All'inferno e ritorno
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All'inferno e ritorno

Europa 1914-1949

  1. 664 pagine
  2. Italian
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All'inferno e ritorno

Europa 1914-1949

Informazioni su questo libro

Un succedersi vorticoso di prosperità e abisso, illusione di grandezza e autodistruzione, da cui si esce nel secondo dopoguerra molto ammaccati ma pronti a una nuova vita. Una lettura da suggerire a chi oggi farfuglia la sua avversione all'Europa, ignorandone l'epica tragica e la capacità di resurrezione.Simonetta Fiori, "la Repubblica"

Se cercate un resoconto autorevole e attendibile della straordinaria lotta per la supremazia che è avvenuta in Europa, questo è il libro che fa per voi."The Guardian"

Un libro magistrale."The Economist"

All'inferno e ritornomette i brividi… Dovrebbe essere una lettura obbligatoria per ogni uomo di governo, in ogni luogo dove gli euroscettici elaborano le loro tesi."The New York Times Book Review"

Estate del 1914: gran parte dell'Europa precipita in un conflitto sconvolgente. La gravità del disastro terrorizza i sopravvissuti, nessuno può credere che la civiltà modello per il resto del mondo sia sprofondata nella brutalità più assoluta. Solo vent'anni dopo la fine della Grande Guerra, nel 1939, gli europei iniziano un secondo conflitto, persino peggiore del primo. Nonostante le crude cifre non possano restituire la gravità dei tormenti inflitti alla popolazione, la conta dei morti – oltre quaranta milioni soltanto in Europa, quattro volte di più della prima guerra mondiale – ci fa percepire con concretezza questo orrore. Ian Kershaw ricostruisce una nuova, monumentale storia dell'Europa contemporanea: un periodo straordinariamente movimentato e tragico che ha visto il continente sfiorare l'autodistruzione e, solo quattro anni dopo aver toccato il fondo nel 1945, gettare le basi per una stupefacente resurrezione.

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Informazioni

eBook ISBN
9788858140994
Argomento
Storia

1.
In bilico

Noi prendiamo il pacifismo molto sul serio. Vorremmo solo mandare avanti il nostro progetto relativo all’artiglieria.
Il generale Stumm, in Robert Musil,
L’uomo senza qualità (1930-42)
Già tra i contemporanei non erano mancati i presagi che lo scoppio della guerra avrebbe significato la fine di un’epoca. La più nota di queste premonizioni fu espressa dal ministro degli Esteri britannico, Sir Edward Grey, il 3 agosto 1914: «Le luci si stanno spegnendo in tutta l’Europa. Nel corso della nostra vita non le vedremo riaccendersi». Il cancelliere del Reich tedesco, Theobald von Bethmann Hollweg, aveva un analogo presentimento di catastrofe: «Vedo un destino di morte incombere sull’Europa e sul nostro popolo, che nessun potere umano è in grado di fermare», esclamò sul finire del luglio 1914, quando la prospettiva della guerra diventava sempre più concreta. Tre anni prima, in un discorso pronunciato al Reichstag, il parlamento tedesco, il socialista tedesco August Bebel aveva affermato, suscitando veementi critiche e obiezioni, che il pericolo di una guerra europea stava crescendo, e che un conflitto del genere avrebbe avuto effetti catastrofici per l’intero continente. «La Götterdämmerung del mondo borghese si sta avvicinando», dichiarò. Contrariamente alla previsione di Bebel, la guerra non provocò il tracollo del capitalismo e il trionfo del socialismo. Ma fu lungimirante nel pronosticare che avrebbe inaugurato una nuova epoca. George Kennan, il diplomatico americano, in seguito descrisse la guerra come «la grande catastrofe originaria». Aveva ragione. Fu innegabilmente una catastrofe. E inaugurò un’epoca – la «guerra dei Trent’Anni» del Novecento – in cui il continente europeo arrivò molto vicino ad autodistruggersi.

Un’età dell’oro?

