Boschi e labirinti
Chi invece è impeccabile nella visione delle cose presenti e future, e anche terribilmente tempestivo, è il Tribunale di Siena.
Sono stato appena raggiunto da una nuova comunicazione, vi aggiorno perciò volentieri sulla mia carriera di imputato, so che vi fa piacere.
Dunque, il fascicolo consta di tre pagine contenute nella tradizionale busta verde degli atti giudiziari, busta che però è di un formato leggermente più grande di quelle a cui siamo abituati, quelle delle multe per intenderci. Confesso che la misura extra large incute già soggezione, se non autentico sgomento, all’atto del ricevimento. Nella prima pagina campeggia in alto la scritta Tribunale di Siena e subito sotto, in caratteri appena più piccoli, Ufficio del giudice per le indagini preliminari, il mitico Gip. Roba forte.
Poi: Procedimento contro, e c’è il mio nome e cognome.
E poi ancora: Il Giudice per le indagini preliminari dispone che la richiesta di proroga del termine di durata delle indagini depositata dal Pm sia notificata, ai sensi dell’art. 406/3°comma c.p.p. (leggi: codice procedura penale), con avviso della facoltà di presentare memorie entro cinque giorni dalla notificazione.
Sul retro della stessa pagina, seguono altri adempimenti tesi alla medesima richiesta di proroga.
La seconda pagina viene da un altro ufficio del Tribunale, il cui acronimo (Unep) rimane avvolto nel mistero: si attesta che l’ufficiale giudiziario ha certificato la notifica della predetta comunicazione all’imputato, che sarei sempre io.
Il terzo foglio reca il timbro e la firma del Pubblico Ministero.
Considerando che la mia carriera criminale è appena all’inizio, penso che probabilmente dovrei incorniciare i documenti in cui vengo definito imputato e mi chiedo anche se, in certi ambienti, una roba del genere faccia già curriculum oppure se valgano solo le condanne definitive e gli anni di carcere.
Ma, al di là della facile ironia sulla mia condizione, devo ritenermi, una volta di più, fortunato. Prima di incorrere nei rigori della legge ne ho passate di tutti i colori, credetemi. E l’avevo sempre passata liscia. Esempio: qualche anno fa, un cerro di circa 22 metri di nostra proprietà è caduto improvvisamente, cioè senza nessun preavviso, sulla strada provinciale. La vetusta pianta ebbe il buon gusto di scegliere l’ora giusta per morire, le tre della mattina, così, per puro caso, nessuno si fece male. In quel tratto di collina era già caduta una pianta dalla proprietà del mio vicino, si era abbattuta sul cassone di un pick-up che passava di lì risparmiando per puro caso la vita del compaesano che era alla guida.
Quello che so di quella collina boscosa, piena di querce e cerri meravigliosi, secolari, è che, durante la seconda guerra mondiale, le piante ebbero a soffrire a causa di diverse esplosioni, tanto è vero che i fusti risultano pieni di schegge. Probabilmente il tessuto di tutte queste piante è stato danneggiato al punto da farle collassare con assoluta imprevedibilità . La logica conclusione non può che essere una: le piante che minacciano la strada, e dunque l’incolumità pubblica, devono essere tagliate. Un dispiacere enorme, sono cresciuto all’ombra di quei colossi, i loro muschi, i loro rami e il loro profumo hanno contribuito alla formazione del mio immaginario e all’amore per la terra della Valle senza nome. L’idea di tagliarle è perciò davvero dolorosa. Ma non c’è alternativa. Questo soprattutto mi ha insegnato il lavoro dell’agricoltura, la tempestività , non si può rimandare quello che va fatto, bisogna conservare la testa fredda e fare il proprio dovere. Se aveste chiesto un parere a un vecchio contadino, uno di quelli che ora vanno tanto di moda, vi avrebbe risposto di tagliare le piante senza problemi perché dove c’è la strada ci dev’essere la strada, e dove c’è il bosco ci dev’essere il bosco.
Mi dispiace tagliare le piante, d’accordo, ma la mia vita sarebbe finita se uno di questi giganti dovesse uccidere o anche solo ferire qualcuno, perché penso che la vita umana valga più di una quercia. Tra l’altro siamo in un contesto in cui le piante non mancano di certo, decine di migliaia di ettari di bosco per lo più composto da specie quercine, bosco che si perpetua grazie al lavoro dell’uomo, grazie cioè al taglio colturale che avviene ogni diciotto anni.
