Il fascismo dalle mani sporche
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Il fascismo dalle mani sporche

Dittatura, corruzione, affarismo

  1. 272 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il fascismo dalle mani sporche

Dittatura, corruzione, affarismo

Informazioni su questo libro

Truffe, tangenti, arricchimenti inspiegabili, legami con la mafia: il fascismo tutto fu tranne che una 'dittatura degli onesti'. Un regime, che pretendeva di forgiare un 'uomo nuovo' e di correggere i mali dello Stato liberale, vedeva in realtà estendersi il malaffare fino ai gangli centrali dello Stato. Un vero e proprio salto di qualità nel rapporto tra politica, corruzione e affarismo che spiega il successo e le rapide fortune personali di alcuni protagonisti di questi anni: dal caso del magnate dell'industria elettrica privata, Giuseppe Volpi, a quello del capo di Stato maggiore Ugo Cavallero. Ma 'mani sporche' sono anche quelle di alcuni degli esponenti più importanti del regime come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza o il giovane marchigiano rampante Raffaello Riccardi. Pratiche tanto comuni da diventare tragicomiche se guardiamo alle vicende dei 'pesci piccoli' a caccia di buone occasioni nelle colonie dell'Africa orientale dopo la conquista dell'Etiopia. Un iceberg, quello della corruzione, di cuiMussolini era pienamente consapevole tanto da dedicare costanti attenzioni al suo occultamento attraverso censura e propaganda.

