La sonnambula
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La sonnambula

L'Italia nel Novecento

  1. 496 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La sonnambula

L'Italia nel Novecento

Informazioni su questo libro

Il Novecento in Italia è stato un secolo imprevedibile e drammatico come i passi di una sonnambula, sempre sul filo di cadute rovinose, risvegli improvvisi e svolte impreviste. Un racconto originale e appassionante di una storia nella quale tutti noi siamo i protagonisti.

L'Italia nel Novecento ha spesso camminato come una sonnambula, inconsapevole dei rischi e delle difficoltà a cui andava incontro. Salvo risvegliarsi all'improvviso sull'orlo del precipizio o mentre cadeva. Così anche chi voglia farne il ritratto si trova a inseguire un'ombra sfuggente, affascinante e difficile da definire. Così abbiamo l'Italia di Cadorna a Caporetto che si desta sulla linea del Piave, l'Italia sonnambula sotto il balcone del duce che si sveglia mentre passeggia sui tetti delle città bombardate; l'Italia narcotizzata dalla corruzione che apre gli occhi con l'inchiesta Mani pulite, l'Italia illusa dall'idea di un progresso inarrestabile e di un benessere inattaccabile che si risveglia di soprassalto con la recessione del 2009. E allora, forse, l'unico modo che abbiamo per conoscere e comprendere meglio questa sonnambula è quello di realizzare un grande affresco. Un dipinto, capace di tenere assieme il passo del narratore con l'accuratezza dello storico, in cui i temi più consueti sono affiancati ai grandi avvenimenti culturali e ai risultati più recenti della storia sociale. Ad animare e a ravvivare il racconto troviamo poi i ritratti dei grandi protagonisti, realizzati con la convinzione che una storia d'Italia non possa essere che una storia degli italiani. Un libro destinato a tutti coloro che vogliono riscoprire la storia recente del nostro paese attraverso un punto di vista non convenzionale.

