Sabato 16 agosto.
La seconda giornata
La pioggia e il fango avevano portato le condizioni igieniche della fattoria di Yasgur al grado zero. E la straordinaria diffusione di droghe aveva fatto il resto. Le due cose insieme portarono a un dramma. All’alba del sabato la fattoria di Yasgur era un accampamento nel caos più totale, ovunque c’erano fango, tende, immondizia, sacchi a pelo, cicche, carte, vestiti bagnati abbandonati. L’organizzazione provò a fare pulizia, i proprietari dei terreni si misero anche loro a dare una mano, soprattutto cercando di ripulire le toilette. Su una collina un trattore tentava di passare attraverso l’immondizia e i sacchi a pelo, rimorchiando un carrello con un contenitore dei rifiuti dei bagni. Il trattore non vide un sacco a pelo e ci passò sopra: in quel sacco a pelo dormiva un ragazzo di diciassette anni, Raymond Mizak. Alcuni ragazzi corsero ad aiutarlo, chiamarono un’ambulanza, ma prima che l’elicottero potesse arrivare a prenderlo Mizak era già morto. Come molti altri ragazzi era andato al festival senza dirlo ai genitori, che non gli avevano dato il permesso.
Uno dei problemi più seri da affrontare era proprio quello dell’assistenza medica. Un responsabile c’era, il dottor William Abruzzi, ma il cuore era rappresentato da decine di infermiere volontarie che erano arrivate, su invito dello stesso Abruzzi, da tutte le località limitrofe. L’ospedale di Monticello era la struttura più vicina e molti dei feriti o dei ragazzi che stavano male furono portati lì. E poi c’era la «freak out tent», la tenda messa in piedi dall’organizzazione, gestita dalla Hog Farm, per aiutare i ragazzi che avevano problemi con le droghe, e in particolare con i cattivi «viaggi» fatti con l’Lsd. Lo staff medico aveva abbondanti dosi di torazina e di altri medicinali, dall’altra parte i più esperti Hog Farmers sapevano come intervenire con tecniche psicologiche. Le infermiere, dopo aver visto gli hippies in azione, cominciarono a usare anche loro l’approccio psicologico, mettendo da parte i medicinali. Si stava creando una situazione assurda, del tutto inedita, almeno in quelle proporzioni: gran parte dei consumatori di Lsd lo erano del tutto inconsapevolmente, perché dosi di acido erano state diffuse ovunque. Molti giovanissimi finivano nelle freak out tent perché non capivano esattamente cosa gli stesse accadendo, e questo creava loro forti disturbi psicologici. «Io non bevevo da nulla che non avessi riempito o lavato personalmente – disse Michael Lang –, non fumai nemmeno uno spinello durante il festival, non potevo permettermi di perdere il controllo in una situazione simile». Lang chiamò molte altre infermiere ed altri medici, che iniziarono ad arrivare la mattina del sabato. Dal palco sia Morris che Wavy Gravy più volte chiesero aiuto a qualche medico tra il pubblico.
Ma c’era un altro problema da risolvere. Come intrattenere la pazzesca cifra di 500.000 ragazzi fino al pomeriggio, quando il concerto, secondo il programma ufficiale, sarebbe ripartito? Tutti erano concordi sul fatto che la musica dovesse proseguire a oltranza, anche nella notte, per evitare che ci fossero troppi tempi morti. Il cast della giornata, dopo un venerdì fatto di folk e musica acustica, prevedeva massicce dosi di rock e blues: gli Who, i Jefferson Airplane, Janis Joplin, i Creedence Clearwater Revival, i Grateful Dead, Canned Heat, Mountain, Quill, Keef Hartley Band, la Incredible String Band, che non aveva suonato il giorno precedente, Country Joe McÂDonald, questa volta con la band, Santana, Sly and The Family Stone. Il raduno stava per sparare i suoi grandi e grossi fuochi d’artificio.
Nel frattempo la Woodstock Ventures aveva organizzato corsi di yoga, un mercato dove comprare oggetti, rappresentazioni di teatro di strada; e poi c’era il secondo palco, il «free stage», ma sia Lang che Roberts continuavano ad essere molto preoccupati. «Non avevamo previsto altro intrattenimento – ha ricordato Joel Rosenman a ‘Uncut’ – e pensavamo che se avessimo lasciato per troppo tempo la scena vuota avremmo rischiato disordini. La soluzione cui pensammo fu quella di chiedere ai gruppi di suonare molto più a lungo, dando loro il doppio del tempo a disposizione, e la maggior parte dei gruppi accettò con entusiasmo».
