E allora le foibe?
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E allora le foibe?

Eric Gobetti

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E allora le foibe?

Eric Gobetti

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«E allora le foibe?» è diventato il refrain tipico di chi sostiene il risorgente nazionalismo italico e vuole zittire l'avversario. Mi di cosa parliamo quando parliamo di foibe? Cosa è successo realmente?

«Decine di migliaia», poi «centinaia di migliaia», fino a «oltre un milione»: a leggere gli articoli dei giornali e a sentire le dichiarazioni dei politici sul numero delle vittime delle foibe, è difficile comprendere le reali dimensioni del fenomeno. Anzi, negli anni, tutta la vicenda dell'esodo italiano dall'Istria e dalla Dalmazia è diventata oggetto di polemiche sempre più forti e violente. Questo libro è rivolto a chi non sa niente della storia delle foibe e dell'esodo o a chi pensa di sapere già tutto, pur non avendo mai avuto l'opportunità di studiare realmente questo tema. Questo "Fact Checking" non propone un'altra verità storica precostituita, non vuole negare o sminuire una tragedia. Vuole riportare la vicenda storica al suo dato di realtà, prova a fissare la dinamica degli eventi e le sue conseguenze. Con l'intento di evidenziare errori, mistificazioni e imbrogli retorici che rischiano di costituire una 'versione ufficiale' molto lontana dalla realtà dei fatti. È un invito al dubbio, al confronto con le fonti, nella speranza che questo serva a comprendere quanto è accaduto in anni terribili.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858141977
Argomento
Economia