Dopo la prima guerra mondiale l’immagine di una scintillante epoca di stabilità, prosperità e pace tragicamente inabissatasi negli orrori del conflitto rimase tenacemente nella memoria, specialmente delle classi privilegiate. L’«Età dorata»: così gli americani chiamarono gli anni che l’avevano preceduta. Ma l’espressione coglie bene anche la maniera in cui gli europei cominciarono a guardare a quell’epoca. La borghesia parigina ricordava la belle époque come il tempo in cui la cultura francese era oggetto dell’invidia di tutto il mondo, quando Parigi sembrava il centro della civiltà. I ceti possidenti di Berlino guardavano all’«epoca guglielmina» come a un periodo di ricchezza, sicurezza e grandezza: uno status appropriato alla Germania che aveva recentemente raggiunto la sua unità nazionale. Anche Vienna sembrava su una vetta per quanto riguardava la gloria della sua cultura, lo splendore intellettuale e la sua storica grandezza di potenza imperiale. Monaco, Praga, Budapest, San Pietroburgo, Mosca e altre città ancora da un capo all’altro del continente partecipavano di una generale fioritura culturale. Nuove, spregiudicate, provocatorie forme di espressione artistica abbracciavano praticamente tutte le sfere dell’arte, della letteratura, della musica e del teatro in un’esplosione di ardita creatività.
A Londra l’economia contava più della cultura. Nella capitale di un impero globale la generazione post-Grande Guerra si struggeva per la tramontata «età dell’oro» della crescita economica ininterrotta, del fiorire dei commerci e della stabilità valutaria. Nelle parole famose scritte dopo il conflitto dal grande economista britannico John Maynard Keynes, «L’abitante di Londra poteva ordinare per telefono, sorseggiando a letto il tè mattutino, i vari prodotti di tutto il globo terraqueo, nella quantità che riteneva opportuna, e contare ragionevolmente sul loro sollecito recapito a casa sua». Naturalmente la prospettiva di Keynes è quella, altamente privilegiata, di un uomo della classe medio-superiore che dispone di ricchezza e prestigio, e vive nella città che è il centro del commercio mondiale. Ben pochi negli shtetlekh dell’Europa orientale, nelle campagne impoverite dell’Italia meridionale, della Spagna, della Grecia o della Serbia, o tra le masse urbane ammucchiate negli slum di Berlino, Vienna, Parigi, San Pietroburgo, o della stessa Londra, avrebbero riconosciuto in un ritratto così idilliaco qualcosa di familiare. E tuttavia l’immagine di un’«età dell’oro» non era soltanto creazione del dopoguerra.
Malgrado le divisioni interne e le rivalità nazionalistiche dell’Europa, tutti i paesi del continente erano accomunati dal libero movimento delle merci e dei capitali, nel quadro di un’economia capitalistica globale le cui componenti erano strettamente collegate. La stabilità, che era la precondizione della crescita economica, poggiava sul riconoscimento del gold standard come una sorta di moneta mondiale, che affondava le radici nella posizione dominante della City londinese. In questa situazione, la chiave della stabilità dell’economia mondiale era nelle mani della Banca d’Inghilterra. Le entrate invisibili – spedizioni marittime, assicurazioni, interessi, esportazioni – pareggiavano, e anzi superavano il deficit risultante dal fatto che la Gran Bretagna importava più di quanto esportava. Negli anni 1897-98 c’era stato un grande aumento dell’offerta di oro, specialmente da parte del Sudafrica. Ma la Banca d’Inghilterra evitò sia di accumulare riserve auree troppo ingenti (una cosa che avrebbe danneggiato gli altri paesi) sia di ridurle. Le economie degli Stati Uniti e della Germania erano più dinamiche di quella britannica, e crescevano più velocemente. A questo punto, sembrava probabile che il futuro avrebbe visto l’instaurazione di un dominio americano sull’economia mondiale. Ma la Gran Bretagna continuava a detenere la quota più cospicua (benché in diminuzione) del commercio mondiale, ed era nettamente il maggior esportatore di capitale d’investimento. Non c’è dubbio che la rivalità tra le grandi potenze per lo sfruttamento economico del globo sottoponesse a una tensione crescente la stabilità dell’economia capitalistica internazionale. Ma fino al 1914 il sistema, che nel corso dei precedenti decenni era stato fonte di così grandi vantaggi per l’Europa, e specialmente per le parti industrializzate del continente, rimase indenne. La fiducia nel perdurare della stabilità, della prosperità e della crescita era generale.