Quel giorno il primo a salire sul palco fu Mel Lawrence, direttore delle operazioni per la Woodstock Ventures. Chiese ai ragazzi di pulire l’area, di dare una mano per cercare di non sprofondare tutti in un mucchio di rifiuti. Lawrence venne salutato con un applauso. Non solo: il suo invito fu accolto con gioia dai ragazzi, che iniziarono a cercare di fare, per quel che si poteva in quel caos di fango, ordine e pulizia.
L’inizio del concerto fu notevolmente anticipato. Alle 12.15 salì sul palco il primo gruppo. I Quill non erano granché conosciuti, ma rappresentavano perfettamente lo spirito dei tempi, e in particolare quello di Woodstock. Erano cresciuti nell’area di Boston e si erano fatti apprezzare nei circuiti rock della città e a New York, suonando nei piccoli club o aprendo i set di grandi star come gli Who, i Grateful Dead o Janis ÂJoplin. Erano ottimi musicisti, polistrumentisti, e i fratelli ÂCole avevano delle capacità compositive non comuni. Il loro stile era eclettico, creativo, spesso addirittura avant-garde, ma eccessivamente psichedelico. Secondo Wikipedia «i fratelli Cole volevano far ‘pensare’ il pubblico anche mentre si divertiva con la musica». Ma la cosa più straordinaria dei loro set dal vivo era la capacità di coinvolgere il pubblico in jam session percussive: tutti i musicisti prendevano in mano strumenti ritmici e iniziavano a suonare con il pubblico, scatenando una vera e propria danza. Fu proprio questa improvvisazione ritmica a convincere Michael Lang, che vide suonare i Quill all’inizio dell’estate allo Scene di New York, gli propose di diventare il loro manager e li invitò a Woodstock. La leggenda vuole che quella stessa sera in quel concerto Johnny Winter suonò per la prima volta a New York, e che la serata si concluse con una jam session tra i Quill, Jimi Hendrix e Stephen Stills. Lang cominciò ad occuparsi di loro e in cambio i Quill aderirono anima e corpo al progetto del festival.
Arrivarono a Woodstock una settimana prima del festival e si sistemarono nel campeggio dell’organizzazione, suonando tutte le sere per loro e per gli Hog Farmers. La Woodstock Ventures usò i Quill e la loro musica per una serie di concerti gratuiti dedicati alla comunità della contea di Sullivan, per migliorare i rapporti con gli abitanti. Il sabato, quando Lang chiese loro di suonare prima del previsto, i fratelli Cole accettarono senza problemi, anche perché dopo le torrenziali piogge della notte il dio della pioggia sembrava finalmente placato. Il «crowd chant», l’invocazione contro la pioggia che i ragazzi avevano intonato incessantemente per tutta la mattina, nel fango, aveva finalmente funzionato.
Intorno a mezzogiorno il cielo si era finalmente aperto, per accogliere nel miglior modo possibile l’incipit della seconda giornata. I Quill suonarono quattro brani in circa mezz’ora: That’s how I eat, They live the life, Waiting for you e Driftin, e il pubblico rispose con entusiasmo. Ma non ebbero fortuna: le macchine da presa e l’audio non furono sincronizzati bene, e le immagini non finirono nel film, aggiungendoli così a quella particolare lista nera che riuniva gli «emarginati», i gruppi che per un motivo o per l’altro non poterono sfruttare la colossale cassa di risonanza offerta dal festival. Dopo i Quill arrivò il turno della band inglese capitanata da Keef Hartley, molto conosciuto in Inghilterra innanzitutto per essere stato il sostituto di Ringo Starr nella band di Rory Storm, gli Hurricanes. Sul palco di Woodstock Hartley portò una quarantina di minuti di solido rock blues britannico. Ma anche lui non passò alla storia. Colpa della sciagurata decisione del manager, che rifiutò a Wadleigh la possibilità di girare immagini della performance. Secondo le versioni più accreditate la band suonò Spanish fly, Believe in you, Rock me baby e un medley di brani del suo primo album, pubblicato proprio nel 1969.
