Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori
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Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori

  1. 172 pagine
  2. Italian
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Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori

Informazioni su questo libro

Perché quelli che vogliono cambiare il mondo non aspettano. Lo fanno.Parafrasando un antico proverbio africano, il momento migliore per cambiare l'Italia era tanto tempo fa.Ma se non lo abbiamo ancora fatto, il momento migliore è adesso.La strada è una sola. Si chiama innovazione senza permesso.È in corso una rivoluzione che sta abbattendo antichi vizi nazionali, è la rivoluzione degli innovatori. Non la fanno riempiendo le piazze o dando l'assalto ai palazzi del potere. Ma cambiando le nostre vite: il modo in cui si fa scienza, si condivide la conoscenza, si fa impresa, si creano posti di lavoro, si producono beni, si amministra la cosa pubblica. Non sono casi isolati. È un movimento. Ci sono migliaia di startupper che il lavoro non lo cercano perché provano a crearselo inseguendo un'idea innovativa. E artigiani digitali che hanno aperto una fabbrica di oggetti sul proprio computer. E innovatori sociali che stanno modificando le istituzioni. Sta cambiando tutto perché abbiamo a disposizione la prima arma di costruzione di massa: Internet. Che non è una rete di computer, ma una rete di persone che provano a migliorare le cose senza aspettare niente e nessuno.Per questo Cambiamo tutto! è un libro sull'ottimismo. Sul perché dobbiamo essere ottimisti oggi in Italia. Il mondo attorno a noi può cambiare in meglio grazie a tre parole d'ordine: trasparenza, partecipazione, collaborazione. E alla voglia di ciascuno di noi di provarci.www.cambiamotutto.it

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Informazioni

1. Startupper

Di come si creano i posti di lavoro grazie al web e del perché dobbiamo diventare la startup di noi stessi
I want Europeans to see that creating your own job is sexy – and the Internet makes it possible
Neelie Kroes2
Dov’è finito il lavoro? C’è per caso un incantesimo malvagio che lo sta facendo sparire dalle nostre vite giorno dopo giorno? E, in quel caso, c’è una formula contraria che magicamente ce lo possa restituire? In un continente, l’Europa, dove i tassi di disoccupazione sono quasi ovunque a due cifre e quella giovanile in molti casi supera il 50 per cento, queste domande sono doverose. Sono drammi sociali. Uomini e donne che hanno perso la speranza non solo di un futuro migliore ma anche di un presente dignitoso. Perché la formula magica purtroppo non esiste. Epperò una strada possibile per ritrovare il lavoro perduto forse c’è. È una strada stretta, troppo stretta perché possano passarci tutti. Ma ogni volta che qualcuno la imbocca con successo e arriva dall’altra parte, là, nella nuova frontiera dei nostri tempi digitali, costruisce un ponte sul quale possono passare gli altri, quelli che sono rimasti indietro: far questo richiede coraggio, spirito di iniziativa, testardaggine e, soprattutto, una buona idea da realizzare.
Questa strada si chiama startup.
Sebbene in Silicon Valley sia una espressione diffusa almeno dal boom di aziende digitali degli anni ’90 – quello della famosa new economy –, fino allo scorso anno la parola startup non era mai finita in prima pagina su un giornale italiano e i politici generalmente si permettevano di snobbarne il significato. Ma intanto, in questo silenzio distratto e un po’ ignorante, un movimento di giovani startupper stava crescendo, si moltiplicavano gli eventi per presentare progetti e scambiarsi idee e quasi ogni settimana si scoprivano nuove storie di successo, molto spesso all’estero ma non solo: storie di startupper che ce l’avevano fatta, a trovare un finanziamento, a sbancare il mercato di riferimento oppure a vendere tutto portando a casa tanti soldi per ripartire subito con una nuova impresa. Diventare ricchi e godersi la vita, infatti, non è quasi mai il loro principale obiettivo: piuttosto, inventarsi qualcosa di nuovo e vedere l’effetto che fa sono cose che devono dar loro sensazioni molto più emozionanti. Una soprattutto: la sensazione di essere vivi. Per questo li chiamano “startupper seriali”, perché non ne fanno quasi mai una sola di startup: dopo la prima, di solito ci prendono gusto e la voglia aumenta. Anche se è andata male (e spesso la prima volta va a finire male), la voglia aumenta. Un po’ è testardaggine. Un po’ è che sono sicuri di avere imparato la lezione, adesso sì che hanno capito gli errori da non fare.