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Informazioni

1.
L’Italia di Giolitti

Gli italiani a tavola

All’inizio del Novecento gli italiani, i più poveri soprattutto, sapevano bene cosa intendevano quando, recitando il Padre nostro, dicevano “dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Il pane, il cibo in generale, era la base della sopravvivenza, la sostanza stessa della vita. Condividere il cibo era il momento centrale della vita familiare e di quella comunitaria: voleva dire vicinanza e, all’occasione, riconciliazione. Il pane veniva offerto agli ospiti, a significare accoglienza. La mancanza di cibo, al contrario, evocava lo spettro della morte per fame: “San Giovanni, ranne pane, simu muorti ri la fame”, pregavano i contadini di San Giovanni in Fiore, in Calabria.
Eppure, nella prima decade del nuovo secolo le statistiche dicevano che la grande fame, quella traumatica prodotta dalla carestia, apparteneva a uno ieri non troppo lontano. Insomma, per quanto la vita continuasse a essere dura per grandissima parte degli italiani, era meno dura che in passato. I livelli energetici medi si elevarono oltre le 2.500 calorie, guadagnando cinquecento punti rispetto al ventennio precedente. Diversamente da quanto sarebbe successo nella seconda guerra mondiale, la prima non avrebbe interrotto il trend positivo, e negli anni Venti si sarebbero sfiorate le 3.000 calorie. La crescita, è vero, doveva essere posta in rapporto alla emergenza alimentare degli anni Ottanta dell’Ottocento, figlia a sua volta della crisi agraria, ma alla fine il progresso c’era. Studi recenti confermano che tra il 1891 e il 1911 la percentuale delle famiglie sottonutrite scese dal 22,6 al 16,8%. Più di tutti crebbe il consumo di frumento, che passò da una media annuale pro capite di 115 chili del 1881-1900 ai 155 del 1900-15.
Ciò aveva un particolare significato in relazione alla progressiva diminuzione del consumo di grano turco. Non che nel Nord, in Lombardia e in Veneto soprattutto, la polenta e le focacce di mais non continuassero ad essere il piatto principale e quasi unico della dieta contadina. Attraverso la polenta, quelle popolazioni avevano raggiunto la sicurezza alimentare, pagandola però con la pellagra, una malattia legata alla polenta mal preparata e senza sale e soprattutto a una dieta che includeva quasi quell’unico piatto. Ma il pane di frumento fece grandi progressi. Rimase stazionario il consumo di carne, decisamente più basso in Italia rispetto a paesi come Francia, Germania, Regno Unito. Significativo il balzo in avanti del vino, che raggiunse nel 1901-15 una media annuale pro capite di 126,9 litri. Sia al Nord che al Sud, il vino, di bassa gradazione e di ancora più bassa qualità, era parte integrante della retribuzione dei braccianti agricoli: dal punto di vista padronale, aveva il pregio di costare poco e di dare calorie da spendere immediatamente nel lavoro.
La dieta contadina era fatta prevalentemente di cereali, legumi e vino, così che quasi tutte le proteine erano di origine vegetale. E se in Francia e in Gran Bretagna le decadi a cavallo del 1900 videro segnali consistenti del passaggio da una dieta cerealicola a una dieta carnea, questo non si può dire per l’Italia, dove solo in alcune città del Nord i consumi di carne ebbero un deciso aumento. Sulla tavola contadina la carne era praticamente assente, salvo che nelle occasioni di festa. Un contadino calabrese sentito nell’ambito dell’Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia del 1909-11 affermava: “I contadini vedono la carne quando sono moribondi e non possono più mangiarne”.
Progressi c’erano stati sul piano quantitativo e un numero crescente di famiglie contadine mangiava meno peggio di prima, ma la dieta della popolazione rurale non presentava novità sostanziali, come dimostra anche il fatto che la quota del reddito dedicata al cibo dalle famiglie italiane mediamente non superava quel 60-65% che era poi il dato registrato negli ultimi decenni dell’Ottocento. C’erano le prevedibili differenze tra Nord e Sud, come quella documentata, fra gli altri, da Alfredo Niceforo, secondo il quale i contadini del Nord mangiavano meglio di quelli del Sud. Chi mangiava peggio di tutti erano i braccianti meridionali, la cui dieta spesso si riduceva al famigerato “pane e coltello”. Secondo le inchieste agrarie nel Sud prevaleva il pane di frumento, anche se si trattava di una prevalenza tutta teorica – o meglio culturale –, visto che poi in tavola era ancora frequentissimo in pieno Novecento l’uso di farine di lenticchie nere e cicerchie e di grani inferiori, quando non di castagne o addirittura di ghiande. “Il villano in Sicilia – scriveva Sidney Sonnino nella sua famosa inchiesta del 1877 – mangia pane di farina di grano e, salvo i casi di miseria, si nutre a sufficienza”. Ma “i casi di miseria” finivano per essere molti di più di quelli che Sonnino potesse immaginare. Nel Mezzogiorno, lungo la dorsale appenninica, la necessità di risparmiare legna faceva sì che il pane si cuocesse in rudimentali forni familiari non più di una volta alla settimana, per cui le forme di pane superavano facilmente il chilogrammo. Diventavano più piccole nell’Italia settentrionale, in corrispondenza anche di un progressivo abbandono della fabbricazione casalinga del pane a favore di un maggiore ricorso al mercato.
