Nomenklatura
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Chi comanda davvero in Italia

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Nomenklatura

Chi comanda davvero in Italia

Informazioni su questo libro

È diventata più forte dei partiti, del governo, del Parlamento e anche della finanza. Non vuole apparire, perché la sua forza è star dietro le quinte. Governa senza rispondere delle sue azioni. È un'oligarchia di tecnici dei numeri, delle formule giuridiche, delle teorie economiche. Non cambia, non cerca il consenso, non si presenta alle elezioni. Esercita il potere. È l'alta burocrazia dello Stato.Sono i consiglieri di Stato, i capi di gabinetto, i responsabili degli uffici legislativi dei ministeri, i tecnocrati della Ragioneria generale, alcuni alti dirigenti. Sono sconosciuti ai cittadini. Sono potenti, silenziosi, intoccabili. Scrivono le leggi e autorizzano gli emendamenti in Parlamento. Producono gli atti del governo e li giudicano nelle aule dei Tar e del Consiglio di Stato. Perfino la legge di Stabilità passa prima dalle loro mani e poi arriva sul tavolo del Consiglio dei ministri. Sono conservatori per definizione. Se le riforme restano al palo è anche per questo. Alla Nomenklatura non conviene cambiare nulla di quel che c'è.È vero, i tecnici ci sono sempre stati. Ma – e questa è la novità – a partire dal progressivo declino dei partiti, la politica si è ritirata lasciando libero un campo d'intervento sempre più ampio. Quando c'è stato da decidere, daagire, incapace di assumersi responsabilità e timorosa di perdere il consenso, ha abdicato in favore dei tecnici, dei consulenti, dei consiglieri. L'inchiesta di Mania e Panara parte da Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, e arriva a Palazzo Chigi passando per via XX Settembre, nel gigantesco ministero dell'Economia: è il triangolo romano di chi decide davvero.

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Informazioni

Argomento
Economics

II. Tutto il potere ai consiglieri

Uno su tre, ma anche di più, a seconda dei governi. I consiglieri di Stato sono, quasi sempre, i capi di gabinetto, i responsabili degli uffici legislativi di almeno un terzo dei ministeri. Sono loro – distaccati da Palazzo Spada, principesca sede romana del Consiglio di Stato – che governano, con sapienza, la macchina della politica, dietro le loro megascrivanie, a un passo dalla stanza del ministro, forti delle loro conoscenze giuridiche, capaci di percorrere le traiettorie oscure del diritto amministrativo, incrociando il diritto costituzionale e quello comunitario, tra le formulazioni latine e l’inglese globale. E così trovare le soluzioni tecniche per la politica. Ma anche per se stessi, quando serve. Oppure lasciare tutto com’è, facendo finta che tutto cambi. Anche perché loro Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa l’hanno letto per bene. E hanno imparato la lezione. Insieme ai loro “cugini”: i magistrati dei Tar, i giudici contabili della Corte dei Conti, gli avvocati dello Stato, i funzionari parlamentari. La Nomenklatura dei giureconsulti che ha governato e governa ancora il paese.