Quando nel 1900 fu inaugurata a Parigi l’Esposizione Universale, l’idea era di farne la vetrina di una civiltà in piena fioritura il cui centro era l’Europa, un altisonante peana in lode del progresso. Un’epoca di nuove tecnologie si squadernava sotto gli occhi dei visitatori. Enormi macchine li impressionavano con la loro potenza e velocità. Lo splendore del Palazzo dell’Elettricità, illuminato da 5000 lampadine, era letteralmente abbagliante. Ventiquattro nazioni europee, cui si aggiungevano paesi africani, asiatici e latinoamericani e gli Stati Uniti, avevano allestito elaboratissimi padiglioni, che nel corso dei sei mesi successivi sarebbero stati visitati da non meno di 50 milioni di persone, molte in uno stato di esterrefatta ammirazione. L’Europa orientale, soprattutto la Russia con i suoi nove padiglioni, era presente in forze. E ben in vista era la «missione civilizzatrice» dell’Europa. Con l’imperialismo al suo apogeo, le rappresentazioni sontuosamente esotiche di remoti possedimenti coloniali comunicavano l’irresistibile impressione di un’Europa dominatrice del mondo. Il commercio, la prosperità e la pace sembravano garantire l’illimitata continuazione di questo dominio. Il futuro si presentava con colori brillanti.
L’ottimismo appariva giustificato. A paragone con ciò che l’aveva preceduto, per tacere di ciò che l’avrebbe seguito, l’Ottocento era stato un secolo di pace. In Europa l’ultima guerra generale, di portata continentale, era stata quella conclusasi nel 1815 con la fine dell’epoca napoleonica. La guerra nell’appartata Crimea tra il 1853 e il 1856, come pure i brevi conflitti culminati nell’unificazione dell’Italia e della Germania rispettivamente nel 1861 e nel 1871 non avevano minacciato la pace complessiva del continente. Dieci anni dopo la grande Esposizione parigina uno scrittore britannico, Norman Angell, pubblicò un bestseller internazionale intitolato The Great Illusion, in cui si spinse addirittura ad affermare che la ricchezza moderna, frutto dei commerci e di un’economia globale interdipendente, faceva della guerra uno strumento inutile. Molti, non solo in Gran Bretagna, erano d’accordo.
Era difficile immaginare che la prosperità, la pace e la stabilità non sarebbero continuate indefinitamente, che potessero essere spazzate via così presto e così rapidamente.
Ma l’Europa aveva anche un’altra faccia, molto meno attraente. Il tessuto sociale stava mutando velocemente, benché in modo tutt’altro che uniforme, da un capo all’altro del continente. Regioni d’industrializzazione intensa e accelerata coesistevano con vaste aree che erano tuttora primariamente, spesso quasi primordialmente agricole. Nel 1913 circa i quattro quinti della popolazione lavoratrice serba, bulgara e romena continuavano a ricavare i loro mezzi di sussistenza dalla terra. Nell’insieme dell’Europa questa quota superava i due quinti. Soltanto la Gran Bretagna faceva registrare un livello di poco superiore a un decimo. E nel 1913 soltanto in Gran Bretagna, Belgio e, cosa più sorprendente, in Svizzera (ma non ancora in Germania) la quota della popolazione lavoratrice occupata nell’industria superava i due quinti. La maggior parte degli europei continuava a vivere nei villaggi e nei piccoli centri. Il tenore di vita migliorava costantemente, sebbene rimanesse miserabile per la maggioranza degli europei: sia per le masse brulicanti che cercavano lavoro nei malsani ambienti di città come Berlino, Vienna o San Pietroburgo, sia per coloro che continuavano a sbarcare precariamente il lunario lavorando nelle campagne. Molti invece andavano via. La povertà e la mancanza di opportunità spinsero molta gente ad abbandonare il proprio paese. Lungi dall’apprezzare i benefici della prosperità e della civiltà, milioni di europei pensavano soltanto a scappare. L’emigrazione verso gli Stati Uniti raggiunse il culmine nel 1907, quando furono più di un milione gli europei che attraversarono l’Atlantico. La grande impennata in questo principio di secolo (una triplicazione rispetto al decennio precedente) riguardò coloro che fuggivano dall’Austria-Ungheria, dalla Russia e, più che da qualunque altra area, dal poverissimo Mezzogiorno d’Italia.