Ma un po’ è che non saprebbero vivere diversamente: inseguendo il loro ultimo sogno.
Attorno a questo movimento in Italia è nato spontaneamente e in maniera un po’ disordinata un ecosistema fatto di laboratori di ricerca, acceleratori, incubatori, investitori fino al punto che è stato impossibile continuare a ignorare la nostra “foresta pluviale dell’innovazione”, per usare la felice definizione di Greg Horowitt, uno che la Silicon Valley ha contribuito a costruirla. Nell’autunno del 2012 il governo ha così dedicato al tema nientemeno che una parte consistente di un decreto il cui messaggio politico, al di là delle troppe incertezze e delle cautele normative, è stato inequivocabile: agli startupper d’ora in poi vengono affidate molte delle nostre speranze di far ripartire al più presto la crescita economica. Almeno sulla carta: che poi i politici ne siano profondamente convinti, è un altro discorso.
Improvvisamente le startup sono diventate di moda. Eppure non si tratta affatto di una novità assoluta. Con questa espressione si intendono le nuove imprese che hanno una forte componente di innovazione e la possibilità teorica di scalare in fretta. Diventare grandi. Creare valore e quindi posti di lavoro. Partendo da zero. Pensate a Hewlett-Packard o alla Apple: ecco, una cosa così. Dal garage al mondo, il tipico sogno americano. Ma anche in Italia qualche volta è successo: Nerio Alessandri fondò Technogym nel garage di famiglia a Cesena; trent’anni dopo i suoi attrezzi sportivi sono distribui­ti in cinque continenti, l’azienda ha duemila dipendenti in tredici filiali e il wellness è una nuova religione globale professata persino da Bill Clinton e Michelle Obama. (Questa: dobbiamo stare in buona salute se vogliamo vivere felici e contribuire a salvare i conti pubblici perché ammalarsi costa alla collettività. Chiusa parentesi.)
La mitologia del garage si presta naturalmente a qualche fraintendimento. Qualche anno fa una delegazione di politici italiani andò in visita in Silicon Valley e al ritorno il leader rivelò soddisfatto di aver capito quello che ci mancava per diventare come loro: «Dobbiamo aprire più garage!». Che poi, forse, non era nemmeno una vera gaffe, se per garage si intendono spazi sociali dove i giovani possano provare a inventare cose nuove.
Un altro fraintendimento riguarda il concetto stesso di startup. In linea teorica le nuove imprese sono sempre esistite, ne nascono ogni giorno ovunque, ma non sono tutte start­up, anzi. Per la verità quasi nessuna lo è. Aprire una pizzeria non vuol dire fare una startup (a meno che non ci sia dietro qualche innovazione tale da farla diventare una catena globale di pizzerie). E nemmeno aprire una società a responsabilità limitata con un amico per fare dei lavoretti. Una startup non è una partita iva.
Una startup è quel modo di guardare al mondo che ha chi lo vuole conquistare con un’idea, in qualche caso per farne un posto migliore.
Concretamente, però, possiamo fissare quattro elementi essenziali: una startup è un progetto innovativo, lo abbiamo già detto; è sempre rischioso nel senso che può andar male con percentuali obiettivamente scoraggianti, nove su dieci falliscono; ma più di ogni altra cosa una startup è un sogno personale che prova a rispondere ad un bisogno collettivo (a volte molto serio, più spesso meramente ludico); e che se funziona, se trova un mercato, può diventare un’azienda. Creare il lavoro perduto.
Il terzo fraintendimento riguarda i tempi: le startup hanno fretta, per la loro stessa natura non possono aspettare perché le idee innovative sono nell’aria, nessuno può dire di averne l’esclusiva. Vince chi arriva prima a realizzarle. La storia dell’innovazione è piena di invenzioni e scoperte fatte contemporaneamente in posti diversi da persone diverse: dalla lampadina al telefono. Vince chi arriva prima: l’innovazione, spesso, è una gara di atletica, non una caccia al tesoro senza la mappa. Solo che le distanze di questa gara diventano ogni giorno più brevi e richiedono più velocità. Infatti, nell’era di Internet – che abilita uno scambio globale e incessante di conoscenza –, le possibilità di scoprire qualcosa simultaneamente aumentano all’infinito: quando Mark Zuckerberg ha lanciato Facebook, nel febbraio 2004, solo negli Stati Uniti c’erano un’altra dozzina di social network per studenti. E ce n’era stato persino uno che si chiamava proprio Facebook, che aveva aperto e chiuso un paio di anni prima: probabilmente era arrivato troppo presto e non era fatto abbastanza bene. La regola aurea del successo, infatti, è che una startup vince soltanto se arriva al momento giusto con il prodotto migliore. Per questo è essenziale non perdere tempo.