I cittadini, anche se di estrazione popolare, avevano familiarità col “pane bianco” più di contadini e braccianti. Abitudini alimentari, che si sarebbero diffuse nel corso del secolo – come la prima colazione a base di caffè e latte e una alimentazione specifica per i neonati –, iniziarono a prendere forma e a diffondersi in tutto il territorio nazionale. La più significativa differenza tra l’ambiente urbano e le campagne risiedeva nel fatto che i comportamenti alimentari più innovativi iniziavano ad affacciarsi nelle città per poi estendersi lentamente alle aree rurali, seppure le città fossero anche il luogo dove le adulterazioni alimentari erano più frequenti e pericolose. Ma anche luogo privilegiato di un progressivo diffondersi dei consumi di pasta, dal Sud verso il Nord. Ai “maccheroni”, cibo quotidiano già nella Napoli del Settecento, basteranno pochi decenni per diventare il punto di forza dell’unificazione alimentare del paese e assurgere a inconfondibile simbolo di italianità. La pastasciutta condita con un sugo a base di pomodoro ebbe, se non altro, il merito di dare una nota di allegria e di colore alla nostra dieta nazionale. A tutto questo contribuì anche l’emigrazione, visto che molti italiani diventarono “mangiamaccheroni” solo in America (come presero piede a New York, per poi affermarsi anche in Italia, alcuni classici della canzone napoletana).
Strettamente legato alla diffusione della pasta il notevole progresso, all’inizio del Novecento, dell’industria alimentare e il successo di alcuni marchi che percorreranno, con alterne fortune, tutto il Novecento. In questo settore, il Nord, il Centro e il Sud diedero, ognuno, un proprio contributo. Nel 1878, Francesco Buitoni impiantò a Perugia uno stabilimento che nel giro di pochi anni fu in grado di utilizzare un procedimento di essiccazione turbomeccanica della pasta. E nel 1907 affiancò al pastificio una nuova fabbrica destinata a divenire una delle più note e importanti nel suo settore, la Società Perugina per la produzione di confetti. La famiglia Barilla, invece, dopo un primo periodo in cui si era dedicata alla panificazione, aprì a Parma, nel 1910, un nuovo stabilimento specializzato nella pasta all’uovo, con cento operai. Lo stabilimento venne attrezzato con i più moderni macchinari dell’epoca e la produzione toccò i cento quintali al giorno. Altro elemento innovativo il fatto che un investimento così importante fosse stato reso possibile grazie all’intervento delle banche. Nel 1900 nasceva anche la Cirio società generale conserve alimentari, che aveva il suo più importante stabilimento nel quartiere San Giovanni a Teduccio di Napoli. In quegli stessi anni, Torre Annunziata aveva più di cinquanta pastifici che davano lavoro a diecimila persone e altri pastifici sorgevano nella zona: a Gragnano, Torre del Greco, Castellammare, Portici.
Il diffondersi, non solo in Italia ma anche nelle aree dell’immigrazione italiana, del piatto base della nascente dieta nazionale ebbe ripercussioni impreviste, contribuendo all’improvviso sviluppo di settori di attività che stavano emergendo da secoli di immobilità. La ormai classica preparazione della pasta al sugo di pomodoro prevedeva una spruzzata di pecorino, con una crescente predilezione per un tipo particolare, detto “romano”. La Sardegna era già nel XVI secolo il primo paese del Mediterraneo nell’esportazione dei formaggi, anche se la sua produzione era prettamente artigianale. Almeno sino alla fine dell’Ottocento e ai primi anni del Novecento quando, rispondendo alla crescente domanda di “pecorino romano”, nacquero sull’isola i caseifici industriali. Si trattava di piccoli e piccolissimi stabilimenti, ma strettamente collegati al mercato internazionale, al punto che circa il 90% del “pecorino romano” sardo, che costituiva una parte preponderante della produzione nazionale, era destinato all’esportazione verso gli Stati Uniti. E proprio la crescente domanda statunitense aveva fatto da traino all’industria casearia sarda. Di conseguenza, esplose nell’isola anche l’allevamento ovino che da un milione e mezzo di capi del 1881 passò ai tre milioni del 1908, senza per questo mutare le sue forme tradizionali.
Parimenti, in tutto il Sud, interi comparti agricoli conobbero in questi anni uno sviluppo in gran parte legato all’esportazione. Gli agrumi in Sicilia e in Calabria, il marsala nella provincia di Trapani, la specializzazione viticola in diverse zone della Sicilia, le mandorle in Puglia rappresentano l’espressione di una agricoltura meridionale capace di cogliere le occasioni che la crescita urbana e lo stile di vita delle nuove classi medie – non solo italiane – offrivano. Notevole l’andamento dell’esportazione degli agrumi, che passò dai due milioni di quintali l’anno del periodo 1894-1901 ai tre milioni l’anno del decennio successivo. La leggendaria ascesa dell’agrumicoltura siciliana era parte di una narrazione più ampia che rafforzava la sensazione quasi mistica che la Sicilia, seguendo il proprio “genio”, fosse destinata a grandi cose. Sofisticate tecniche di lavorazione (che facevano tesoro anche della tradizione), la specializzazione, il felice collegamento all’industria delle essenze e dell’acido citrico costituivano sicuri punti di forza, di pari passo con le richieste del mercato. Il maggior punto di debolezza non era specifico del settore, consistendo in una propensione dell’imprenditore agricolo siciliano a investire più che nell’allargamento dell’impresa nel suo benessere personale e nel prestigio sociale.