I veri legislatori

Loro – diciamolo subito – sono quelli che scrivono davvero le leggi, gli emendamenti e i sub-emendamenti; i regolamenti di ogni taglia; i codicilli semi-invisibili che rimandano a una norma e poi a un’altra ancora nel gioco perverso di una produzione normativa elefantiaca che serve anche a difendere e proteggere il potere pervasivo della burocrazia allargata.
«Ma chi è il legislatore?», si è domandato Sabino Cassese, giudice costituzionale, prestigioso studioso del diritto, ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi. E ha risposto: «Formalmente il Parlamento, nei fatti le burocrazie operanti sotto il comando del governo». Ecco, appunto.
La politica è quel comando che si è andato sbriciolando nell’arco di tutta la Seconda Repubblica, che ha abdicato, pensando ancora di esercitare una funzione di indirizzo che invece è del tutto scolorito dentro il frullatore dei partiti personali, dei nuovi arrivati sia nelle aule parlamentari sia nei piani nobili ministeriali senza selezione politica, senza militanza di partito, senza quel cursus honorum che nella Prima Repubblica consentiva di arrivare nei Palazzi di Roma solo dopo essere stati consiglieri comunali, sindaci, consiglieri e presidenti provinciali. Sono arrivati senza conoscenze. Sì, senza conoscenze: forzisti, leghisti, piddini privi di radici e di curriculum, infine grillini. Una classe politica leggera, rancorosa e ambiziosa. Unfit, titolerebbe l’«Economist». Così a legiferare sono rimaste – e si sono rafforzate – le burocrazie ministeriali e soprattutto i consiglieri che provengono prevalentemente da Palazzo Spada. Perché sono loro che, dopo averle scritte, portano le leggi a Palazzo Chigi (nell’«anticamera del governo», è stato osservato), come nelle commissioni parlamentari. E quando una norma va interpretata c’è sempre il ricorso al Tar, quello del Lazio, quasi un porto delle nebbie, e poi al Consiglio di Stato, composto da un centinaio di magistrati. Cioè a se stessi. A chi se no?
Ma questo non è il nuovo gioco dell’oca, per cui dopo tanto girovagare si torna sempre al punto di partenza. Perché una legge tira l’altra. All’infinito. Quante sono le leggi in Italia? Quali sono quelle che davvero servono? Questo è un sistema di potere che ha imbrigliato tutto il paese nel formalismo giuridico e non solo. Che ha scritto le presunte riforme e poi le ha consapevolmente insabbiate. E ci tiene tutti fermi, ingabbiati. In trappola. Altro che primato della politica!
«La competenza giuridica è alla base di tutto», ha dichiarato l’ex presidente del Consiglio di Stato, Pasquale De Lise, già “allievo” del consigliere Giovanni Torregrossa, potentissimo capo di gabinetto del ministero dei Lavori pubblici negli anni Settanta, a sua volta capo di gabinetto di Giovanni Goria e Guido Carli e poi presidente del Tar del Lazio e di tante altre cose, ma anche un vero monarca degli arbitrati milionari o miliardari, ai tempi della lira. Teniamola a mente, questa frase, perché ci servirà a capire molte cose. Ma intanto rileggiamo anche un breve passo di un articolo nel quale Romano Prodi, uomo che certo non ha navigato da dilettante nei multicanali del potere, riporta il pensiero di un potenziale investitore: «Se si abolissero i Tar e il Consiglio di Stato – gli avrebbe fatto notare l’anonimo investitore – il Pil assumerebbe subito un cospicuo segno positivo». Verrebbe da esclamare: «Addirittura!». Eppure l’analisi dell’ex premier non è affatto esagerata. E, in questo caso, la stessa fonte rafforza la tesi. Perché la rete dei consiglieri di Stato, libera dal controllo di una politica inadeguata e inconcludente, si è estesa a dismisura, consolidando se stessa. Processo che non necessariamente (guardando come vanno le cose verrebbe da dire “raramente”) ha coinciso con l’interesse generale.
Se le cose non sono mai cambiate è per questo mix tra il colpevole dilettantismo della nuova politica e l’asfissiante, lucida, azione di interdizione dei centri tecnocratici. Ciascuno ha pensato a sé, alla propria casta di appartenenza, nel paese che ha inventato le corporazioni per impedire agli altri di penetrare nel proprio campo di interessi. Ed è molto istruttivo riprendere la replica indiretta a Prodi da parte del presidente del Consiglio di Stato, Giorgio Giovannini, già capo di gabinetto a Palazzo Chigi con Bettino Craxi premier, nella relazione per l’apertura dell’ultimo anno giudiziario (2014): «Non credo che queste critiche siano fondate. Ad esse è anzitutto mancata una chiara riflessione di diritto costituzionale, perché si è omesso di considerare a pieno che le linee portanti del nostro sistema di giustizia amministrativa sono stabilite direttamente e inderogabilmente dalla Costituzione, a partire dai criteri di riparto delle giurisdizioni, al doppio grado del giudizio, all’attribuzione al Consiglio di Stato della funzione di garanzia della giustizia nell’amministrazione e ad altro ancora».
Il primato della norma e l’intoccabilità del dettato costituzionale, ma non una risposta alla gimcana cui viene sottoposta la decisione politica, quando c’è. Nessun dubbio sulle possibili responsabilità che un modello disegnato in un’altra epoca possa avere sui bassissimi tassi di crescita del nostro sistema produttivo, sulla scarsissima attrattività del nostro paese per gli investimenti internazionali, sulla nostra posizione in fondo alla classifica stilata dalla Banca mondiale sul doing business, sull’incertezza del diritto causata dall’eccesso di diritto. Tutto piegato sul formalismo, mentre il mondo – lì fuori – si muove da decenni senza interruzioni a velocità imprevedibili, mai viste prima, superando dogmi e antiche certezze. Due mondi, allora. Con uno tutto in difesa, consapevole ormai di poter essere accerchiato, ma risoluto a non mollare il suo potere.