Se i Quill e Keef Hartley furono cancellati dalla storia, le immagini del film giocarono al contrario un ruolo decisivo nel trasformare radicalmente la carriera di Carlos Santana. La band formata da Gregg Rolie, Jose «Chepito» Areas, Mike Carabello, David Brown e il diciassettenne Michael Shrieve era nata nel 1966 e si era fatta conoscere nella Bay Area grazie a una trovata decisamente originale, almeno per l’epoca: mescolare rock, blues e ritmi latini. Santana era un chitarrista originale, fantasioso, con una buona propensione melodica e soprattutto uno spiccato senso del ritmo. Anche la formula della band era originale. La sezione ritmica era basata su basso, batteria e due o tre percussionisti, una sorta di collettivo che cambiava spesso i suoi componenti e che, specialmente dal vivo, raggiungeva notevoli vertici di emozione e di coinvolgimento. A Woodstock la band arrivò caricatissima e, spinta dall’entusiasmo collettivo, produsse un set esplosivo, uno dei migliori di tutta la manifestazione. Andarono in scena attorno alle 14, scatenando ritmo, calore, passione: esattamente quello che ci voleva per riscaldare i cuori inumiditi dal disastro notturno. Era oltretutto una performance ad alto grado di partecipazione. Il film puntò su un efficace missaggio che faceva sembrare il ritmo della musica l’emanazione di una scansione che veniva dal pubblico, coinvolto dalle furiose percussioni e dall’incessante drumming di Michael Shrieve, una base che lanciava in alto le inconfondibili note lunghe che diventarono il marchio stilistico di Santana. «Il festival di Woodstock nel 1969 è uno di quei rari momenti in cui l’energia umana è riuscita a modificare la realtà ».
Quarant’anni dopo Carlos Santana ricorda ancora quei giorni con passione. Fu il punto di partenza per una carriera sfolgorante. «Per me era l’inizio di un sogno, la dimostrazione che tutto quello che all’epoca sognavamo era possibile. Lo stavamo facendo, tutti insieme, noi artisti sul palco e loro, i ragazzi, davanti. Se è rimasto qualcosa? Certo, tutto quello che viene seminato resta. E noi, in quei giorni, seminammo tantissimo amore». Santana era già un personaggio nei circuiti alternativi californiani, si era esibito più volte nella Baia e allo storico Fillmore di Bill Graham, ma non era certo una star. Lo diventò in quel momento. «Fu merito del film, in realtà . Proiettò la nostra immagine in una maniera straordinariamente mitica, amplificò moltissimo non solo la già potentissima portata dell’evento, ma contribuì a farlo diventare un festival planetario, a diffondere la musica e il messaggio in ogni angolo del mondo. E per me, l’ho detto tante volte, è stato un trampolino dal quale non sono più sceso». Cosa rese quel festival così particolare? «Tutto. I ragazzi, innanzitutto, che si unirono, si abbracciarono, si sostennero per tre giorni, in una situazione di assoluto autogoverno. E ovviamente la musica, che mise in circolazione i migliori sentimenti del tempo. Era un caos totale, eppure tutto funzionò. L’energia di quei giorni si è riverberata a lungo non solo sui partecipanti, ma anche su quelli che in seguito hanno visto il film. La musica rock assunse un significato diverso, che fino ad allora non aveva avuto». Basta ascoltare e vedere ancora oggi i quasi dodici minuti di Soul sacrifice immortalati nel film per capire che Santana ha perfettamente ragione. Il rock non sarebbe mai più stato lo stesso.
La situazione, nel frattempo, era diventata insieme più complessa e più tranquilla. I problemi maggiori derivavano dalle condizioni generali della zona. Ormai la fattoria di YaÂsgur era in una condizione sanitaria assolutamente fuori controllo: centinaia di migliaia di ragazzi erano immersi nel fango, con i servizi igienici fuori uso, con difficoltà di approvvigionamento idrico e alimentare, nell’impossibilità di restare al coperto e al caldo, visto che molte tende erano state completamente bagnate dalla pioggia e dai «torrenti» che si erano formati naturalmente durante la notte. E il traffico nell’intera area della contea era arrivato a un blocco completo. La Woodstock Ventures già il venerdì sera aveva spedito Wes Pomeroy a parlare con i responsabili della polizia di New York per far dichiarare la zona «area disastrata», il che avrebbe consentito all’organizzazione di far arrivare rifornimenti alimentari e sostegno medico in tempi molto più brevi. Alcuni politici di Albany però pensavano di far intervenire direttamente la Guardia Nazionale, per far chiudere il festival e rimandare tutti a casa. Rosenman e Roberts riuscirono a dissuaderli, perché una tale azione avrebbe potuto scaldare gli animi e provocare incidenti difficili da controllare. Il governatore dello Stato di New York, Nelson Rockefeller, dichiarò infine la zona «area disastrata» e la notizia fece rapidamente il giro del mondo. Arrivarono migliaia di telefonate di genitori preoccupati delle condizioni dei figli, ma incredibilmente tutto continuava ad andare avanti, i ragazzi erano contenti, pronti a fare gare di scivoloni nel fango, a dividere tutto quello che si trovava da mangiare e ogni piccolo spazio dove poter dormire, la droga circolava liberamente e la musica dal vivo funzionava a meraviglia.
