Tutti divi
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Tutti divi

Vivere in vetrina

  1. 144 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Tutti divi

Vivere in vetrina

Informazioni su questo libro

Assediati da una società iper-accelerata dove i legami tradizionali si allentano e il privato finisce sempre più spesso (e volentieri) in vetrina, abbiamo tutti più che mai bisogno di sentirci eroi. O, più modestamente, celebri. Vanni Codeluppi fotografa la tendenza più glam del nuovo millennio e il caso esemplare di Ligabue, divo suo malgrado.

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Informazioni

1. Divi d’oggi

Il divo come oggi lo conosciamo è nato in conseguenza di quella guerra commerciale che si è scatenata all’inizio del Novecento tra le principali società di produzione cinematografica di Hollywood. Prima del 1910, infatti, l’attore era pressoché sconosciuto al grande pubblico e ciò che contava era il personaggio da esso interpretato. Con la nascita del divo, per la prima volta l’identità dell’attore si è staccata dal personaggio impersonato, spesso diventando anche più importante di quest’ultimo. L’immagine di prestigio che il divo aveva sullo schermo si è tradotta poi nella vita reale in un mondo coerente ad essa: ville sontuose che copiavano i castelli feudali o i templi dell’antichità, grandi piscine di marmo, ferrovie private e ogni genere di lussuosità. E i media hanno svolto principalmente la funzione di diffondere tale immagine. Sono nati così divi come Mary Pickford, Lilian Gish, Gloria Swanson, Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks e Rodolfo Valentino. Ed è nato nel contempo anche il modello industriale dello star system. Un modello ampiamente analizzato nell’ambito degli studi sul cinema e che attualmente possiamo considerare quasi classico (Campari, 1985). Ma, come vedremo, oggi rispetto a tale modello sono cambiate diverse cose.