I tecnici che ti epurano...

I parlamentari, dunque, sono nelle mani dei consiglieri di Stato o dei loro “cugini”, mani ben più avvolgenti di quelle dei lobbisti a volte maldestri e comunque costretti a fare le anticamere, armati di BlackBerry e altri impersonali arnesi tecnologici, fuori dalle commissioni di Palazzo Madama e Montecitorio. Anche i ministri lo sono, come i viceministri, i sottosegretari. Quando non sono essi stessi, i consiglieri, a trasformarsi in ministri, viceministri, sottosegretari. Raramente parlamentari. Lo vedremo. Sono i registi occulti delle trame legislative che si rappresentano nelle due Camere del Parlamento dove, non a caso, l’iniziativa legislativa promana sempre più dall’esecutivo con decreti legge e decreti delegati. Un processo legislativo che ha progressivamente rafforzato il potere decisorio dei tecnici tanto che affida poi alle decine, centinaia, di regolamenti ministeriali l’attuazione di una legge.
È qui – in questa fase bizantina del governo della pubblica amministrazione nella quale il cittadino finisce per voltarsi e scrollare le spalle rassegnato – che l’azione di interdizione della Nomenklatura diventa determinante, scoperchiando la fragilità della politica anche, paradossalmente, nella sua versione tecnocratica, come accadde durante il gabinetto di emergenza guidato da Mario Monti che si ritrovò, lui eurotecnico a capo di un governo di tecnici, vittima – come sostanzialmente ammise – dei tecnicismi della Ragioneria generale dello Stato e dei pezzi grossi della dirigenza ministeriale. Quasi traslando tra i tecnici la felice intuizione del vecchio leader socialista Pietro Nenni: «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro... che ti epura».
Dunque c’è sempre un tecnico più tecnico. Che ti epura o che comanda di più, dietro le quinte. Se ne sono accorti pure i saggi nominati dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per definire un’“agenda possibile” per uscire dalla crisi dopo lo stallo provocato dalle elezioni del marzo 2013. Hanno scritto: «Sempre più spesso le norme di legge, invece di rinviare la loro attuazione ad un “regolamento”, che ha un regime giuridico sufficientemente preciso, rinviano a figure di incerta definizione come i “decreti ministeriali non regolamentari”, semplicemente allo scopo di evitare le lungaggini dell’iter di approvazione dei regolamenti. Per riportare tale processo alla normalità è urgente snellire drasticamente l’iter di adozione dei regolamenti, evitando, tra l’altro – così hanno proposto –, la pronuncia sul testo sia del Consiglio di Stato che della Corte dei Conti». Ma non se ne farà nulla, va da sé. E poi è anche una piccola cosa, quella proposta dai saggi.
Dopo la decadenza del senatore Silvio Berlusconi, la fine delle larghe intese e la nuova maggioranza tra il Pd, il Nuovo centrodestra e Scelta civica, la scissione nel partito berlusconiano, la conquista da parte di Matteo Renzi del Partito democratico e poi di Palazzo Chigi e la clamorosa pronuncia della Corte costituzionale sulla incostituzionalità della legge elettorale nota come Porcellum, qualcuno si ricorda ancora dei saggi di Napolitano? Ma soprattutto si può pensare di scalzare così un pezzo del potere reale del paese? Così, con un inciso che già nella formulazione mostra timidezza e forse anche soggezione?