Il contrario di quello che ha fatto nel 2009 il ministero dello Sviluppo Economico con un antesignano bando per finanziare, incredibile a dirsi, delle aziende chiamate start-up (col trattino). La vicenda è emblematica dello stato dell’innovazione nel nostro paese e vale la pena di ripercorrerla brevemente. Dunque, il 7 luglio del 2009 il ministero di via Molise a Roma approva un decreto per sostenere progetti di imprese di alta e medio-alta tecnologia: sul tavolo mette una somma effettivamente straordinaria, 55 milioni di euro. Le domande andavano presentate entro il 21 gennaio 2010: arrivano 406 richieste. Per esaminarle ci mettono un sacco di tempo. Il 19 aprile 2011, quindici mesi dopo, viene pubblicata la graduatoria dei vincitori: una sessantina. Alla fine del 2012, dunque quasi quattro anni dopo la partenza dell’iter, i fondi ai vincitori non erano ancora stati erogati. Fermi per qualche cavillo burocratico.
Forse nel frattempo saranno stati sbloccati, tutto è possibile, ma il punto è un altro. Dopo quattro anni un’idea innovativa o l’hai realizzata per conto tuo oppure è diventata irrimediabilmente vecchia. Per questo il vero innovatore non aspetta mai la burocrazia: se lo facesse sarebbe spacciato.
Tutti i grandi gruppi industriali sono stati “startup” ma per partire hanno avuto bisogno di forti investimenti in ricerca (brevetti) e tanti soldi per costruire la “fabbrica”. Pensate al settore dell’auto, allo spazio, o adesso alle biotecnologie: se hai una idea per realizzare un’impresa in quei campi non si parte da zero e gratis. La barriera d’ingresso è sempre molto selettiva. E questo presupposto esclude la maggioranza delle persone. Insomma, creare una fabbrica non è una cosa che riguardi tutti: l’asticella è obiettivamente troppo alta. Con Internet la storia è cambiata. Fare una startup digitale è, almeno a parole, alla portata di tutti. E questo per due semplicissime ragioni. La prima è che il linguaggio della rete, il cosiddetto codice di programmazione con cui realizzare, per esempio, un sito web, dà la sensazione inebriante di essere malleabile come la creta: ci puoi fare quello che vuoi. Ti basta il tuo personal computer dove scrivere le righe di codice e “modellare” il prodotto. Non servono capitali né costose materie prime se non quella che forse è la più importante di questi tempi: la conoscenza. E quindi bastano ore e ore di lavoro spesso notturno davanti a uno schermo e puoi sognare di cambiare la tua vita e quella degli altri con un sito geniale. Facebook, prima di diventare un caso di successo e raccogliere milioni di dollari dagli investitori di Silicon Valley, è partito in una cameretta universitaria finanziato dai mille dollari dei risparmi personali di Mark Zuckerberg. Poteva farlo chiunque.
La seconda ragione del cambiamento di prospettiva è collegata alla prima. Con Internet il mercato potenziale di una idea non è più solo chi sta attorno a te o il tuo paese, ma è il mondo intero che sta in rete: poco più di due miliardi di persone che crescono ogni giorno. Virtualmente sono tutti a portata di clic: se azzecchi il prodotto o il servizio, è fatta. Quando incontri uno startupper quasi sempre ti dirà che la sua piattaforma non si accontenta di conquistare gli italiani ma punta al pianeta o quasi. Può sembrare megalomania e invece se ci pensate bene è realismo. Con Internet il costo per raggiungere un potenziale cliente sotto casa è praticamente lo stesso che occorre se il cliente sta in Australia.