Il nuovo divismo

Qualche tempo fa, il presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy ha invitato a non occuparsi più di lui i giornalisti che lo accusavano di aver eccessivamente esposto in pubblico la sua vita privata e in particolare il suo legame affettivo con l’ex modella Carla Bruni. Evidentemente sapeva benissimo che i media non potevano farlo, se non volevano rischiare di perdere la loro preziosa audience. Perché le persone sono morbosamente interessate alla vita privata di Sarkozy, come a quella di tutti gli altri personaggi pubblici importanti. Il divismo sta dilagando. Se per divismo intendiamo un’elevata attrazione delle persone per tutto ciò che fanno nella loro vita i personaggi importanti della società e dello spettacolo, è evidente che negli ultimi decenni c’è stata una notevole crescita dell’importanza sociale di tale fenomeno. La vita privata dei divi (siano essi presentatori, attori, cantanti, politici o imprenditori) è costantemente osservata attraverso la lente d’ingrandimento dei media. Il pettegolezzo, ovvero il cosiddetto gossip, non solo ha visto crescere il numero delle riviste specificamente dedicate ad esso, ma ormai è dilagato in pressoché tutto il mondo dei media: dai quotidiani più austeri ai telegiornali, dai varietà televisivi a Internet.
Da che cosa deriva questo crescente interesse sociale per il mondo dei divi? Innanzitutto dal fatto che tutti, nessuno escluso, sono irresistibilmente attratti dal gossip. In generale, guardare attraverso un qualche «buco della serratura» e poter vedere all’interno della dimensione privata delle persone provoca una grande soddisfazione. A maggior ragione se si tratta di persone famose. Perché in questo caso non c’è solamente il piacere voyeuristico di poter conoscere la vita intima di qualcuno, ma anche la soddisfazione impagabile di mettersi in qualche misura sullo stesso piano del divo, sentirsi parte del suo mondo dorato. In realtà si tratta di un’illusione, ma il meccanismo è straordinariamente efficace sul piano psicologico.
Ma poi c’è anche, come si è detto, il fatto che uno dei principali processi sociali attualmente in corso è quello della vetrinizzazione sociale e che in tale processo gli individui sono costretti, come le merci in vetrina, a mettere in scena nella maniera migliore possibile se stessi e il proprio corpo. Perché i media hanno portato in primo piano quello che in precedenza stava nascosto in secondo piano e hanno progressivamente disgregato la barriera esistente tra i due ambiti fondamentali della vita degli individui: il privato e il sociale. Tutto è organizzato e messo in scena per l’occhio della videocamera, che lo registra e lo certifica attribuendogli una patente di «vera realtà». Una patente particolarmente importante in una esistenza sempre più mediatizzata e artificiale. Probabilmente, il fatto di essere guardati da qualcuno comunica alle persone che la loro vita ha qualcosa di interessante. E chi non ha nulla da mettere in mostra – un corpo, una competenza o un’abilità da ammirare – esibisce la sua sfera più intima. Pur di farsi notare, arriva a vetrinizzare completamente i suoi sentimenti e le sue sensazioni. Nessuna meraviglia allora che i comportamenti delle celebrità stiano sempre più diventando il principale modello sociale di riferimento: tutti vogliono sentirsi, almeno per qualche tempo, come quei divi che vivono continuamente sotto i riflettori, ma possono nel contempo godere di una vita piena di privilegi.
Certo, la condizione dei divi di oggi è profondamente diversa rispetto a quella dei divi tradizionali, quelli affermatisi nell’epoca d’oro dello star system del cinema hollywodiano. In passato, della vita privata del divo si conosceva pochissimo, mentre l’odierna industria del gossip fa sapere tutto. L’avvento della televisione e di un sistema delle comunicazioni sempre più pervasivo ha progressivamente «mondanizzato» i divi. Questi una volta erano essenze intangibili, soggetti lontani che vivevano in una condizione considerata superiore a quella umana e quasi divina. O meglio, come ha sostenuto negli anni Sessanta Edgar Morin nel libro I divi (1963), erano vissuti come «esseri ibridi», allo stesso tempo umani e divini, reali e immaginari. Esseri comunque distanti, seppure in grado di stimolare speranze di divinizzazione nei comuni mortali; in grado cioè di mostrare che era possibile diventare star, perché si trattava pur sempre di esseri umani. Oggi invece i divi sono maggiormente inseriti nello spazio della quotidianità.