1.
Italiani

Questo libro parla di morte e di violenza, di sofferenza e di esilio. Ben pochi di noi, oggi, hanno vissuto direttamente esperienze del genere. La nostra percezione della morte, del dolore, dell’uccisione per ragioni politiche o razziali non può essere paragonata a quella della seconda guerra mondiale, non solo per la distanza temporale. Esiste uno scarto profondo tra ciò che oggi consideriamo come violenza lecita e ciò che lo era allora. Di questo dobbiamo tenere conto quando valutiamo storicamente questi fenomeni, anche se il giudizio morale può e deve operare su un diverso piano valoriale.
Le foibe, la repressione alla fine della guerra, l’esodo dalle regioni di confine sono fenomeni storici distinti, che per essere compresi devono essere visti nel quadro di morte e distruzione che ha segnato gran parte dell’Europa nella prima metà del Novecento. Ma vanno anche inquadrati nel loro specifico contesto geografico. Dove siamo quando parliamo di foibe ed esodo? Da dove vengono i protagonisti?
C’è una massima che mi ha sempre ispirato: per comprendere la storia è necessario conoscere la geografia. Se non capisci dove si svolge una data vicenda storica, chi sono le persone coinvolte, da che contesto provengono, come si riconoscono tra loro, come farai a comprenderla?
I territori di cui si parla in questo libro vengono comunemente chiamati, in Italia, “confine orientale”. Il che ovviamente presuppone un unico punto di vista (il nostro), poiché per sloveni e croati tale confine è occidentale. Per questa ragione gli storici preferiscono l’uso di un’espressione più neutra e meramente geografica: Alto Adriatico. Per comodità, e perché dopotutto scrivo per un pubblico di lettori italiani, io userò la definizione di “confine orientale” o semplicemente “confine”. Allo stesso modo userò quasi sempre la sola denominazione italiana per località che hanno almeno due, se non tre o quattro toponimi in lingue diverse.
Quando parlo di “confine” non intendo però una linea, o una barriera, ma un’ampia fascia di territorio che va pressappoco da Gorizia a Trieste, fino a Fiume e a Pola. Quest’area, che oggi è divisa fra tre Stati (Italia, Slovenia e Croazia), include regioni diverse da un punto di vista morfologico. Il terreno carsico caratterizza gran parte dell’area, ma ci sono anche zone boscose e umide (in alcune parti dell’Istria) e i primi rilievi alpini (in Slovenia). La regione è caratterizzata da cittadine a vocazione marinara, come Pola, Rovigno, Capodistria, e grandi empori commerciali, come Trieste e Fiume. Il cuore di quest’area è la penisola istriana con le sue peculiarità: agricola nell’interno, marittima sulla costa, boscosa e semidisabitata nel Nord. Si tratta dunque di regioni differenti che hanno però condiviso, nella prima metà del Novecento, un destino comune, a causa di un ripetuto e violento mutamento di confini statali. Qui si collocano i fenomeni comunemente chiamati “foibe” e “esodo”. Avvenimenti simili, anche se più limitati numericamente, accadono nella stessa epoca in Dalmazia, ovvero lungo la costa orientale dell’Adriatico, da Fiume a Cattaro.
Uno dei presupposti del discorso pubblico intorno alle foibe e all’esodo è l’affermazione che questi territori siano italiani “da sempre”. Essi, quindi, sarebbero stati sottratti alla madrepatria alla fine della seconda guerra mondiale in maniera ingiusta e punitiva. Il che viene simbolicamente ribadito dalla scelta di commemorare le vittime nella giornata del 10 febbraio, ovvero la data della sigla del trattato di pace che, nel 1947, sancì il passaggio della sovranità di gran parte di quest’area alla Jugoslavia. I profughi istriano-dalmati avrebbero, di conseguenza, effettuato un “plebiscito di italianità”, lasciando le proprie terre e trasferendosi nelle regioni che restavano all’Italia. Questa interpretazione, come molta della terminologia usata per parlarne, affonda le sue radici nel linguaggio nazionalista e poi fascista di un secolo fa: i “sacri confini della patria”; il “plebiscito” come strumento para-democratico per imporre un cambiamento di regime; la pretesa, tipica di tutti i nazionalismi, di essere gli unici e legittimi abitanti di un dato territorio.
I confini altoadriatici oggi
I confini altoadriatici oggi
Di solito, in linea con un modello propagandistico utilizzato durante il Ventennio fascista, l’appartenenza di questi territori all’Italia si fa risalire all’Impero romano e poi alla Repubblica di Venezia. Il perfetto sunto di tale origine sarebbe l’espressione “Venezia Giulia”, usata comunemente in Italia per identificare quest’area geografica. Anche questo è un termine di chiara matrice nazionalista. Si tratta infatti di una fortunata formula introdotta nel 1863 dal linguista Graziadio Isaia Ascoli per definire quei territori dei quali l’Italia neo-unitaria e liberale dell’epoca rivendicava il possesso.
Al di là dell’uso politico che se n’è fatto per più di 150 anni, non c’è dubbio che questa regione sia stata parte, per alcuni secoli, dell’Impero romano e che, in seguito, nell’età medioevale e moderna, abbia subìto una significativa influenza veneziana. Tuttavia identificare queste realtà statali come “italiane” è storicamente assurdo. Usando la stessa logica dovremmo pretendere la restituzione alla “madrepatria” di buona parte del bacino del Mediterraneo e dichiarare guerra a una quarantina di paesi sorti su territori storicamente sottoposti al dominio di Roma o di Venezia.
La Repubblica di Venezia (come peraltro l’Impero romano) era uno Stato multietnico e il suo dominio sull’Adriatico era culturale ed economico, certamente non nazionale. Inoltre, fin dalla prima età moderna molti di questi territori non erano soggetti a Venezia ma agli Asburgo. Gorizia, ad esempio, o Trieste e Fiume, entrambi porti fondati dalla corona austriaca e sviluppatisi in concorrenza con Venezia e non grazie ad essa. Infine, dopo il trattato di Campoformio (1797) e, con la breve parentesi napoleonica, fino alla prima guerra mondiale, tutta questa regione è stata governata dagli Asburgo, nel contesto di un impero multiculturale dove le appartenenze nazionali erano subordinate alla fedeltà alla corona.
