V.
Nell’era
delle masse
Con la Rivoluzione francese è iniziata l’era delle masse, nella quale tuttora viviamo. Ed è iniziata, con Napoleone Bonaparte, l’era di nuovi capi dotati di straordinari poteri personali, eletti o acclamati delle masse, che hanno esercitato il potere con idee, metodi, mezzi, scopi e risultati così diversi e opposti, da lasciare avvolta in una perenne incertezza la possibilità di realizzare effettivamente “il governo del popolo, dal popolo, per il popolo”.
Nell’era delle masse sono avvenute guerre e rivoluzioni mondiali, combattute in nome e per il bene del popolo, sacrificando milioni di persone di quello stesso popolo in una lotta mortale di capi e di masse schierate su fronti opposti, per negare o per affermare il diritto dei governati a eleggere e revocare pacificamente i propri governanti.
Talvolta è stato proprio questo diritto a consentire le più antidemocratiche esperienze di potere personale di un capo. Ma lo stesso diritto ha consentito ai governati di eleggere all’esercizio del potere i più strenui difensori della democrazia. L’oscillazione fra queste opposte esperienze, che si sono alternate nel corso degli ultimi duecento anni, ha reso sempre incerta la previsione sul futuro del “governo del popolo, dal popolo, per il popolo”.
È il grave paradosso della democrazia nell’era delle masse, iniziato con l’avvento al potere di Napoleone Bonaparte, il primo capo che abbia imposto un regime di governo personale chiedendo e ottenendo dai governati, attraverso un plebiscito, la rinuncia volontaria alla libertà e al diritto di eleggere e revocare i governanti. E poiché la rinuncia è avvenuta in nome della sovranità del popolo, l’avvento dell’impero napoleonico può essere considerato la prima esperienza della “democrazia recitativa” nell’era delle masse: formalmente democrazia, di fatto governo del capo.
Io sono la rivoluzione
Nel 1792 Robespierre si era opposto alla dichiarazione di guerra della Francia all’Austria perché temeva che avrebbe aperto la strada alla dittatura militare. Il capo del governo rivoluzionario aborriva la dittatura, e dichiarò che avrebbe preferito un’assemblea rappresentativa di liberi cittadini governati da un re piuttosto che un «popolo di schiavi» governato da un dittatore. Due giorni prima di essere ghigliottinato, l’Incorruttibile aveva messo in guardia contro gli «effetti magici» della dittatura di un capo, «che corrompe la libertà, avvilisce il governo, distrugge la Repubblica, degrada tutte le istituzioni rivoluzionarie, presentate come l’opera di un solo uomo; rende odiosa la giustizia nazionale, presentata come istituita dall’ambizione di un solo uomo».
Come Robespierre aveva paventato, fu la guerra a favorire nella repubblica francese l’avvento al potere di un generale vittorioso, emerso dalla moltitudine anonima dei sudditi dell’antico regime. Fu durante la vittoriosa campagna d’Italia nel 1796 che il giovane Napoleone Bonaparte, comandante generale a ventisette anni (era nato in Corsica nel 1769 da una famiglia di origini italiane) ebbe la consapevolezza di non essere «più un semplice generale ma un uomo chiamato ad influire sulle sorti di un popolo», ad essere «un attore decisivo sulla nostra scena politica».
Geniale nell’arte militare, Bonaparte fu altrettanto geniale nel servirsi della propaganda per trasfigurare la sua persona da sconosciuto ufficiale in un capo leggendario aureolato di gloria, esaltando le sue imprese e le sue vittorie con i proclami, i bollettini di guerra, e i giornali fatti pubblicare da lui stesso per osannare i suoi successi. Stampe popolari, poesie, canzoni furono dedicate alle sue gesta. Poi, asceso al potere, grandi artisti come Jacques-Louis David, Antoine-Jean Gros e Auguste-Dominique Ingres parteciparono alla creazione della leggenda napoleonica con i loro dipinti, che lo ritraevano in pose eroiche, da quella di audace generale in guerra fino all’apoteosi imperiale.
Della rivoluzione il giovane Bonaparte aveva accettato l’abolizione del privilegio ereditario e l’eguaglianza civile dei cittadini, ma senza condividerne gli ideali democratici né la partecipazione delle folle. Per Bonaparte, nonostante le sue iniziali simpatie giacobine, le folle rivoluzionarie erano la plebaglia, la «vile canaglia», come la definì dopo aver assistito alla giornata del 10 agosto.
Bonaparte riconosceva il principio della sovranità popolare, lo considerava anzi «l’unica cosa che noi abbiamo ben definito», ma non credeva alla capacità del popolo di governarsi da sé. «Gli uomini non nascono per vivere liberi», perché «la libertà è un’esigenza sentita da un piccolo gruppo di persone, che la natura ha dotato di una mente più nobile rispetto alla massa degli uomini. Di conseguenza, può essere repressa impunemente. L’uguaglianza, invece, contenta le masse».