Per la grande massa dei lavoratori italiani, gli anni Ottanta e Novanta erano stati decisamente difficili, ma il nuovo secolo prometteva di essere migliore. Crebbe l’occupazione, grazie soprattutto all’industria. Vi fu una tendenza al rialzo dei salari (l’indice dei salari reali, infatti, passò da 79,4 nel 1901 a 100 nel 1913), in un contesto in cui il prezzo che continuava a pesare maggiormente sui ceti meno abbienti, quello del pane, rimaneva stabile. Il modello di transizione demografica si adeguò, con qualche ritardo, a quello dei paesi europei più sviluppati. Al forte e progressivo calo della mortalità infantile si accompagnò un meno vigoroso decremento del tasso di natalità (nel Meridione la fecondità continuò a mantenersi su livelli premoderni sin verso il 1930): c’erano più nascite e allo stesso tempo la gente viveva più a lungo, determinando così una rapida crescita della popolazione. L’andamento demografico, che registrava 29,5 milioni di residenti in Italia nel 1881 e 33,7 milioni nel 1901, raggiunse i 36,7 milioni col censimento del 1911. Quindi, nel giro di trent’anni, c’erano sette milioni di bocche in più da sfamare, e la cifra sarebbe stata molto più elevata se l’emigrazione non vi avesse fatto fronte.
Il flusso degli espatri, già alto negli anni Novanta, nella prima decade del nuovo secolo praticamente raddoppiò (con una media di 600.000 espatri l’anno), per continuare poi sino all’entrata in guerra. Avevano iniziato i contadini veneti e piemontesi ma, dagli anni Ottanta dell’Ottocento, furono quelli meridionali a partire in massa, soprattutto verso gli Stati Uniti. Dopo gli anni Settanta, epoca fino alla quale la Francia aveva rappresentato la destinazione principale dell’emigrazione italiana, i movimenti verso l’America divennero prevalenti, al punto tale che vengono valutati intorno ai 14 milioni gli italiani che tra il 1876 e il 1914 emigrarono in Nord America, in Argentina e in Brasile: tra essi 5 milioni e mezzo provenivano dal Mezzogiorno. Quando all’inizio del secolo Giuseppe Zanardelli si spinse sino a Moliterno, in Basilicata, primo presidente del Consiglio a raggiungere quelle terre, si sentì dire che degli ottomila abitanti del comune tremila erano emigrati in America, mentre gli altri cinquemila si accingevano a farlo. Dai primi anni del secolo sino alla prima guerra mondiale l’emigrazione non conobbe tregua, alimentata anche dai resoconti sulle ricche opportunità che gli Stati Uniti, il Brasile e l’Argentina avevano da offrire a chi avesse spirito d’iniziativa e voglia di lavorare.
Le aree geografiche più interessate dal fenomeno dell’emigrazione furono, in una prima fase, quelle dell’intero arco alpino, dell’Appennino tosco-emiliano e delle regioni appenniniche dell’Italia meridionale, poi, tra il 1900 e il 1914, subentrarono anche la Sicilia, l’Umbria e le Marche. Le ragioni di questa forte impennata dell’emigrazione sono molteplici, anche se le motivazioni strettamente economiche furono di sicuro le più rilevanti, sebbene non le uniche. Infatti, in particolare la società statunitense era considerata dai più meno soggetta a rigide gerarchie e quindi più aperta a individualità capaci e intraprendenti; più in generale, se condizioni di vita disperanti potevano essere alla base della scelta di emigrare ciò non impediva che il quando e il dove rispondessero a piani articolati e a volte ambiziosi. Strategie tra loro diversissime possono essere, però, ricondotte a due diverse modalità di base: l’emigrazione temporanea (maschile nella quasi totalità dei casi), che veniva in soccorso a strutture familiari e sociali lasciate in larga misura intatte; o il progetto di un trapianto definitivo e quindi di un radicale cambiamento di vita.
Le rimesse degli emigrati svolsero un ruolo importante, oltre che nella stabilizzazione della lira, soprattutto nell’economia del Meridione, da cui proveniva almeno la metà di essi: si trattò, come ha scritto Andreina De Clementi, di una “gigantesca iniezione di liquidità” che consentì a migliaia di contadini di liberarsi dei debiti, soprattutto verso il fisco, preservando, insieme alle loro rispettive proprietà, un ordine sociale che aveva uno dei suoi capisaldi nella piccola proprietà contadina. Circolò più denaro di quanto se ne fosse mai visto, non solo il denaro che arrivava tramite le rimesse ma anche quello che direttamente spendevano i più fortunati tra gli “americani” quando, tornati al proprio paese, si facevano costruire una casa o, meglio ancora, avviavano un’attività commerciale o addirittura imprenditoriale.
Sull’altra sponda dell’Atlantico, gli italiani e le italiane emigrati contribuivano in misura significativa a dare un volto a paesi che, appunto nei decenni a cavallo del Novecento, stavano assumendo, proprio grazie agli immigrati, un aspetto del tutto nuovo. Nel 1914 in Argentina il 58% della popolazione o era nata all’estero o era figlia di immigrati di prima generazione, proporzione più alta a Buenos Aires dove gli italiani costituivano il gruppo più folto tra gli immigrati. Molti erano stagionali e impegnati in lavori agricoli, ma anche in attività di altra natura: erano molti i musicisti, dai più modesti orchestrali alle primedonne, che si trasferivano a Buenos Aires quando chiudeva la stagione operistica in Italia. Fu un direttore d’orchestra italiano, Luigi Mancinelli, con la sua Gran compañía lírica italiana a inaugurare il 25 maggio 1908 con una Aida il gigantesco Teatro Colón, che si affermò quasi da subito come uno dei maggiori centri a livello internazionale dell’opera italiana.