La rapidità del cambiamento sociale creò nuove pressioni politiche, che cominciarono a minacciare l’ordine politico costituito. Negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale in Europa il potere politico rimaneva nelle mani di pochi. Nella maggior parte dei paesi erano ancora le élites terriere e le vecchie famiglie aristocratiche, talvolta alleate per via di matrimonio con le nuove dinastie che traevano la loro enorme ricchezza dall’industria e dal capitale finanziario, a comporre la classe di governo e gli alti gradi della gerarchia militare. Va inoltre ricordato (e non è la cosa meno importante) che l’Europa era ancora un continente di monarchie ereditarie. Soltanto la Svizzera (la cui veneranda confederazione aveva adottato una moderna costituzione federale repubblicana nel 1848), la Francia (dal 1870) e il Portogallo (dal 1910) erano delle repubbliche. Nell’Austria-Ungheria il Kaiser Francesco Giuseppe, sul trono dal 1848, capo dell’immenso impero multinazionale degli Asburgo, che contava più di 50 milioni di sudditi, sembrava simboleggiare la capacità di durare dell’istituto monarchico.
Ciò non toglie che una forma di governo costituzionale, il pluralismo dei partiti politici (poggiante peraltro su un suffragio estremamente ristretto) e un sistema giuridico esistessero praticamente ovunque. Persino l’autocrazia russa dovette fare concessioni in seguito al tentativo rivoluzionario del 1905, quando lo zar Nicola II fu costretto a riconoscere alla Duma (il parlamento russo) prerogative destinate a rivelarsi quanto mai precarie. Ma ampie sezioni della popolazione, anche in Gran Bretagna (considerata la patria della democrazia parlamentare), erano tuttora prive di qualunque rappresentanza politica. È vero che in alcuni paesi esisteva da tempo il suffragio universale maschile. In Germania, ad esempio, la costituzione del Reich (1871) accordò a tutti i maschi sopra i venticinque anni di età il diritto di votare per eleggere il Reichstag (ma l’elezione del parlamento della Prussia, che costituiva i due terzi dell’intero territorio del Reich, rimase governata da un suffragio altamente restrittivo). In Italia il passaggio a un suffragio maschile (quasi) universale arrivò molto più tardi, nel 1912. Ma all’alba del Novecento le donne non erano ammesse a votare per eleggere il parlamento in nessun paese europeo. In numerosi paesi le campagne femministe contestarono questa discriminazione, ma prima della Grande Guerra ebbero scarso successo, salvo che in Finlandia (dove, malgrado facesse parte dell’impero russo, si dimostrò possibile introdurre un certo grado di democrazia sulla scia dell’abortita rivoluzione russa del 1905) e in Norvegia.
La novità fondamentale, cui le élites di tutti i paesi guardavano come a una minaccia mortale per il loro potere, era stata la nascita di un movimento della classe operaia organizzato in partiti e sindacati. La «Seconda Internazionale» dei partiti socialisti europei, fondata nel 1889, era stata concepita come un’organizzazione-ombrello cui affidare il compito di coordinare le piattaforme programmatiche dei singoli partiti nazionali. Questi partiti rimanevano perlopiù legati in una forma o nell’altra alla dottrina rivoluzionaria enunciata da Karl Marx e Friedrich Engels. Il loro attacco contro la congenita natura sfruttatoria del capitalismo, e il quadro delineato dalla loro propaganda di una nuova società basata sull’eguaglianza e sull’equa distribuzione della ricchezza, avevano un’ovvia e crescente attrattiva agli occhi di gran parte della povera e immiserita classe operaia industriale. I tentativi delle élites dominanti di mettere al bando o sopprimere i partiti operai e i sindacati in via d’espansione erano falliti. Adesso gli operai erano in grado di organizzare la difesa dei loro interessi meglio di quanto fosse mai stato possibile in passato. La rapida crescita dei sindacati era un effetto di questa situazione. Nel 1914 in Gran Bretagna i sindacati contavano oltre quattro milioni di iscritti, in Germania più di 2,5 milioni e in Francia circa un milione.
Nella maggior parte dei paesi europei all’inizio del nuovo secolo i partiti socialisti e altri movimenti di varia specie avevano ormai trovato una voce e conquistato un appoggio crescente. I socialisti francesi superarono le loro divisioni e nel 1905 si unirono dichiarando di essere «non un partito riformista, ma un partito impegnato nella lotta di classe e per la rivoluzione». Alla vigilia della prima guerra mondiale questo partito – la Section Française de l’Internationale Ouvrière (SFIO) – aveva ottenuto il 17 per cento del voto popolare e conquistato 103 seggi alla Camera dei deputati del parlamento francese. In Germania i tentativi di sopprimere la socialdemocrazia compiuti da Bismarck s’erano rivelati clamorosamente controproducenti. Dopo il 1890, sulla base di un programma marxista, il Partito socialdemocratico tedesco era diventato il più grande movimento socialista europeo, e alla vigilia della Grande Guerra contava più di un milione di iscritti. Nelle elezioni del 1912 per il Reichstag (il parlamento tedesco) i socialdemocratici ottennero più voti di qualunque altro partito e quasi un terzo dei seggi. Un brivido corse lungo la schiena delle classi dominanti tedesche.
