolo John con l’intenzione di portarlo con sé in Nuova Zelanda. Viene però scoperto dagli Stanley, che lo raggiungono a Blackpool. Dopo un’accesa lite il piccolo John, che ha solo cinque anni, viene messo davanti ad una terribile decisione: seguire il padre in Nuova Zelanda o stare con la madre. John sceglie Alfred, ma quando vede la madre andare via cambia idea e torna con lei a Liverpool. Qui però le cose non migliorano e John torna a casa di zia Mimi.
Mimi è una donna piuttosto rigida. Non si può dire che sia cattiva, ma rappresenta esattamente l’Inghilterra di quegli anni, ovvero un paese ancora molto tradizionalista, in cui la divisione tra le classi sociali era molto forte, la nobiltà era nobiltà e i lavoratori erano molto al di sotto; un’Inghilterra in cui la musica, la cultura, erano governate dalla Bbc, l’unica emittente ufficiale, che selezionava tutto con estremo rigore, e per i ragazzi in particolare era difficilissimo ascoltare qualcosa di diverso dal pop tradizionale. Zia Mimi era esattamente così: era preoccupata di tutto quello che John facesse al di fuori del tradizionale, dell’ovvio, del socialmente accettabile.
Ma il piccolo John non si riconosce in questa realtà «prevedibile» e cresce sognando di fare qualcos’altro, di poter andare altrove. Questo qualcos’altro, questo altrove li trova nella musica e in parte è merito della madre Julia che, volendo sostenere il talento creativo del figlio, quando lui compie 15 anni gli regala una chitarra. John era iscritto alla Quarry Bank School e lì, con la sua chitarra e con i suoi compagni, mette su la prima band, i Quarrymen, specializzata in rock and roll e skiffle. La gioventù americana aveva soldi e tempo libero e con il rock and roll aveva espresso lo straordinario desiderio di poter gestire il proprio tempo e il proprio denaro in maniera nuova. I giovani inglesi hanno tempo libero – almeno un po’, se non devono lavorare per aiutare le famiglie –, ma soldi certamente non ne hanno. Costruiscono così la loro alternativa al rock’n’roll e la chiamano skiffle, un genere musicale nato con strumenti pescati per strada, riadattati spesso dagli oggetti della vita quotidiana, ma fondamentale perché dà a molti ragazzi la sensazione che ci possa essere qualcosa di inglese e di nuovo, fatto in maniera «povera», accessibile a tutti. La tecnica era molto chiara: si usavano un’asse per lavare, un «washboard», con cui si teneva il ritmo, un contrabbasso costruito a casa con un bidone, un bastone al centro e una corda lungo l’asse, una chitarra o due, e con questo semplice armamentario chiunque poteva metter su una band.
Lo skiffle è una versione povera del rock’n’roll, abbastanza accessibile e anche abbastanza inglese da suscitare nei ragazzi la sensazione di poter fare qualcosa di proprio a buon mercato. E poi è un genere di moda, almeno da quando nel 1955 Lonnie Donegan ha portato al successo Rock island line, inaugurando di fatto la voga dello skiffle. Ci si può buttare a fare musica anche sapendone poco o nulla, come testimonia il celebre aneddoto della nascita dei Quarrymen. John radunò una manciata di amici e semplicemente disse: «ora siamo una band»; gli altri risposero che non sapevano suonare, ma per John questo non era un ostacolo. Folgorato da Elvis, aveva visto nella musica una possibilità di ribellione e di riscatto e a quel punto nessuno poteva fermarlo. Lennon aveva molte ragioni per cercare una via d’uscita. La sua vita, come abbiamo visto, era stata un oscuro percorso di disagio e di assenza, un buco nero, senza padre e di fatto senza madre, che doveva essere riempito con qualcosa di potente, enorme, assolutamente rivoluzionario. La musica si rivelò un’arma dal potenziale eversivo, anche se quel buco nero Lennon non riuscì mai a riempirlo del tutto, fino alla fine.
I Quarrymen sono l’inizio, con Eric Griffiths, Colin Hanton, Rod Davies, Pete Shotton e Len Garry. Suonano ovunque possono; Lennon è il capo e li guida in un repertorio che è fatto di classici del rock’n’roll, dello swing, del pop. Sono ragazzi – ragazzini, a dire il vero –, si divertono e sognano insieme. Ma l’incontro fatale, quello che cambia il corso della storia, avviene il 6 luglio del 1957, quando nel cortile dell’oratorio della chiesa di Saint Peter, per merito del comune amico Ivan Vaughan, John incontra il giovane Paul McCartney. Anche l’adolescenza di Paul non era stata delle più felici: condivideva con John l’ingrato destino di aver perso la madre precocemente, e come lui era aggrappato alla musica come a una scialuppa di salvataggio; ma soprattutto era un musicista nato, un talento naturale, pronto a esplodere. Eppure già in quel primo incontro, nella sospettosa ammirazione con cui Lennon, che si sentiva il leader, il fondatore, scrutò Paul, c’era la prima scintilla della rivalità, ma anche della singolare e in fondo struggente amicizia che li tenne legati per anni.
A unire quel magma informe che stava rapidamente stanando una generazione di ragazzi drasticamente nuova era una sfolgorante visione del rock’n’roll, che aveva cambiato la testa dei teenager americani e che continuava a esercitare il suo fascino anche in giro per il mondo, anche e soprattutto dopo che in America il fenomeno era rientrato in binari più mansueti, dopo che la normalizzazione dell’industria culturale americana aveva fatto strage dell’irruenta innocenza dei primi rocker. In quella musica c’era tanto sesso, c’era tanta musica nera, c’era tanta ribellione: troppe cose perché l’America potesse osservare inerme. Poco tempo dopo la valanga diventò irresistibile, non più arginabile, ma perché accadesse ci volle la miccia che arrivava dal Vecchio Continente, proprio da Liverpool, dove il rock’n’roll venne preso da un pugno di ragazzini capaci di sognare, rimesso a lucido e rilanciato nel mondo come un nuovo vangelo, adatto ai nuovi tempi che stavano arrivando.