No, non è affatto facile indebolire i consiglieri di Stato. Non bisogna illudersi. È meglio che non lo faccia nemmeno Matteo Renzi. Loro sono passati indenni dalla monarchia sabauda allo Stato nazionale (l’Italia è nata dopo il Consiglio di Stato, tanto per non dimenticarlo), dal fascismo alla Prima Repubblica e da questa alla Seconda. Sempre più forti, come detto. Difficile allora non essere d’acordo con il costituzionalista Roberto Bin quando scrive (in «Quaderni costituzionali», 2, 2013, pp. 322-323): «La pochezza tecnica del personale politico che ha governato il paese ha lasciato il campo aperto al dilagare di un ceto semi-tecnico composto da consiglieri di Stato, alti dirigenti dell’amministrazione e della Ragioneria, magistrati ordinari e contabili, che si manifesta in tutta la sua sub-cultura centralista e autoreferenziale. Mai come negli ultimi anni essa emerge senza pudore [...]. Essa permea molti degli apparati amministrativi di vertice dello Stato che hanno goduto in questi anni di mani libere nel tracciare le direttrici tecniche della politica nazionale [...]. Anche le istituzioni politico-culturali che stanno a fianco dei partiti sono ampiamente “infiltrate” dai rappresentanti di questo ceto “tecnico”».
«La competenza giuridica è alla base di tutto», ha dunque detto De Lise. Ecco. Il potere dei consiglieri di Stato diventati capi di gabinetto, capi degli uffici legislativi, consulenti dei ministri e anche direttori generali dei dicasteri sta innanzitutto nel proprio know how, nelle proprie conoscenze profonde, custodite gelosamente, quasi inaccessibili. Un soft power pervasivo che si esercita, per forza, all’interno dei confini nazionali. E una legge, e tutti i suoi derivati, si scrive significativamente a mano, carta e penna (stilografica, ben inteso, altro che BlackBerry o tablet di ultima generazione!). Solo chi lo ha fatto può capire di cosa si tratta e della complessità che vi è sottesa. Già questo oggi è un segno di separatezza, di aristocrazia. Bisogna possedere le conoscenze per vergare il foglio di articoli, commi, commi bis, ter e via dicendo, e poi anche di relazioni tecniche, tenendo lì a fianco i codici e in mente gli equilibrismi necessari per far apparentemente coesistere i tanti interessi. È dunque un potere che tende ad innalzare barriere, a respingere l’estraneo, a evitare contaminazioni. Un movimento in direzione contraria a quel che accade nel mondo, dove il potere si diffonde e trova nuovi inediti tragitti diventando scalabile. Forse.
Ha scritto Moisés Naím nel suo La fine del potere: «Il potere sta attraversando un mutamento molto [...] significativo, che non è stato sufficientemente compreso. Mentre stati rivali, aziende, partiti politici, movimenti sociali e istituzioni o singoli leader lottano per il potere come hanno fatto nel corso dei secoli, il potere stesso – che stanno cercando di conquistare e conservare lottando disperatamente – sta scomparendo». Ma questo non è certo il caso dei consiglieri di Stato. Anzi. Il loro potere non sta affatto scomparendo, come si è potuto constatare pure nella composizione delle squadre ministeriali del governo Renzi con i consiglieri, ancora, in molti punti nevralgici.
È un vecchio potere e insieme nuovissimo perché, appunto, è innanzitutto il potere del “cervello” che copre – ed è questa la novità – spazi immensi, vere praterie, lasciati vuoti da una politica declinante, questo sì potere in crisi. Causa prima, dunque, dell’ascesa inarrestabile di consiglieri e grandi burocrati. Che, sia chiaro, rifuggono da ogni esposizione in ambiti sconosciuti. Perché i consiglieri di Stato e le loro corti si frequentano essenzialmente tra loro estendendo gli inviti solo a qualche manipolo di avvocati, e ammettendo talvolta gli altri giudici amministrativi, quelli dei Tar che però non vengono considerati dell’identico rango. Ci sono i partiti e i sub-partiti, le alleanze e le cordate anche tra i magistrati amministrativi. Meno chiassosi però dei giudici ordinari che amano apparire e mettersi in mostra.