Dopo il colpo di Stato del 9-10 novembre (18-19 brumaio) 1799, con una serie di riforme costituzionali approvate dagli organi della repubblica e confermate dal voto plebiscitario del popolo, Napoleone si fece proclamare il 18 maggio 1804 imperatore dei francesi, incoronandosi con le proprie mani, il successivo 2 dicembre, in una fastosa cerimonia celebrata nella cattedrale di Notre-Dame alla presenza del papa. Dando origine a una propria dinastia, Napoleone volle rappresentarsi come un novello Carlo Magno, rinnovatore dell’impero romano e unificatore dell’Europa. Tutto ciò sempre proclamando di agire per la salvaguardia dei princìpi e delle conquiste della Rivoluzione francese, perché «io sono la rivoluzione», come disse il 24 dicembre 1800, dopo essere scampato a un attentato.
Imperatore della rivoluzione
Assicurato il predominio della nuova borghesia e dei notabili; garantita ai contadini l’acquisizione definitiva delle terre espropriate alla nobiltà e al clero; eliminati brutalmente i residui rivoltosi della Vandea e gli ultimi estremisti rivoluzionari; consacrati i diritti di proprietà, di uguaglianza e di libertà in un nuovo codice civile, Napoleone proclamò che «la rivoluzione, rimasta fedele ai princìpi in nome dei quali ebbe inizio, è finita», presentandosi come l’interprete della volontà generale del popolo francese, al di sopra delle fazioni, che avevano diviso la repubblica minacciandone la rovina.
Fece perciò appello a tutti i francesi, dai nobili emigrati ai giacobini arrabbiati, affinché si unissero «tutti alla massa del popolo» nella nazione una e indivisibile. Inoltre, nel 1801 attuò la pacificazione religiosa con il Concordato fra la repubblica e il papa, considerando la fede religiosa e l’apparato liturgico della Chiesa uno strumento fondamentale per il governo delle masse: «Per il popolo, una religione ci vuole», dichiarò alla vigilia del Concordato, perché non «può esserci ordine in uno Stato senza la religione». E i suoi argomenti per sostenere tale affermazione suonavano come una restaurazione del recinto sacro della Chiesa e del re:
La società non può esistere senza la diseguaglianza delle fortune, e la diseguaglianza delle fortune non può esistere senza la religione. Quando uno muore di fame accanto a un altro che rigurgita di cibo, gli è impossibile accettare una tale differenza se non c’è un’autorità che gli dica: “Dio vuole così; bisogna che ci siano dei poveri e dei ricchi nel mondo; ma poi, e per tutta l’eternità, la spartizione dei beni si farà diversamente”.
Nei confronti delle masse, se non erano quelle dei suoi soldati fra i quali viveva durante le campagne militari, Napoleone nutrì insofferenza e disprezzo. Quando fu progettata la cerimonia dell’incoronazione imperiale, qualcuno propose di celebrarla nel Campo di Marte, in ricordo della festa della Federazione, ma l’imperatore rifiutò risolutamente:
i tempi sono cambiati. Il popolo, allora, era sovrano, tutto doveva essere fatto davanti a esso: stiamo attenti a non fargli pensare che le cose stiano sempre così. Il popolo, oggi, è rappresentato dai poteri legali. Io, poi, non riuscirei a vedere il popolo di Parigi, né tanto meno quello francese, in venti o trentamila pescivendole o in altra gente di quella specie che invadesse il Campo di Marte; non ci vedo che la plebaglia ignorante e corrotta di una grande città. Il vero popolo, in Francia, sono i presidenti dei cantoni e i presidenti dei collegi elettorali; il vero popolo è l’esercito, nei cui ranghi sono i soldati di tutti i comuni della Francia.
Per l’incoronazione scelse la cattedrale di Notre-Dame perché «è più adatta, perché è più vasta e conserva ricordi, che parlano con maggior forza all’immaginazione; essa darà alla cerimonia un carattere di grande solennità».
Nell’arte di governo, Napoleone attribuiva grande importanza all’immaginazione:
è grande la potenza dell’immaginazione. Ci sono uomini che non mi conoscono, che non mi hanno mai visto; avevano soltanto sentito parlare di me, e cosa non farebbero per me! Ecco cosa fa il fanatismo! Sì, l’immaginazione governa il mondo. Il difetto delle nostre moderne istituzioni è che non hanno niente che parli all’immaginazione. Soltanto con essa si può governare l’uomo; senza l’immaginazione l’uomo è un bruto.
Per esaltare il riconoscimento del merito come unico fondamento per entrare a far parte della nuova aristocrazia del regime napoleonico, fu istituita nel 1802 l’onorificenza della Legion d’onore. A quanti deridevano le onorificenze chiamandole “ciondoli”, Napoleone replicò: «È coi ciondoli che si guidano gli uomini».