Nelle parti economicamente più avanzate dell’Europa il socialismo organizzato, a dispetto della retorica impiegata, esercitò un effetto frenante sulla combattività operaia, persuadendola a imboccare non la via della rivoluzione, ma quella dell’azione parlamentare. In Francia Jean Jaurès conquistò un grande seguito invocando, contro la retorica del Partito socialista (cui apparteneva), non la rivoluzione ma una via parlamentare al socialismo. Il Partito socialdemocratico tedesco, pur rimanendo retoricamente legato alla dottrina marxista, si adoperava in pratica ad arrivare al potere mediante la scheda elettorale. In Gran Bretagna il Labour Party (la scelta del nome risale al 1906) s’era sviluppato a partire dai sindacati, e rifletteva le loro preoccupazioni pragmatiche per gli interessi dei lavoratori anziché un qualsivoglia utopismo rivoluzionario. Il messaggio marxista era largamente ignorato in favore del messaggio non-rivoluzionario secondo il quale non c’era bisogno di rovesciare il capitalismo, visto che era possibile riformarlo: un processo il cui beneficiario sarebbe stato la classe operaia. Il presupposto era che il potere dello Stato potesse essere trasformato per via pacifica in modo tale da finire col rappresentare gli interessi della classe operaia. In buona parte dell’Europa occidentale, settentrionale e centrale gli operai erano certamente poveri, ma la loro condizione era molto diversa dalla cruda miseria e dall’irreggimentazione di tipo militare dei tempi andati. Avevano da perdere qualcosa di più delle loro catene. E si schierarono in gran parte dietro i loro capi riformisti.
Nelle parti meno progredite del continente la situazione era diversa. Il braccio di ferro con il potere dello Stato era più duro. C’era poca o nessuna diffusione del potere mediante organizzazioni intermedie o strutture sociali capaci di coinvolgere i cittadini nell’opera dello Stato. Il potere era in gran parte dispotico e concentrato in alto, e il suo fondamento era la coercizione. Completavano il quadro una casta dominante inamovibile, una burocrazia corrotta e istituzioni rappresentative deboli o inesistenti. Le nozioni di un progresso della civiltà apparentemente illimitato, poggiante su un’autorità statale benigna e sul rispetto della legge, che in seguito sarebbero state parte integrante del senso di un’«età dell’oro» perduta tra le classi medie dell’Europa centrale, settentrionale e occidentale, apparivano una bizzarria dal punto d’osservazione della periferia meridionale e orientale del continente. Per esempio, nella Catalogna e nel Paese Basco dei primi anni del Novecento crebbero scioperi, sommosse e insurrezioni localizzate contro il potere dello Stato e il «dominio della borghesia». L’anarchismo, che comportava spesso sporadiche violenze antistatali, godeva di un vasto sostegno in Andalusia tra i braccianti senza terra. Nel Mezzogiorno d’Italia, dove la burocrazia corrotta era uno strumento nelle mani dei latifondisti, i tumulti rurali erano un fenomeno endemico. Nelle azioni delle bande di briganti che scorrazzavano nelle campagne si mescolavano criminalità e protesta popolare in difesa dei contadini e dei braccianti senza terra e contro il potere dello Stato e dei grandi proprietari terrieri. Nel 1905 l’allarme suscitato tra i leader europei da quella che ai loro occhi appariva la minaccia di una classe operaia rivoluzionaria si aggravò notevolmente a causa di una grossa ondata di scioperi e agitazioni industriali. In quell’anno in Russia, di fronte a una rivoluzione che arrivò molto vicino a rovesciare lo zar, la mano pesante della repressione statale si mutò in schietta violenza controrivoluzionaria quando a San Pietroburgo la truppa massacrò duecento operai, ferendone altre centinaia. La rivoluzione fu soffocata. Si fecero concessioni, più di facciata che di sostanza, nella sfera dell...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Ringraziamenti
  3. Introduzione L’Europa nell’era dell’autodistruzione
  4. 1. In bilico
  5. 2. Il grande disastro
  6. 3. Una pace turbolenta
  7. 4. Ballando sull’orlo di un vulcano
  8. 5. Le ombre si addensano
  9. 6. Zona di pericolo
  10. 7. Verso l’abisso
  11. 8. L’inferno in terra
  12. 9. Transizioni silenziose nei decenni bui
  13. 10. Fuori dalle ceneri
  14. Bibliografia
  15. Cartine e immagini
  16. Referenze iconografiche