È l’altro lato della globalizzazione, quello dove può emergere il nostro vantaggio competitivo: non sono più solo i mercati emergenti che ci vengono a far concorrenza puntando su manodopera a bassissimo costo; siamo noi che cerchiamo di farci largo in mercati lontani spinti dalle ali del web e forti del nostro talento.
Con la nascita delle applicazioni per telefonino questo fenomeno è diventato ancora più radicale perché per fare una app di successo non ci sono più limiti: esistono piattaforme che consentono a chiunque di trasformare un’idea in un’applicazione con pochi clic, senza nemmeno conoscere alcun linguaggio di programmazione. A quel punto metti la tua app su un negozio online e se accade che qualche milione di persone la scaricano e la utilizzano, beh, magari a quel punto sei ricco. Non è una favola. È successo, succede ogni giorno. Gli italiani sono bravissimi in questo nuovo gioco. Steve Jobs, in uno dei suoi ultimi discorsi, in occasione del lancio dell’iPad2 nel marzo del 2011, presentò al mondo le meraviglie della app Virtual History Rome che era stata sviluppata dal team di Applix in un ufficio a Gorgonzola, vicino Milano; e il suo successore Tim Cook ha fatto lo stesso nel giugno 2012 con Gps Ariadne, «la app che fa vedere i ciechi», sviluppata dal giovane ingegnere Luca Ciaffoni in un istituto per non vedenti di Bologna.
In questo discorso c’è naturalmente molta mitologia e qualche esagerazione ma quel che resta, al netto di tutto, è un messaggio fortissimo in tempi così cupi: fare una startup di successo non è affatto facile, e chi dice il contrario sta spacciando pericolose illusioni; ma per la prima volta nella storia dell’uomo imporsi con una impresa innovativa è davvero possibile. Per tutti. E quindi: provateci! Nessuno lo ha detto meglio del rettore di Harvard nel film da Oscar The Social Network. La scena chiave è quando i gemelli Winklevoss entrano nel suo ufficio per protestare perché Zuckerberg gli ha soffiato l’idea di Facebook e il professor Larry Summers, che molti ricordano perché era stato il ministro del Tesoro con il presidente Bill Clinton dal 1999 al 2001, invita brutalmente i due a trovarsi un’altra idea innovativa da realizzare. Li congeda così, il rettore: «I nostri studenti non vengono da noi per cercare un lavoro ma per crearsi un lavoro».
La svolta culturale che stiamo vivendo in fondo è tutta qui: il lavoro dobbiamo crearcelo. Prima ce ne accorgiamo e prima ci salviamo.
Smetterla di cercare un lavoro, che tanto purtroppo spesso non c’è più, e provare a crearsi un lavoro: è questa la nuova terra promessa che si intravede dopo l’improvvisa fine del posto fisso e il precariato dilagante. Epperò la disperazione per la crisi in corso alimenta speranze a volte esagerate e rischia di trasformare un traguardo da conquistare in un miraggio doloroso. Perché è evidente che un approccio del genere non è per tutti e onestamente solo pochi ci riusciranno fra i tanti che ci proveranno. Ma resta il fatto che quei pochi non sono mai stati così tanti e sono soltanto loro quelli che creeranno le aziende che daranno occupazione a tutti gli altri. Soltanto loro. O qualcuno pensa davvero che negli anni a venire la Fiat, l’Alitalia, la Telecom o i ministeri faranno assunzioni a raffica?
Questa storia del lavoro creato dalle startup non è più una promessa: è una statistica supportata da decine di esempi. Il più eclatante forse è Google: partito come un progetto di ricerca di due studenti di Stanford, Larry Page e Sergey Brin, oggi, dopo quindici anni, impiega oltre trentaseimila persone. È un colosso che ha assunto una media di quattro persone al giorno. Si tratta di una media strabiliante: quattro persone al giorno tutti i giorni per più di cinquemila giorni passando per la fine della new economy, la lunga depressione digitale, il crollo di Wall Street e la recessione globale. Giorni difficili, di crisi che morde, di licenziamenti in massa, e loro assumevano. Sempre. Ogni giorno. Non c’è nessuna altra grande azienda nel mondo che in questi anni abbia fatto altrettanto. Ma ce ne sono tante altre, piccole, che sono andate nella stessa direzione. E sono tutte startup.