In tutto questo periodo, dalla caduta dell’Impero romano fino alla fine della prima guerra mondiale, la regione di cui stiamo parlando è stata un’area di confine fra tre mondi culturali e linguistici: quello germanico, quello slavo e quello latino. Queste appartenenze (divenute “nazionali” solo in tempi molto recenti) sono state fonte di tensioni e conflitti, ma hanno rappresentato anche la ricchezza culturale ed economica di questa regione. La specificità di questa zona di confine ha prodotto anche un orgoglioso sentimento di appartenenza multiculturale e localista. Il dato più caratterizzante di Trieste, per esempio, non è mai stato il suo essere “italianissima” (a dispetto della propaganda nazionalista dell’inizio del XX secolo), ma al contrario la sua identità meticcia. Su tutti andrebbe ricordato il grande scrittore triestino Italo Svevo, che aveva scelto tale pseudonimo proprio per evidenziare la sua appartenenza mista italiana e tedesca. Un discorso analogo si può fare su Fiume, che era il porto della parte ungherese dell’Impero asburgico. Qui, oltre a italiani, slavi, tedeschi (ma anche ebrei, armeni, greci...), era presente una consistente popolazione di lingua e cultura magiara. Pure in Istria l’appartenenza all’italianità è sempre stata sfumata, subordinata a una forte identificazione col territorio e con le sue peculiarità storiche. Tuttavia in gran parte di queste terre, fino alla seconda guerra mondiale, la lingua d’uso principale era l’italiano. Spesso – di conseguenza – si sostiene che se le persone parlavano italiano anche quando erano soggette all’Austria, ciò significa che erano italiane.
Il dominio di Venezia sull’Adriatico nel corso dell’età moderna ha sicuramente contribuito alla diffusione in una vasta area della lingua italiana. Veneziana, in verità, tanto che la lingua parlata dagli italiani dell’Istria viene giustamente considerata dai linguisti una variante del veneto (istro-veneto). In ogni caso la nazionalità viene assimilata alla lingua d’uso familiare solo a partire dalla diffusione dell’idea di nazione, nel corso dell’Ottocento. Per molti secoli la lingua ha avuto una funzione sociale, culturale, economica. In Istria, ad esempio, l’italiano era la lingua del ceto colto, del commercio e delle città, mentre il tedesco (con l’arrivo dell’Impero asburgico) era la lingua dell’amministrazione e della burocrazia. Si imparava l’italiano andando a vivere in città; parlare italiano era uno status symbol, equivaleva ad una crescita sociale e culturale. Anche per questa ragione nei censimenti austriaci la presenza italiana risultava maggioritaria nelle città e sulla costa, mentre le campagne apparivano prevalentemente abitate da popolazioni slave.
Ma di cosa parliamo quando diciamo “italiani”, “tedeschi”, “slavi”? È necessario sgombrare il campo da un equivoco: gli italiani, così come li intendiamo oggi, non esistevano prima dell’invenzione dell’idea di nazione. Come per tutte le nazioni, si tratta di una “comunità immaginata”, come dicono gli studiosi, frutto di un’idea di organizzazione dello Stato storicamente determinata. Il nazionalismo è infatti un’ideologia politica, che ha origine tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento e che diventa predominante in Europa nella seconda metà del XIX secolo. Gli italiani quindi, in quanto popolo identificato con una data nazionalità, non esistono prima. In parte non esistono nemmeno dopo l’Unità, se pensiamo alla nota frase attribuita a Massimo d’Azeglio: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Lo stesso vale per le altre nazionalità presenti in questi territori, in particolare per quelle slave (slovena e croata) che si strutturano politicamente nel corso dell’Ottocento, sia in contrasto con vicini culturalmente più forti (italiani e tedeschi in particolare), sia in contrapposizione fra loro.
Le identità nazionali sono fenomeni complessi e mutevoli, che si basano su un insieme di elementi che includono la lingua, la cultura, la religione, una storia o un territorio comune. Possono però essere valutate diversamente, e così accade in quest’area di confine. I leader politici sloveni e croati adottano un modello di identificazione nazionale basato su un’appartenenza etnica. Il nazionalismo italiano ha invece caratteristiche più culturali: si diventa italiani mediante assimilazione culturale e linguistica, secondo il modello già proprio della Serenissima. Il che spiega perché la maggior parte dei cognomi italiani locali ha il suffisso in “ich”, italianizzazione dell’“ić” slavo: si tratta in sostanza di slavi “etnici” ma italiani per adesione culturale e nazionale. Un mio compagno di classe del liceo, italiano di origine istriana, fieramente antislavo per tradizione famigliare, porta addirittura un cognome che è l’italianizzazione del croato Hrvatin, che significa proprio “croato”!
Ma queste persone, in definitiva, sono italiane o slave? La loro identificazione nazionale cambia a seconda delle epoche, delle convenienze e del tipo di idea di nazione. Uno dei più noti eroi risorgimentali, il triestino Guglielmo Oberdan, impiccato a Trieste nel 1882 per aver attentato alla vita dell’imperatore Francesco Giuseppe, era figlio di una cuoca slovena. Si chiamava, alla nascita, Wilhelm Oberdank: nome tedesco, cognome sloveno, identità italiana.
Insomma, in tutta quest’area di confine hanno convissuto per secoli diverse appartenenze; di fatto hanno sempre dominato i grigi, più dei bianchi e dei neri. Un fenomeno che ha cominciato ad evolversi e poi a trasformarsi violentemente con l’avvento dei nazionalismi nell’Ottocento e i ripetuti mutamenti di confine nel Novecento. La svolta decisiva si verifica con il passaggio di questi territori all’Italia nel 1918. Per la prima volta uno Stato-Nazione (e di lì a poco anche fascista e totalitario) impone il suo controllo su quest’area. E lo fa con violenza, negando le differenze, imponendo un’unica appartenenza nazionale, obbligando l’intera popolazione a italianizzarsi.
In definitiva queste regioni non sono italiane da sempre. Sono state invece italianizzate a forza dallo Stato italiano e fascista. Ma prima di allora erano state, per molti secoli, multiculturali, multilinguistiche, multinazionali.