Con tutte queste considerazioni e preoccupazioni in testa, mi preparo a chiedere al sindaco un’ordinanza di taglio immediato per le piante pericolose. Sono tranquillo, un paio di anni prima la stessa amministrazione aveva emesso un’analoga ordinanza per un appezzamento appartenente alla stessa collina, in linea d’aria, poche decine di metri dal cerro caduto. L’ordinanza con carattere di urgenza ci permetterà di risolvere la questione nel giro di pochi giorni. Vado a rileggermi la vecchia ordinanza. Il tono è giustamente perentorio, già a cominciare dall’Oggetto. Sentite che roba: «Adozione di interventi contingibili e urgenti per eliminazione situazione di pericolo costituita da piante pericolanti lungo la SP 82 e la SP 41». Che stupenda determinazione! In calce, l’ordinanza, dopo aver fatto riferimento a varie leggi e regolamenti, ordina a noi proprietari «di provvedere entro quindici (15) giorni dalla data di notifica della presente ordinanza ad effettuare gli interventi indicati in premessa al fine di prevenire il pericolo che minaccia l’incolumità di cose e persone che transitano lungo le strade sopra citate». Forti di questo precedente, avanziamo la richiesta di taglio al Comune.
Guarirò mai dalla mia ingenuità ?
È una lotta impari, lo dovete riconoscere, quella tra un cittadino normale (ancora non era cominciata la mia carriera criminale) e le sinapsi indecifrabili degli amministratori, in questo caso, del Partito più Forte del Mondo. L’Ufficio tecnico oppone un reciso rifiuto. Nessuna ordinanza. Questo dice la lettera. Non capisco, c’è un problema di incolumità , un problema urgente, forse non hanno capito. Mando un’altra lettera in cui dichiaro che, in mancanza dell’ordinanza, mi riterrò sollevato da qualsiasi responsabilità insieme ai miei fratelli. Risposta: la responsabilità è vostra, volete abbattere le piante? Bene, sta a voi dimostrare che sono pericolanti, poi, nel caso, dovrete richiedere regolare autorizzazione paesaggistica, eccetera eccetera. Ma cosa c’è da dimostrare? Sono già cadute due piante, una ha rischiato di accoppare un cittadino, cosa devo dimostrare? Niente da fare, loro l’ordinanza non la fanno.
La tentazione è quella di percorrere l’unica strada che spaventa i politici: i giornali, i media. Ma io non voglio trasformare questa faccenda in un caso politico, io ho solo paura che le piante possano ammazzare qualcuno. Così, dopo essermi confrontato con la famiglia, decidiamo di aderire all’assurda richiesta del Comune. Anche in questo caso, pur non possedendo l’acume di un Winston Churchill, ipotizzo che, per qualche ragione, i politici non si vogliano prendere la responsabilità del taglio di queste bellissime piante che, tra l’altro, sono all’ingresso del paese.
Per me invece è sempre valido lo stesso principio: la vita umana prima di tutto, e così chiamiamo il miglior tecnico forestale della zona, il mitico, almeno per me, dottor Raffaele Pagliacci. Insieme a lui cominciamo un lavoro capillare di analisi, pianta per pianta. Alla fine le piante pericolose risulteranno essere 52. Di ognuna Raffaele fa un dossier, corredato da foto e campioni, che dimostra come la malattia fungina (Genoderma) abbia ormai attaccato tutto il bosco. Per la precisione, così si esprime il nostro tecnico forestale: «Ad aggravare una situazione di mancanza di stabilità si aggiunge l’azione patogena che le piante sopracitate stanno subendo da parte del fungo Genoderma ssp, il quale è causa diretta del marciume radicale e causa indiretta della carie, cioè di tutte le alterazioni del legno». E poi, planimetrie, tavole a colori, spettrografie, carotaggi e tutto quello che serve a convincere i nostri amministratori ad emanare questa benedetta ordinanza.
Presentiamo il dossier, in tre volumi corposissimi (e costosissimi, nonostante gli sconti che Raffaele applica con grande generosità ), un lavoro perfetto, lo presentiamo a chi di dovere: il Comune del paesello e l’Unione dei Comuni dei paeselli circostanti, organismo nato dopo la soppressione delle comunità montane e che, a noi cittadini, appare – probabilmente a torto – più come il solito «ufficio complicazione affari semplici» che come istituzione utile alla nostra vita, e ci mettiamo in attesa sperando in una risposta sollecita, vista la gravità della situazione.