Le star del passato, inoltre, rimanevano identiche a se stesse passando da un film all’altro. Oggi invece sono costrette soprattutto a offrire elevati livelli di prestazione interpretativa in ruoli spesso molto diversi tra loro. Anzi, la loro bravura aumenta proprio quando dimostrano di saper recitare al meglio in ruoli estremamente differenti. Diventano cioè dei «mutanti» che devono trasformarsi e rinnovarsi a ogni film. Ma, una volta che l’appartenenza al mondo dei divi viene fatta dipendere da un principio di prestazione (la performance attoriale), l’accesso a tale mondo diventa libero per chiunque sia in grado di fornire una prestazione adeguata. Il che produce un’ulteriore banalizzazione e quotidianizzazione del ruolo del divo.
A fianco di questo divo «prestazionale» oggi si apre però uno spazio anche per un nuovo modello di divo, per il quale scompare la necessità di offrire una prestazione. Sempre più frequentemente l’immaginario sociale si popola infatti di personaggi privi di particolari competenze o capacità professionali, diventati celebri soltanto grazie alla loro costante presenza mediatica. Sono personaggi come Fernanda Lessa e Loredana Lecciso. O come Marco Ahmetovic, il ragazzo nomade che nell’aprile 2007, guidando in stato di ubriachezza, ha travolto e ucciso con il suo furgone quattro giovani ad Appianano del Tronto e che in seguito a ciò ha potuto dare il suo nome a una linea di oggetti appositamente creati: capi d’abbigliamento, orologi, occhiali, profumi ecc. Il critico televisivo Paolo Martini ha chiamato questo fenomeno «Lelemorismo», dal nome del celebre agente dei vip dello spettacolo Lele Mora, e ha scritto che consiste nel «prendere i personaggi dal nulla, venderli per pochissimo denaro alla tv, dilatarne l’immagine con i soliti trucchetti del gossip, rivenderli per più soldi sul mercato delle serate, e infine moltiplicarne man mano il valore» (Martini, 2007, p. 47). Ma rientrano all’interno di questa nuova categoria di divi anche le persone sconosciute che diventano note soltanto grazie alla partecipazione a qualche evento o a un determinato programma televisivo, come un quiz o un reality show.
Ciò che conta comunque è che il divo, di qualsiasi genere esso sia, tende sempre a operare come uno «specchio», vale a dire come un personaggio dotato di un maggior livello di prestigio, ma simile alle persone comuni (stessa età, stessi interessi, stessa provenienza sociale) e nel quale soprattutto è possibile identificarsi e rispecchiarsi. Il suo successo testimonia che anche la persona comune ha la possibilità di arrivare agli stessi risultati. Spesso il processo di identificazione viene ottenuto anche presentando divi pieni di insicurezze e dubbi, ma proprio per questo maggiormente veri e in grado di coinvolgere le persone che si sentono vicine a loro.
Lo studioso inglese Cornell Sandvoss (2005) ha sostenuto che il divo viene solitamente considerato dal fan come una specie di protesi della sua mente. Funziona cioè come una sorta di «estensione del Sé». Alcune ricerche psicologiche svolte recentemente hanno evidenziato come per il fan sia difficile stabilire precisi confini tra sé e il suo oggetto di fanatismo, perché sviluppa una vasta gamma di fantasie identificatorie di rassomiglianza o imitazione rispetto al divo. E spesso cerca di essere veramente come lui, ricorrendo alle possibilità offerte dalla chirurgia plastica. Come ad esempio i due fratelli statunitensi Matt e Mike Schlepp, che hanno speso molte migliaia di dollari in interventi chirurgici per assomigliare all’attore Brad Pitt.