Il rock’n’roll era, musicalmente parlando, non del tutto nuovo: in fondo riuniva cose che gli americani avevano già visto e sentito, come il blues, il country, il pop; ma c’era qualcosa di totalmente rivoluzionario nel modo, nell’approccio, nelle intenzioni che erano dentro alla musica. Per capirlo basta ascoltare Hound dog, un gioiello firmato Leiber e Stoller, versione Presley 1956, e poi l’originale di Big Mama Thornton che uscì nel marzo del 1953. Stessa canzone, altro mondo. Big Mama canta il blues, meravigliosa musica neroamericana, Elvis ne fa un inno, parlando a una generazione nuova di zecca, ancora parzialmente non svelata, e con la sua interpretazione avvia un terremoto epocale, una gigantesca faglia destinata a esplodere. Ed era proprio questo che intravidero John e Paul. In moltissime biografie di rocker, sia in Inghilterra che in America, si ripresenta costantemente l’attimo della visione, la prima volta che hanno visto Elvis e la loro vita è cambiata. Elvis e gli altri eroi del primo rock’n’roll avevano aperto, perfino al di là delle loro stesse intenzioni, una strada a otto corsie e avevano indicato una direzione. In fondo il rock’n’roll sollecitava un cambiamento e questo faceva la differenza con qualsiasi altra musica l’avesse preceduto. «Per la prima volta mi resi conto ascoltando Elvis, il rock’n’roll – disse Lennon –, che la musica poteva essere uno stile di vita». Non era più solo musica, intrattenimento, divertimento; era una cosa molto più ampia, coinvolgente, definitiva. Si sceglieva il rock’n’roll e si faceva una scelta di vita, diversa da quella dei genitori, con regole diverse, abbigliamento diverso, rapporti umani diversi. Per John, per Paul e i ragazzi di allora fu un’autentica rivelazione.
Questa scoperta, va detto, avveniva seguendo percorsi disordinati, spesso fortuiti. I dischi americani arrivavano a Liverpool in modo irregolare (soprattutto nel negozio di dischi della famiglia di Brian Epstein, nel centro della città), la radio trasmetteva qualcosa, ma non troppo, tenendo conto che allora la Bbc era molto tradizionalista. Era un nuovo mondo, e i ragazzi inglesi dovevano ricostruirlo pezzo su pezzo, mettendo insieme per proprio conto i tasselli dell’immagine completa. Ma bastava sentire Chuck Berry che lanciava in aria il suo Johnny B. Goode, o andare al cinema e vedere il ciuffettino malizioso di Bill Haley in Blackboard jungle, o quello svitato travolgente di Little Richard in The girl can’t help it, per andare fuori di testa. Paul e John furono fortemente suggestionati da Buddy Holly, quello che sentivano più vicino, un ragazzo apparentemente normale, «raggiungibile»: aveva gli occhiali, un atteggiamento meno esagerato, per certi versi più incoraggiante per chi volesse seguirne le orme. E poi aveva una band con un nome corto e fulminante, i Crickets, sulla cui assonanza Lennon pensò al nome Beatles, che d’altra parte omaggiava i Beetles, la gang di motociclisti di Marlon Brando in Il selvaggio. Altri riferimenti erano i Coasters, Jimmy Rogers, Big Bill Broonzie, una galassia tutta americana filtrata dalle fuliggini del porto di Liverpool.
Il mosaico comincia a prendere forma quando arriva George Harrison, più piccolo di John e anche di Paul, di cui era già amico e col quale condivideva le corse sul bus che li portava a scuola, al Liverpool Institute; decisamente più povero degli altri due, ma l’unico a cui era stata regalata una chitarra col preciso scopo di incoraggiarlo sulla via della musica. La madre era convinta che potesse diventare un grande chitarrista. Anche lui aveva scoperto il rock’n’roll per caso, una mattina, in strada, sentendo la voce di Elvis uscire da una finestra. George era bravo, e Paul lo sapeva. Organizzò l’incontro con John su un «doubledecker», l’autobus sul quale abitualmente tornavano a casa, e lì per lì George si lanciò in una veloce esecuzione di Raunchy che impressionò favorevolmente Lennon. Si misero a suonare tra una casa e l’altra, anche se la zia Mimi temeva che Paul potesse avere un’influenza negativa su John, come del resto il padre di Paul, che a sua volta...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Please please me. 22 marzo 1963
  3. 2. With the Beatles. 22 novembre 1963
  4. 3. A hard day’s night. 10 luglio 1964
  5. 4. Beatles for sale. 4 dicembre 1964
  6. 5. Help!. 6 agosto 1965
  7. 6. Rubber soul. 3 dicembre 1965
  8. 7. Revolver. 5 agosto 1966
  9. 8. Sgt. Pepper’s lonely hearts club band. 1° giugno 1967
  10. 9. Magical mistery tour e Yellow submarine. Lp 27 novembre 1967/Ep 8 dicembre 1967 – 17 gennaio 1969
  11. 10. White album. 22 novembre 1968
  12. 11. Let it be. 8 maggio 1970
  13. 12. Abbey road. 26 settembre 1969
  14. Epilogo