Invece la risposta alla domanda retorica che mi sono posto poco sopra, sempre che vi incuriosisca, arriva sollecita: no, non guarirò mai dalla mia ingenuità .
Sì, perché il responso dei nostri amministratori, ancora una volta, è ambiguo, salomonico. Con una comunicazione scarna e distaccata, ci informano che hanno recepito la nostra richiesta, ma non sono convinti, e pertanto hanno deciso di convocare un tavolo tecnico. Questa mancanza di convinzione suona quantomeno strana. Risale a meno di due anni prima l’ordinanza di taglio così giustamente perentoria. Che è successo nel frattempo? Perché nel volgere di soli due anni questa situazione non è più considerata «contingibile e urgente»? Tra l’altro il tempo passa e il pericolo aumenta. Nello stesso appezzamento, tra l’autunno e l’inizio dell’inverno, cadono altre tre querce, per fortuna nel folto del bosco, lontano dalla strada.
Nel frattempo la voce della nostra richiesta di taglio si sparge. Non vi sto a dire che il paese è piccolo perché il nostro è piccolissimo, parliamo di quattrocento abitanti nel capoluogo, così la gente, del tutto legittimamente, chiacchiera. E di chiacchiera in chiacchiera, la richiesta di taglio arriva alle orecchie dei difensori estremi della bellezza, i talebani del paesaggio, gente di città che come riferimento forestale ha in mente la quercia del Tasso a Roma, una pianta morta da decenni e tenuta in piedi da una ridicola colonna di cemento.
I talebani si indignano, si riuniscono immediatamente e danno vita all’autoproclamato Comitato per la tutela del territorio. Con sorprendente zelo, scrivono una lettera di protesta. I destinatari sono: il Presidente del Consiglio (allora era Silvio Berlusconi), il Ministero delle Politiche Agricole, il Comando provinciale del Corpo Forestale dello Stato, il Comando locale dello stesso Corpo, la Regione Toscana, la Provincia di Siena, il nostro sindaco, il Fai (Fondo per l’ambiente italiano), Italia Nostra, il Wwf e la nostra Pro Loco. Oggetto: Scempio ambientale annunciato. Vi si legge, tra le altre cose, che le querce sarebbero «le ultime superstiti delle foreste che ricoprivano la zona fino alla fine dell’Ottocento», ignorando che nell’Ottocento già esisteva il bosco ceduo e che le piante in oggetto sono state lasciate dall’uomo che, evidentemente, riteneva che abbellissero l’ingresso all’abitato. Poi il Comitato vira e cerca di colpire il lettore con l’emotività : «Si tratta di alberi di straordinaria bellezza, ai quali competerebbe la qualifica di patriarchi...».
Ci risiamo, qui si confondono di nuovo esseri umani e piante, possibile che non si possa o non si voglia capire la differenza?
La lettera prosegue sempre con tono indignato e, a conferma di quanto l’indignazione sia un sentimento effimero e ambiguo, incappa in un altro errore: «In realtà , tranne alcuni casi da sottoporre ad idonee verifiche da parte di esperti, le piante in questione appaiono in ottime condizioni, sicché la ventilata drastica soluzione del taglio sembra del tutto inopportuna». Ovviamente i titolari di tanto impegno civile ignorano il nostro (costosissimo) dossier ed è altrettanto ovvio che non hanno proprio un occhio clinico: le piante, infatti, presentano già segni di sofferenza sulle chiome, alcune anche sul fusto, non a caso cadono. Ma il Comitato ne sa una più del diavolo: «Molte di queste piante potrebbero essere salvate mediante opera di messa in sicurezza già sperimentata altrove». Ecco, siamo alla quercia del Tasso.
Successivamente, parlando con una componente del Comitato, mi sono sentito dire che avremmo potuto assicurare le piante a cavi d’acciaio «come fanno in Inghilterra». Faccio osservare alla mia gentile interlocutrice che assicurare le piante con quella tecnica significherebbe dover cementificare l’intera collina. La vedo sbiancare, non capisce, la prende per una provocazione. Ma non lo è, per il semplice motivo che i cavi d’acciaio necessari a tenere in piedi questi moribondi dovrebbero a loro volta essere assicurati a qualcosa, cioè a dei pali di cemento ficcati sotto terra per cinque o sei metri. Considerando che il peso medio delle querce in questione è di un centinaio di quintali, quanti metri cubi di cemento dovrei iniettare nel terreno? E con quale risultato se non quello di aver ottenuto le prime querce zombi della nostra zona?