I primi della classe

Si osservi che sono quasi sempre i vincitori di concorso (quindi i più giovani, quelli che entrano prima in carriera) ad accedere alla presidenza di sezione del Consiglio, mentre per i giudici dei Tar la scalata è invero tortuosa. Si muovono in cordata – i nostri consiglieri – senza far rumore. Nulla di organizzato ma tutto seguendo un codice non scritto che solo gli “adepti” conoscono. E invece, chi conosce i nomi dei capi di gabinetto o del potente segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri? Nessuno, a parte coloro che gareggiano nel circuito, a luce soffusa, dei poteri romani. Quel che i consiglieri di Stato sanno non viaggia su internet, non è fruibile ai più, piuttosto è frutto di fatica, di studi rigorosi vecchio stile.
L’avvocato Pompeo Lagùmina, protagonista della gustosa novella di Luigi Pirandello Concorso per referendario al Consiglio di Stato, resiste agli inviti della comitiva dell’ex convento del Romitorio perché – dice – «debbo prepararmi a un concorso difficilissimo, quello di referendario al Consiglio di Stato». Concorso che gli provoca incubi, notti insonni, angosce: «Ho però solo un mese davanti a me. Quando ci penso, mi sento mancar l’animo», confessa. Lagùmina poi sceglierà un’altra strada. Non aveva la stoffa. Ma chi, invece, arriva nelle stanze del potere dai concorsi per consigliere di Stato ha una marcia in più. E ne è consapevole.
Perché una cosa è vincere il concorso da giovane, ben altra è entrare a far parte del Consiglio per nomina governativa o per anzianità di servizio al Tar. Il merito va distinto dalla cooptazione che, appunto, segue altre logiche. Perché, va detto, il Consiglio è un ircocervo nella sua composizione come nelle sue funzioni. Recita l’articolo 100 della Costituzione: «Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione». Da una parte è uno dei consulenti del governo, anzi il principale; dall’altra esercita una funzione giurisdizionale di secondo grado nelle cause amministrative. E tre sono i canali per entrare a far parte del Consiglio: per metà l’accesso è riservato ai giudici dei Tar che abbiano quattro anni di servizio, ne facciano richiesta e siano ammessi; per un quarto è necessario vincere un concorso pubblico, l’aristocrazia dell’aristocrazia, i primi tra i primi della classe; e per un quarto, infine, i consiglieri sono di nomina governativa nonostante proprio il Consiglio di Stato sia l’organo che in ultimo grado giudica gli atti del governo in presunta violazione con gli interessi dei privati. Una variante (o un’applicazione) di quel nuovo gioco dell’oca che abbiamo già incontrato. Qui è il controllato (potenzialmente imputato) a nominare una parte dei controllori, o meglio dei propri giudici. Questione assai dibattuta tra gli addetti ai lavori ma con scarse conseguenze pratiche.
I giudici amministrativi hanno un loro, distinto, Csm, un Consiglio superiore della magistratura «in miniatura», come è stato definito. Si chiama Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Perché loro sono un corpo separato dalla magistratura ordinaria nel paese delle eccezioni, delle deroghe, delle distinzioni. Che passano necessariamente per via legislativa. E il nostro quadro, intanto, comincia ad essere un po’ più nitido. Andiamo avanti.

Una élite senza Ena

I consiglieri (in primis i vincitori di concorso) sono un’élite della stessa classe dirigente, in un paese che non ha mai avuto un’Ena (l’École nationale d’administration), come in Francia, per la formazione dei dirigenti dello Stato. Il concorso per consigliere di Stato è durissimo, come ai tempi di Pirandello. Selettivo come pochi altri. Spesso, il vincitore (che ha già superato quello per l’accesso in magistratura) appartiene a famiglie di giuristi, com’è nell’Italia delle dinastie professionali (d’altra parte basta verificare la ricorrenza dei cognomi) e del conseguente immobilismo sociale. Ma sono bravi, questi consiglieri di Stato, sia chiaro. E ben pagati. Molto ben pagati, anche perché negli anni passati, prima che la legge ponesse una serie di paletti, hanno integrato (si fa per dire) con arbitrati per affari milionari e con i collaudi. Dopo la cura Renzi dovrebbero rimanere essenzialmente la partecipazione alle commissioni di concorso e un generoso stipendio, come quello di un manager che si rispetti, ma senza i target da raggiungere, senza l’ansia delle trimestrali, senza le cadute del mercato, senza il controllo degli azionisti. Già, chi sono gli azionisti, in questo caso? Noi cittadini? La politica? I partiti? Lo Stato? Oppure, alla fine, non c’è nessuno che controlla? Nessuno a cui rispondere, in barba al principio anglosassone dell’accountability, che vuol dire responsabilità, rispetto delle regole ma anche trasparenza nei processi decisionali e valutazione dei risultati raggiunti.
I consiglieri di Stato sono perlopiù meridionali, campani, calabresi, pugliesi. Non è importante, però è un dato. Le donne sono pochissime. La Nomenklatura resta maschilista e conservatrice, nei suoi riti ma anche nella sua composizione. Nessuna donna è mai diventata presidente del Consiglio di Stato, come, d’altronde, nessuna ha mai presieduto la Corte costituzionale, la Corte dei Conti, il Consigli...

Indice dei contenuti

  1. I. Il potere che non si vede
  2. II. Tutto il potere ai consiglieri
  3. III. Nel palazzo dei tecnocrati
  4. III. Nel palazzo dei tecnocrati (2)
  5. IV. I ragionieri
  6. V. Il “mostro” di Palazzo Chigi
  7. VI. I garanti di se stessi
  8. VII. I frenatori
  9. VIII . I galleggiatori