2.
Improvvisamente

Nella memoria personale di chi ha subìto le violenze al confine orientale o l’esodo c’è sempre un trauma: quello dell’abbandono della propria terra, o della perdita di un amico, un parente, una persona cara. In generale lo shock della fine del proprio mondo, della modifica di una situazione che si era percepita come stabile. Questo trauma di solito è rappresentato dall’8 settembre 1943 e da quello che accadde nelle settimane successive. L’improvvisa scomparsa dello Stato italiano e del sistema di potere precedente, la sensazione di impotenza rispetto a qualcosa di nuovo e spaventoso, estraneo e nemico: tutto ciò è terribile e resta per decenni nella mente di chi l’ha vissuto.
Questo meccanismo psicologico è comprensibile per la memoria individuale, ma non può essere accettato come chiave interpretativa di un fenomeno storico. È un punto di vista parziale, che coincide con quello delle vittime di questo specifico evento storico, ma che necessariamente ignora altri avvenimenti drammatici, altri traumi, altre vittime, altri fenomeni storicamente rilevanti.
Da una prospettiva storica la prima frattura, il passaggio più significativo da un’epoca a un’altra, è rappresentato dalla fine della prima guerra mondiale. A partire dal 1918 quest’area, che – come abbiamo visto – è un crocevia di popolazioni e culture, per la prima volta nella sua storia entra a far parte di uno Stato che si identifica rigidamente con una sola nazionalità. Si tratta di un fenomeno comune a gran parte dell’Europa centro-orientale, dopo la scomparsa degli imperi multinazionali che l’avevano caratterizzata per secoli. È un passaggio epocale, che comporta un totale rivolgimento delle condizioni di vita e dei rapporti fra gli individui, una ferita diffici...

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