Negli anni Sessanta, Francesco Alberoni (1963), in quello che è stato il primo libro italiano dedicato al divismo, ha sostenuto che il mondo dei divi è un’«élite senza potere». Voleva esprimere l’idea che i divi dello spettacolo sono differenti dagli appartenenti alle élite tradizionali, i quali sono caratterizzati soprattutto dalla possibilità di gestione del potere politico. A suo avviso, la società impedisce ai divi di entrare nell’ambito della gestione della politica, così come allo stesso tempo preclude ai politici la via del divismo, perché dalla fusione di questi due mondi può nascere un grave pericolo per le società democratiche. Il pericolo che il carisma del politico si possa trasferire al divo, i cui comportamenti sono spesso discutibili sul piano morale. Il divo, infatti, può permettersi di essere trasgressivo e di non dover sottostare alle regole della morale corrente proprio in virtù della sua collocazione in una posizione sociale differente rispetto al potere politico tradizionale. Una posizione nella quale il divo può prendere decisioni che non rischiano di nuocere al destino della collettività e valgono le stesse regole di libertà che sono proprie del suo lavoro artistico. I divi possono perciò condurre una vita dissoluta, spesso anche mettendo alla prova la loro salute psico-fisica.
Le cose evidentemente negli ultimi anni sono molto cambiate. I divi dello spettacolo e i personaggi del potere tradizionale si mescolano in maniera crescente. I politici sono spesso ospiti di richiamo in varietà e programmi televisivi o si fidanzano con modelle e star dello spettacolo. Silvio Berlusconi è stato negli anni Novanta un pioniere in questo campo, portando nel Parlamento italiano numerosi personaggi provenienti dal mondo della televisione e dello spettacolo. Ma si pensi anche al caso di Barack Obama. Durante le elezioni presidenziali americane del 2008, infatti, non soltanto è stato sostenuto da moltissime rockstar, ma è diventato anche il protagonista del videoclip della canzone Yes, We Can, prodotto dal musicista Will.i.am, del gruppo Black Eyed Peas, e diretto da Jesse Dylan, figlio del celebre Bob. In tale video l’attrice Scarlett Johansson, i musicisti Herbie Hancock e John Legend e l’ex giocatore di basket Kareem Abdul Jabbar recitano insieme a molti altri personaggi dello spettacolo i passaggi più coinvolgenti del discorso con il quale Obama ha aperto le primarie democratiche. All’interno del video, i corpi e le voci del politico e delle star si mescolano gradualmente, creando una situazione di fusione totale tra il mondo della politica e quello dello spettacolo.
Va considerato inoltre che oggi la situazione è cambiata, anche perché il mondo della politica ha perso parte di quel potere che aveva in passato e che rappresentava la principale fonte del suo prestigio. La gestione della politica economica e di quella istituzionale subisce ormai numerosi vincoli derivanti dal fatto di dover operare in un sistema sociale che va sempre più globalizzandosi.
Ma è stata soprattutto l’evoluzione sociale ad avere reso meno importante l’élite del potere tradizionale. Il potere, più che nella politica e nelle istituzioni, si trova infatti nella società. Nel possesso delle informazioni che contano in un determinato momento e nel trovarsi nella posizione giusta all’interno delle reti sociali per poter entrare in contatto con tali informazioni. Ciò comporta di dover frequentare gli ambienti e i rituali sociali giusti. E far parte dell’élite dei divi dello spettacolo certamente aiuta.
Inoltre, per Alberoni, il divo dello spettacolo rappresentava un oggetto d’interesse solamente per la sua vita privata, per ciò che faceva nel suo specifico ambiente sociale, perché in tal modo diventava anche un modello da imitare nell’ambito della scelta dei beni di consumo, mentre il politico suscitava attenzione solo per il suo ruolo pubblico. Il divo soddisfaceva il bisogno di gossip, diventando «un oggetto selezionato del pettegolezzo collettivo». In cambio di una vita piena di privilegi, doveva accettare di esporre pubblicamente la sua vita privata. Oggi invece anche il politico deve sempre più consentire l’accesso dei media e dell’opinione pubblica nel suo spazio privato. E sembra conseguentemente godere di un livello di libertà che si avvicina in maniera crescente a quello del divo.