La dichiarazione di Rockefeller consentì alla Woodstock Ventures di ottenere aiuti per la sopravvivenza dei ragazzi, con il contributo essenziale dell’esercito e dei suoi elicotteri. Ma i problemi, anche quelli apparentemente secondari, si assommavano l’uno all’altro e imponevano soluzioni. Un’ennesima grana fu provocata dall’invasione della Monticello Raceway, una pista automobilistica non distante dal sito del concerto. I responsabili protestarono ufficialmente con l’organizzazione, lamentandosi dell’«occupazione» di centinaia di ragazzi, e spinsero i loro avvocati a intentare causa alla Woodstock Ventures per danni. La notifica arrivò a Lang, ma il giorno dopo la causa fu annullata perché i responsabili della Monticello Raceway capirono saggiamente che la pubblicità che stavano ottenendo era di gran lunga maggiore dei danni che i ragazzi avrebbero potuto procurare all’area. E che tutto, incredibilmente, continuasse ad andare avanti sostanzialmente per il meglio lo testimoniò anche Max Yasgur, che salì sul palco per salutare i ragazzi: «Sono un contadino, non so come parlare a venti persone insieme, figurarsi come faccio qui da solo davanti a una folla come questa. Ma penso che voi, ragazzi, avete provato al mondo una cosa. Che mezzo milione di ragazzi possono stare insieme e avere tre giorni di divertimento e musica. Nient’altro che divertimento e musica. E io vi benedico per questo».
Il blues aveva già fatto la sua comparsa nella versione «latina» di Carlos Santana. Ma con l’approssimarsi del tramonto conquistò definitivamente il prato di Woodstock, grazie alla travolgente esibizione dei Canned Heat. Il fondatore e l’anima della band era il cantante Bob «The Bear» Hite, un fanatico cultore di blues, grande collezionista di dischi, che aveva trasformato la sua casa di Topanga Canyon, a Los Angeles, in un cenacolo di appassionati. È in questo ambiente che nacquero i Canned Heat, con Hite, Alan Wilson e l’ex zappiano Henry ÂVestine, ai quali si aggiunsero poi Larry Taylor e Frank Cook. Nel 1967 infiammarono la platea del festival di Monterey e nello stesso anno incisero il primo album. Ma il vero successo arrivò con Living the blues, grazie a un potente singolo da classifica, On the road again, in cui c’è ancora il blues, ma trasformato in una sorta di originalissimo raga, con tanto di sitar a fare da contraltare alla chitarra elettrica. Il pubblico non fece fatica a consacrarli tra i grandi del festival. Appena due giorni prima la band aveva perso il chitarrista Henry Vestine, per un litigio col bassista Larry Taylor. Fu sostituito da Harvey Mandel, che però non aveva mai provato col gruppo. Ma non fu un problema: il set fu straordinario, e la band suonò per un’ora a pieno regime, proponendo tra l’altro la leggendaria Going up the country, e poi A change is gonna come, Let’s work together, Too many drivÂers at the wheel, I know my baby, i quindici minuti d’improvvisazione di Woodstock boogie e ovviamente un gran finale con On the road again. Durante l’esibizione un ragazzo del pubblico salì sul palco: con la massima facilità , grazie alla totale assenza di controlli. In casi analoghi sarebbe stato scaraventato giù bruscamente, ma si trattava di Woodstock, e invece di farlo scendere Bob Hite si limitò a fumare una sigaretta con lui mentre il gruppo continuava a suonare.