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Informazioni

eBook ISBN
9788858135648
Argomento
Storia

Lo squadrismo al potere.
La parabola di Roberto Farinacci
di Matteo Di Figlia

Il giovanissimo Ettore non si assunse – né poteva, appunto perché giovanissimo e considerando la struttura di una famiglia siciliana – il ruolo di investigatore, di coordinatore, di guida del collegio di difesa. Avrà senza dubbio «meditato» (espressione che ricorre nelle sue lettere quando parla di una qualche difficoltà da superare), sul problema: ma proprio nel porselo come problema è da credere riuscisse a vivere il caso con più distacco e meno ansietà degli altri familiari. Che poi delle sue deduzioni, della sua soluzione del problema gli avvocati si avvalessero è del tutto improbabile. Quasi tutti «principi del foro» – e l’unico che non lo fosse era Roberto Farinacci: ma la sua nullità professionale era ad usura compensata dalla temibilità politica – c’è da immaginarsi con quale freddezza o addirittura spregio avrebbero accolto ogni profano suggerimento55.
Così, nel suo La scomparsa di Majorana, Leonardo Sciascia parlava en passant di Roberto Farinacci, individuando nella sua «temibilità politica» il motivo per cui era entrato nel collegio di avvocati che rappresentò la famiglia Majorana in beghe giudiziarie precedenti la scomparsa di Ettore. Quando Sciascia scrisse il libro, pubblicato per la prima volta nel 1975, erano già disponibili un paio di biografie del gerarca56, del quale ovviamente si parlava molto anche negli studi generali sul fascismo e l’Italia mussoliniana. Non so, però, se lo scrittore di Racalmuto abbia attinto a questa letteratura storiografica o se invece abbia dato conto di un rumore di fondo, di una memoria del periodo fascista che, sospesa nel pulviscolo dei racconti familiari o dei ricordi personali, era giunta fino all’Italia degli anni Settanta.
Di certo, l’idea che Farinacci si giovasse del suo peso politico anche nella professione di avvocato era diffusa sin dagli anni Trenta. Nella trascrizione di una intercettazione telefonica del 1939 leggiamo, ad esempio, che un avvocato rifiutava il nome di un collega per un patrocinio in Cassazione indicando senza indugio quello di Farinacci: «no; oggi Farinacci supera tutti. Fa annullare in Cassazione certe sentenze che nessuno immaginerebbe mai [...], Farinacci supera tutti, ha più influenza»57. Quest’ascendente era stato costruito nel tempo, attraverso una pervicace prassi volta all’acquisizione di una visibilità strettamente connessa al suo essere considerato leader del fascismo intransigente. Organizzatore delle violentissime squadre cremonesi nei primi anni Venti, assertore di una fascistizzazione completa del paese nel periodo successivo, era stato messo a capo del Partito nazionale fascista dopo la crisi seguita all’assassinio di Giacomo Matteotti, ma aveva perso la carica di segretario nazionale un anno dopo (1926). Le ragioni di questo allontanamento erano profonde e avevano a che fare con il conflitto con Benito Mussolini, intento ad attenuare il clima di terrore in cui le squadre avevano gettato il paese. Sui suoi giornali «Cremona nuova» e, poi, «Il Regime fascista», Farinacci non smise mai di auspicare fascistizzazioni feroci dell’establishment italiano, di scagliarsi contro coloro che, giunti al fascismo dopo la marcia su Roma, non potevano a suo dire essere considerati affidabili interpreti delle politiche del regime. Né mancò di lanciare strali contro i suoi avversari fascisti cui attribuiva arricchimenti illeciti, accusandoli di aver tradito la rivoluzione58. Ne derivarono continui contrasti col duce, stremato dai suoi richiami moralizzatori e consapevole di quanto lo stesso Farinacci avesse avuto modo di migliorare le sue condizioni di vita:
Quanto alla pezzenteria ed alle fortune – gli scriveva nel 1928 – io non contesto che tu fossi un pezzente nel 1922, ma nego nella maniera più recisa che tu sia rimasto un pezzente anche nell’anno di grazia 1928 – sesto del regime Stop. I veri pezzenti non vanno in automobile e non frequentano alberghi di lusso Stop. La demagogia del falso pezzentismo mi est odiosa come l’esibizionismo pescecanesco Stop59.
Lo stesso concetto gli veniva ribadito da altri gerarchi: «io ora vado in automobile – gli disse Leandro Arpinati in una agitata riunione svoltasi poco tempo dopo –, ho la serva, tutte cose che prima non avevo. [...] Ho una posizione sociale che prima non avevo e che mi permette un determinato tenore di vita. Tu stesso che fai l’avvocato io credo che tu non pensi che saresti diventato il grande avvocato Farinacci se non fossi l’ex segretario del partito»60.
Oltre che ergendosi a paladino dell’intransigentismo, però, Farinacci si difendeva mettendo insieme dossier sui suoi avversari, dai quali potevano evincersi malefatte e illeciti su cui costruire questioni morali61. Che quei fatti fossero veri e dimostrabili importava poco, poiché egli sapeva quale enorme peso nel dibattito pubblico avrebbe avuto una campagna moralizzatrice lanciata dai suoi giornali, a causa della sua nomea di fascista puro. Non a caso, uno dei punti più bassi dei suoi rapporti col duce si registrò nel 1930, quando girò voce di un dossier preparato da Farinacci su quello che veniva definito «il corruttore Arnaldo Mussolini»62. Ma perché Mussolini non se ne liberò mai allontanandolo dal partito? Possiamo rispondere a questa domanda sottolineando l’importanza del lascito squadrista, che – come si è tornati a sottolineare recentemente – rappresentò un nodo da sciogliere per tutto il Ventennio63. Molti uomini di cui parleremo erano stati squadristi e continuavano a definirsi, o a essere definiti, tali negli anni Venti e Trenta. In questa veste, partecipavano a lotte intestine, a conflitti per accaparrarsi contratti e denaro. L’affarismo diveniva allora uno dei piani...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione di Marco Palla e Paolo Giovannini
  2. Corruzione di sistema? I ‘fascisti reali’ tra pubblico e privato di Paul Corner
  3. Lo squadrismo al potere. La parabola di Roberto Farinacci di Matteo Di Figlia
  4. Costanzo Ciano e famiglia, i grandi ricchi del regime* di Matteo Mazzoni
  5. Giuseppe Volpi, il politico e i profitti del capitalista di Alessandro Volpi
  6. Ugo Cavallero tra industria e Stato maggiore di Paolo Ferrari
  7. «La banda degli squadristi». Raffaello Riccardi dalle Marche a Roma di Paolo Giovannini
  8. Una carriera emergente in terra di mafia* di Vittorio Coco
  9. L’arena (d’affari) di Verona di Federico Melotto
  10. Carlo Scorza e il fascismo ‘stile camorra’ di Umberto Sereni
  11. Predatori fascisti dell’impero di Emanuele Ertola
  12. Gli Autori