Da James Dean a Paris Hilton: come è cambiato il divo

Il televisore acceso dietro all’attore James Dean in una scena del celebre film Gioventù bruciata (1955) aveva uno schermo pieno soltanto di puntini luminosi e sembrava reclamare simbolicamente quell’intenso flusso ininterrotto di programmi che è poi arrivato e ha cambiato il ruolo dei divi e dello stesso Dean. Questi infatti è stato probabilmente allo stesso tempo l’ultimo dei grandi divi dell’epoca hollywoodiana e il primo dei divi della nuova era televisiva. Era certamente un divo, ma non incarnava quel modello di vita ideale e pienamente realizzata che sino a quel momento i divi di Hollywood esprimevano. Non soltanto perché è morto molto giovane al volante della sua Porsche, ma anche perché la sua personalità appariva fragile e tormentata già sugli schermi del cinema. La sua tragica morte non ha fatto altro che conferire autenticità a un personaggio che esprimeva il disagio delle giovani generazioni di fronte a una società non più in grado di soddisfare quella promessa di felicità che faceva loro. Un personaggio che rappresentava il bisogno dei giovani di essere autonomi e di ribellarsi al modello conformistico che veniva imposto loro da una società puritana come quella americana degli anni Cinquanta. Ciò l’ha reso indubbiamente più vicino alle persone comuni, facilitando il processo d’identificazione da parte dei giovani, ma ha indebolito quell’aura di prestigio di cui godevano i divi in precedenza. I divi continuano a rimanere giovani e belli, ma si umanizzano. È questa la nuova condizione del divo nell’era televisiva. E anche il cinema, probabilmente per effetto della concorrenza esercitata dal potente linguaggio del medium televisivo (più seducente perché parla della realtà vera delle persone), è passato a rappresentare un mondo reale dove i personaggi sono pieni di incertezze, soffrono come i comuni mortali e spesso sono addirittura degli «anti-divi», cioè divi ribelli e anticonformisti. Quei divi che esprimevano il mito sociale della felicità non potevano più esistere in una società come quella statunitense degli anni Cinquanta, che vedeva sempre più chiaramente emergere un malessere che è poi sfociato nei movimenti giovanili di aperta contestazione degli anni Sessanta e Settanta.
Non è un caso che l’altro grande modello divistico di quegli anni sia stato quello di Marilyn Monroe. Mentre Dean ha incarnato la figura di un adolescente inquieto e ribelle nel quale si sono identificati milioni di giovani, Marilyn, con la sua vita di autodistruzione progressiva (suggellata da una morte che è stata probabilmente determinata da un suicidio), ha mostrato a molte donne che dietro la sua immagine luccicante di diva c’era una grande fragilità e la sensazione di non poter essere pienamente realizzata e amata da qualcuno. Le donne, che lottavano all’epoca con grande impegno per la loro emancipazione, hanno riconosciuto dunque in questa diva molte delle loro difficoltà personali.
Se da James Dean e Marilyn Monroe in poi il ruolo del divo è cambiato, è anche perché il diffondersi del mezzo televisivo ha determinato nuove modalità di rapporto con il divo stesso. Andare al cinema era quasi un rito, un evento eccezionale che si viveva in un ambiente buio, coinvolgente e in grado di creare un forte distacco rispetto alla realtà. La televisione invece è fruita spesso, distrattamente e in un ambiente familiare. Inoltre, la tv usa strumentalmente i divi, perché questi le sono utili per vendere le merci della pubblicità, in quanto servono a catturare un’audience che sia la più vasta possibile e a girarla agli inserzionisti. Perciò possono essere facilmente sostituiti quando non funzionano più, perché in realtà, come ha sostenuto Carlo Sartori (1983), non sono più prestigiose star, ma soltanto semplici «personalità».
Inoltre, se il divo hollywoodiano cercava costantemente una distanza rispetto al suo pubblico, quello della televisione vuole a tutti i costi apparire normale, essere come la persona della porta accanto. Perché il cinema aveva bisogno di sfruttare il richiamo della star per fare uscire le persone dalle case e portarle nelle sue sale, mentre la televisione è già in casa e deve soltanto farsi accettare e riuscire a legittimarsi. Promuove perciò soprattutto se stessa. Conferisce l’investitura di personalità a chiunque vi appaia (attore, sportivo, cantante, scrittore, giornalista ecc.), ma ciò che conta è soprattutto il suo prestigio. Spesso infatti degli attori protagonisti delle fiction televisive gli spettatori conoscono soltanto il nome del personaggio interpretato. E sempre più frequentemente la televisione, medium della realtà per eccellenza, anziché creare propri divi, come faceva il cinema, va a cercare nuovi soggetti nella vita reale per poi presentarli al pubblico, amplificandone l’immagine.
Non è un caso dunque che il modello divistico si sia progressivamente esteso all’intera società. Sul piano temporale, ai divi del cinema si sono dapprima affiancati quelli della musica, probabilmente in virtù del fatto che sono particolarmente sintonici con il linguaggio della televisione. È esemplare da questo punto di vista il caso di Madonna. Questa infatti non sa cantare bene, non sa recitare e, per sua stessa ammissione, non ha doti artistiche superiori alla media. È insomma una donna normale, che oltretutto ha perso la madre quand...

Indice dei contenuti

  1. Premessa. Siamo tutti in vetrina
  2. 1. Divi d’oggi
  3. 2. La costruzione del divo
  4. 3. La musica pop tra creatività e industria
  5. 4. Il concerto: divi e fan si incontrano
  6. 5. Fuori e dentro Ligabue
  7. Conclusione. Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi
  8. Riferimenti bibliografici