Nel 2010 la fondazione Kauffman, uno degli attori più rilevanti dell’ecosistema globale dell’innovazione, ha pubblicato una accuratissima ricerca intitolata: The Importance of Startups in Jobs Creation and Jobs Destruction. Lo studio, circoscritto alla realtà americana e interamente basato su dati del Servizio demografico degli Stati Uniti, rivelava una serie di verità sorprendenti. La prima: dal 1977 al 2005, le aziende esistenti sono state “net job destroyers”, perdendo un milione di posti di lavoro complessivi all’anno; nello stesso periodo le nuove aziende hanno invece aggiunto tre milioni di posti di lavoro. Il saldo positivo in termini di occupazione è quindi tutto da ascrivere alle startup.
La seconda verità è ancora più interessante: durante i periodi recessivi la capacità di creazione di posti di lavoro delle startup rimane costante, mentre le aziende esistenti sono molto sensibili ai cicli economici e quindi risentono maggiormente delle crisi. Tradotto: se c’è crisi, i grandi licenziano, mentre i nuovi investono. La terza verità è il colpo del KO: il postulato secondo il quale, con il passare del tempo, le aziende si ingrandiscono inevitabilmente non funziona più, visto che le aziende americane con meno di un anno di vita creano un milione di posti di lavoro, mentre quelle con più di dieci anni si fermano a 300mila.
La ricerca della Kauffman ebbe il grande merito di aprire gli occhi ai politici americani: qualche mese dopo la pubblicazione dei dati, il presidente Barack Obama varò il progetto “Startup America” per incoraggiare la nascita di nuove imprese. Nel frattempo un report degli analisti della società di consulenza strategica McKinsey, commissionato per misurare il peso del fattore Internet nella economia dei paesi del G8 più Cina e India, dimostrava – al di là di ogni ragionevole dubbio – che Internet è stato ovunque il più grande creatore di posti di lavoro degli ultimi quindici anni. Ovunque. Anche in Italia, che pure come abbiamo visto è in fondo alle classifiche di diffusione della banda larga e di utilizzo della rete: persino qui, insomma – a fronte di 380mila posti perduti per effetto della digitalizzazione dei processi e dei mercati –, ne sono stati creati 700mila. Posti di lavoro sani: non alluminio sovvenzionato, non carbone fuori mercato, non acciaio che intanto avvelena il territorio circostante. Posti di lavoro veri. Destinati a durare perché basati sull’unica cosa che conti in questo campo: l’innovazione.
A volte le cose restano immobili per anni, poi improvvisamente cambiano. Nella primavera del 2012 per la prima volta si è registrato un sorpasso storico: la Camera di commercio di Monza e Brianza ha calcolato che il numero di ventenni che hanno aperto una impresa (19mila) è stato maggiore di quelli che hanno trovato un posto di lavoro a tempo indeterminato (18mila). Inoltre i primi hanno assunto seimila persone. Non era mai successo. È la profezia della Kauffman che si fa realtà in Italia. L’esempio più eclatante è Groupon, il gigante dei coupon scontati lanciato nel novembre 2008 a Chicago da Andrew Mason. Alla fine del 2010 Giulio Limongelli, 30 anni e un curriculum lungo un metro, ha aperto la sede italiana a Milano: da allora, nei primi quindici mesi ha assunto 450 persone. Di media una al giorno. Quanti altri hanno fatto lo stesso in Italia?
I numeri servono a dare conto della vastità del fenomeno, ma non raccontano davvero il contenuto e gli obiettivi di questa rivoluzione in corso. Che è una rivoluzione di comportamenti, di linguaggio e – come abbiamo già detto – di valori. Proviamo a guardarli per un istante più da vicino gli startupper italici perché probabilmente non li abbiamo incontrati mai. Mentre i giornali raccontavano una generazione di giovani che rifiuta contemporaneamente il lavoro e lo studio perché scoraggiata dal futuro, in ogni angolo d’Italia migliaia di ragazzi inseguivano i loro s...

Indice dei contenuti

  1. Prologo. Del perché Internet cambia tutto e ci fa aprire l’ombrello invece di farci dire «piove, governo ladro»
  2. 1. Startupper
  3. 2. Maker
  4. 3. Dreamer
  5. 4. Civic hacker
  6. 5. Biopunk
  7. 6. iSchool
  8. Epilogo
  9. Note, link, download
  10. Davvero mille grazie
  11. La colonna sonora e una promessa
  12. Un paio di notizie su di me