Dopo i Canned Heat era finalmente arrivato il momento della Incredible String Band. Si erano rifiutati di salire in scena la sera precedente, e furono duramente puniti per questo errore strategico. Il loro set non fu particolarmente gradito, e del resto andare in scena dopo i Canned Heat e prima dei Mountain di Leslie West sarebbe stato difficile per chiunque, ancor di più per una band inglese che suonava elegante musica acustica, mescolando il folk ai raga, il jazz e la musica mediorientale, nel bel mezzo di una giornata di rock e blues ad elevata temperatura elettrica. «Sbagliammo – ricorda Joe Boyd –, anche perché avevamo completamente perso la magia dell’evento. Il secondo giorno l’atmosfera idilliaca del giorno precedente ci sembrava scomparsa, avevamo passato una notte terribile, c’era sporcizia, disordine ovunque, sembrava una zona di guerra nel fango, l’atmosfera era cambiata, sembrava tutto fuori controllo e disperato». Disperata, in realtà , era la band. Non voleva essere lì, non amava quel festival, non ne comprendeva la portata e il senso, non vedeva l’ora di andarsene. Suonarono poco e male e, nonostante fossero una delle band migliori del momento, furono esclusi dal film e dal disco. Fu come se non avessero mai suonato a Woodstock. Il pubblicò li salutò con misurata cortesia e si mise in attesa, pronto ad accogliere i Mountain, la band del chitarrista Leslie West e di Felix Pappalardi. Suonarono per un’ora e portarono in trionfo il rock blues inglese, tra gli applausi generali. Il loro modello era quello dei Cream, basso, chitarra e batteria, una ritmica solidissima sostenuta dal genio creativo di Pappalardi, che scriveva gran parte dei brani, e il solismo elegante e groovy di Leslie West. Suonarono molti pezzi, tra cui il classico Stormy monday, la bellissima Theme for an imaginary western scritta da Jack Bruce, WaitÂing to take you away. Poi arrivò il pezzo forte del loro repertorio, Dreams of milk and honey, seguito da un lunghissimo e avvolgente assolo di chitarra di West, prima del finale sotto il segno del più classico blues con Blind man, Dirty shoes e Southbound train.
La richiesta di suonare il doppio del tempo era stata duramente rifiutata da due sole band, gli Who e i Grateful Dead. E non era tutto. I rispettivi manager dissero che, anzi, i loro gruppi non sarebbero nemmeno saliti sul palco se non avessero avuto i loro soldi prima di esibirsi. La Woodstock Ventures aveva abbastanza denaro per pagare sia gli Who che i Dead nel conto in banca che la società aveva aperto alla Sullivan County National Bank, ma di sabato, ovviamente, la banca era chiusa. «Alle otto di sera, quando ci dissero che non avrebbero suonato, chiamai immediatamente Charlie Prince, il direttore della banca», ha ricordato Joel Rosenman a «Uncut». «Dissi: ‘Sono Joel, ho un problema’, e gli spiegai la situazione. Lui rispose: ‘Hai davvero un problema, perché la cassaforte non si riaprirà fino a lunedì mattina’. Ma qui c’è la parte miracolosa della storia. Charlie disse: ‘Non ricordo di aver visto Miriam mettere il suo cassetto nella cassaforte venerdì. Se non lo ha fatto possiamo probabilmente darti degli assegni di sportello’. Era così. Mandai un elicottero a prenderlo, e in 45 minuti stavo tornando verso il palco con gli assegni in tasca».
Erano circa le 22, ed era il turno dei Grateful Dead, ma la pioggia aveva nuovamente reso il palco pericoloso e i tecnici si misero al lavoro per cercare di rimediare al problema. I Dead erano sostanzialmente perfetti per Woodstock: incarnavano, assieme ai Jefferson Airplane, la rivoluzione che era in corso, il pacifismo, la libertà , le nuove «regole» dell’universo hippie, erano l’anima di Haight-Ashbury e di San Francisco, suonavano musica che partendo dalle radici del blues diventava psichedelica e creativa, improvvisavano gran parte delle loro performance cercando di raggiungere una singolarissima condizione di estatica empatia lisergica col pubblico. Ma, per strano che possa sembrare, non erano comunque entrati in sintonia con Woodstock, nonostante, a ben guardare, si trattasse del più gigantesco, cosmico «acid test» mai avvenuto. Salirono in scena in notevole ritardo e il loro set fu funestato da ulteriori problemi tecnici, con lunghe pause tra un brano e l’altro. Con buona probabilità la band aveva consumato eccessive quantità di droga, abbastanza da perdere il controllo della situazione. Fatto sta che il set dei Grateful Dead, durato circa un’ora e mezza, pause comprese, è stato considerato da Jerry Garcia uno dei peggiori della loro intera carriera. Saint Stephen fu solo abbozzata, High time fu interrotta dopo una trentina di secondi, per lasciare spazio ai tecnici, per oltre dieci minuti. La band riprese il concerto con una caotica e lunghissima (19 minuti) versione del capolavoro Dark star, la stella nera che aveva riempito con la sua ammaliante luce scura l’immaginario hippie, poi dette l’impressione di pote...