Poi chiedo, sempre alla mia gentile interlocutrice, perché nutra tanta sfiducia nella natura, un’ambientalista di vaglia come lei. La vedo sbiancare di nuovo, nessuno aveva mai osato tanto, ancora una volta sembra pensare che io la voglia semplicemente provocare, ma ancora una volta non è così: la vita vegetativa piano piano riprenderà il sopravvento, nuove piante cresceranno e il bosco sarà ancora al suo posto tra cent’anni, a patto che si tengano a bada le piante che minacciano la strada. Non è convinta, lo vedo, lo sento, sotto sotto teme che io voglia costruire delle villette a schiera proprio su quella bella collina. Ma non è vero, e io, più di così, non posso fare.
Nel frattempo, mentre rimaniamo in attesa del famoso tavolo tecnico, ogni volta che piove forte, o nevica, o tira vento, ci preoccupiamo e speriamo che non succeda niente. Duecento metri sopra l’incrocio dov’era caduto il cerro, cadono altri due colossi. I fusti sono completamente marci, cavi, morti. Non possiamo far altro che affidarci alla buona sorte.
Arriva finalmente il giorno del tavolo tecnico. Il 15 dicembre del 2009, giorno memorabile, sono convocati in Comune: il Comando provinciale del Corpo Forestale dello Stato, il Corpo Forestale locale, la Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici, l’Unione dei Comuni, l’Arpat (Agenzia regionale per la protezione ambientale in Toscana) dipartimento provinciale di Firenze ufficio Agroecosistemi, l’Amministrazione provinciale di Siena, noi proprietari e il Comitato. Un sacco di gente. Sembra un affare di Stato. Sembra. In realtà , penso mentre aspettiamo di cominciare, siamo alle solite, al più classico scaricabarile, al non prendersi la responsabilità . Per ragioni che posso solamente supporre, nessuno, tranne noi, vuole prendersi la briga di una decisione che, certo, può essere anche impopolare.
In questo modo, le diverse amministrazioni coinvolte a vario titolo potranno sempre dire che siamo stati noi a insistere, insinuando l’idea che non fosse poi così pericolosa la situazione, ma che ci possiamo fare noi, la legge è dalla loro parte e poi hanno fatto un tale putiferio che alla fine hanno ottenuto quello che volevano. Ovviamente non ho le prove, ma l’ambiguità dei comportamenti, il fastidio con il quale i nostri amministratori affrontano la faccenda, come fosse cosa di poco conto, il fatto di aver convocato un tavolo tecnico così nutrito, una sorta di conferenza in piena regola, non mi sembra lascino spazio a molte altre possibili interpretazioni. Anche perché, durante tutta la vicenda, mai l’amministrazione ha assunto una posizione netta, per esempio di difesa a oltranza delle piante. Come sempre, cercano qualcuno che levi le castagne dal fuoco per loro conto. E stavolta l’hanno trovato.
Ma una voce mi scuote da tutti questi pensieri. È quella del presidente del Comitato. Ha un suggerimento geniale per noi. Prende in disparte mio fratello per suggerirgli la soluzione che accontenta tutti: è semplice, bisogna fare in modo che il Comune espropri l’appezzamento, a quel punto la responsabilità è loro, voi siete salvi e ci fate pure una bella figura. Mio fratello cade dalle nuvole. A parte che il Comune ha già dimostrato un immobilismo e un’irrisolutezza granitica, quindi figurati se gli amministratori si farebbero carico di una gatta da pelare di questo genere, non sono mica scemi, e poi – dice mio fratello al presidente – il problema non è questo, il problema è che queste piante sono un pericolo per tutti i cittadini e gli ricorda che il famoso cerro di 22 metri che è caduto in mezzo all’incrocio ha sfiorato una bellissima casa di proprietà , indovinate di chi? Ma del nostro presidente del Comitato, che domande. Glielo fa notare; un fusto di 150 quintali che si abbatte su una casa, sulla sua casa, la taglia come fosse burro, perciò, se la nostra richiesta verrà accolta, salvaguarderemo anche la sua proprietà . Possibile che non se ne renda conto? Possibile. Guarda il mio frastornato fratello con commiserazione, come se si fosse lasciato sf...