Pur fondando il suo potere su un immenso e capillare apparato poliziesco, Napoleone considerava altrettanto importante il “governo dell’opinione pubblica”. Per questo, insieme al controllo rigoroso della stampa, istituì un imponente apparato simbolico e rituale per rappresentare la sovranità nazionale e la grandezza della Francia, identificandole con la glorificazione della sua persona come capo civile e politico, oltre che genio militare: «Io – disse nel 1802 – non governo in quanto generale, ma perché la nazione ritiene che io possegga le qualità civili proprie di chi debba governare; se essa non pensasse così, il governo non potrebbe reggersi».
Il culto degli eroi
Napoleone fu il primo capo nell’era delle masse che realizzò una personalizzazione del potere con un consenso plebiscitario, presentandosi come un uomo nuovo, figlio della rivoluzione: «Io sono venuto dal popolo, mi sono fatto da me», affermò nel 1800; «La mia politica è quella di governare gli uomini come vuol esser governata la maggioranza. È questo, mi sembra, il modo di riconoscere la sovranità del popolo».
Fallito come creatore di un impero dinastico, Napoleone fu il fondatore della democrazia recitativa, il capostipite di alcune generazioni di nuovi capi venuti dal popolo che nel corso dell’Ottocento e soprattutto durante il Novecento, con il consenso del popolo e in suo nome, hanno usato il potere personale per negare ai governati il diritto di scegliere e revocare i governanti.
Napoleone generò un mito popolare che sopravvisse alla disfatta militare, alla fine del suo impero nel 1815, al ritorno della monarchia borbonica in Francia e alla restaurazione nel continente europeo del potere delle teste coronate per diritto divino. Prigioniero nell’isola di Sant’Elena, costruì in prima persona questo mito con il racconto delle sue memorie, nelle quali si raffigurava come strenuo difensore dei principi e delle conquiste della rivoluzione, che aveva combattuto contro i sovrani dell’antico regime per dare la libertà a tutti i popoli. Il mito di un Napoleone campione della democrazia divenne popolare in Francia soprattutto dopo il ritorno delle ceneri dell’imperatore a Parigi, il 14 dicembre 1840.
La cultura romantica contribuì a consolidare questo mito fra le nuove generazioni, che esaltarono soprattutto l’uomo nuovo venuto dal popolo, assurto al vertice del potere unicamente per le sue capacità, con il sostegno del popolo. Leggenda vivente, Napoleone diede un forte impulso al culto romantico dell’eroe, soprattutto nella figura del grande uomo d’azione, il capo politico che domina con la sua personalità un’epoca storica. Anche nemici di Napoleone come Chateaubriand subivano il fascino della sua immagine: «Bonaparte – scrisse nelle sue memorie – non è più il vero Bonaparte, ma è una figura leggendaria composta con le fantasie del poeta, le insegne del soldato e i racconti del popolo; è il Carlo Magno e l’Alessandro dell’epopea medievale che noi vediamo oggi. Questo eroe fantastico resterà il vero personaggio».
Quando il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) vide Napoleone attraversare Jena a cavallo, alla testa del suo esercito invasore, il 13 ottobre 1806, scrisse in una lettera di aver visto in lui «l’anima del mondo». Anni dopo, nelle lezioni sulla filosofia della storia tenute fra il 1821 e il 1831, il filosofo esaltò Napoleone fra i grandi uomini della storia, che nella loro azione individuale realizzano la «volontà dello spirito del mondo».
Nella scia hegeliana, il filosofo Thomas Carlyle (1795-1881), uno dei primi storici della Rivoluzione francese, tenne nel 1840 a Londra una serie di conferenze sul culto degli eroi, i grandi uomini artefici della storia:
la storia universale, la storia di quanto l’uomo ha compiuto in questo mondo altro non è, in sostanza, se non la storia dei grandi uomini che hanno operato quaggiù. Furono questi Grandi, i condottieri dell’umanità; gli ispiratori, i campioni e, in un senso vasto, gli artefici di tutto quello che la moltitudine collettiva degli uomini è riuscita a compiere e a conseguire.
Grandi uomini erano i fondatori di religioni come Maometto, i poeti come Dante, i riformatori religiosi come Lutero, ma il più importante fra i grandi uomini era per Carlyle colui
che comanda sugli uomini; colui al cui volere i nostri voleri debbono essere subordinati e rassegnati con fedeltà di sudditi che trovano nel far ciò il proprio benessere, può essere considerato come il più importante dei grandi uomini. Egli è praticamente, per noi, la sintesi di tutte le varie forme di eroismo; sacerdote ed educatore, ogni forma di dignità temporale o spirituale inerente ad un uomo, si incarna in lui per comandarci, per largirci un insegnamento costante e pratico; per dirci, giorno per giorno, ed ora per ora, quel che si debba fare.
Carlyle dedicò l’ultima delle sue conferenze all’eroe come sovrano, mettendo a confronto Cromwell e Napoleone, e giudicando il secondo inferiore a Cromwell, perché nella natura di Napoleone v’era un ciarlata...