Una nazione industriosa

Il 1896 fu l’anno chiave in cui vennero meno i due fattori negativi che avevano frenato l’economia negli anni precedenti: la caduta dei prezzi e il perdurare degli effetti della crisi agraria degli anni Ottanta. Il rialzo generalizzato dei prezzi al consumo segnalò l’inversione del ciclo, favorito a sua volta dalla ripresa del commercio internazionale. In aggiunta alla ripresa delle banche dalla crisi iniziata nel 1888. Tra il 1896 e il 1908, il tasso medio annuale di sviluppo industriale fu del 6,7%. Si trattò di un avvio industriale di tipo “eclettico”, che si valse sia delle felici intuizioni e delle capacità organizzative di talentuosi imprenditori, sia di interventi esterni da parte di banche “miste” e dello Stato. Vi furono settori in cui i risultati dell’industria italiana si dimostrarono superiori a ciò che ci si sarebbe attesi da un paese “arrivato secondo” all’industrializzazione.
La produzione di elettricità raggiunse livelli di eccellenza sia per la quantità di kw prodotta sia perché, già nel 1908, i due terzi dell’intero fabbisogno erano soddisfatti da energia elettrica di origine idraulica, sfruttando cioè una fonte di energia puramente nazionale. Circa il 90% della produzione idroelettrica era destinata all’industria, ma si trovò spazio anche per altre importanti utilizzazioni: Milano fu una delle prime città al mondo ad avere una illuminazione completamente elettrica. Anche la siderurgia conobbe una forte espansione usufruendo del riparo della barriera doganale e di commesse statali dalle quali ebbe il primo decisivo impulso. A creare la Società degli alti forni, fonderie e acciaierie di Terni (Saffat) nel 1884 intervenne con i propri capitali Vincenzo Stefano Breda, ma l’impresa non avrebbe avuto inizio se lo Stato non fosse stato disposto a pagare in anticipo una grossa fornitura navale. A impreziosire l’attrezzatura dello stabilimento, il grande maglio da 100 tonnellate, tra i maggiori in Europa, indispensabil...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. L’Italia di Giolitti
  3. 2. La Grande Guerra
  4. 3. L’avvento del fascismo
  5. 4. L’Italia fascista
  6. 5. La seconda guerra mondiale
  7. 6. Una repubblica fondata sul lavoro
  8. 7. Una vita più dolce
  9. 8. Crisi e trasformazione
  10. Conclusioni
  11. Note