III.
Un esercito per il Regno
1. Verso l’unificazione militare
L’evoluzione del quadro politico prefigurava il nuovo ordine che si sarebbe affermato nei territori della penisola italiana. Nell’autunno del 1859 il Regno di Sardegna si era assicurato i territori lombardi, emiliani e toscani, in attesa della sanzione definitiva attraverso i risultati delle votazioni nei plebisciti. Si era aperto un biennio che avrebbe portato all’unificazione di buona parte dei territori peninsulari. Con essa si sarebbe determinato anche il processo che dall’armata sarda avrebbe condotto alla costituzione di un esercito unitario, attraverso l’assorbimento dei reparti lombardi (autunno del 1859), l’istituzione di una forza armata dell’Italia centrale, a sua volta poi inserita negli organici piemontesi (estate 1859-primavera 1860) e, infine, lo scioglimento delle unità borboniche e garibaldine, a loro volta incorporate in parte nel nascente Regio esercito (autunno 1860-estate 1861). Di tutti, il contingente lombardo – con il quale furono istituite 6 nuove brigate di fanteria, 6 battaglioni bersaglieri, 3 reggimenti di cavalleria e 2 batterie di artiglieria – risultò il più efficiente, essendo composto da militari con un buon livello di preparazione e abituati alla disciplina. Dalla Toscana, al comando del generale Raffaele Cadorna, derivarono 4 brigate di fanteria e 2 battaglioni di bersaglieri. Fu poi tempo degli emiliani, un contingente molto più piccolo, composto perlopiù dalle milizie di Parma e da alcune unità minori dell’esercito pontificio passate dalla parte dei sardo-francesi. Meno lineare fu l’assoldamento dei tanti volontari – spesso già costituitisi in unità autonome – così come il trattamento dell’«esercito meridionale», ossia la forza di circa 50mila elementi che si era costituita al seguito di Garibaldi durante l’impresa dei Mille e la conquista del Regno delle Due Sicilie. Il problema di trasformare un movimento in componente di un’istituzione gerarchica e fortemente disciplinata qual è l’esercito, si pose in maniera particolarmente pronunciata nel merito del trattamento degli ufficiali, la cui formazione e le competenze erano, a seconda delle situazioni prese in considerazione, così eterogenee da far sì che in un primo tempo si procedesse ad incorporare personale del tutto inadatto o inadeguato rispetto ai compiti assegnatigli. Solo il 9 maggio 1860, con l’istituzione della Scuola militare di Modena, dal 1928 conosciuta come Regia accademia di fanteria e cavalleria, si avviò un processo di uniformazione rivolto alla nuova ufficialità, destinata ad essere selezionata e licenziata da un’unica struttura nazionale. In un primo tempo i corsi di formazione furono accelerati, durando non più di sei mesi. Solo successivamente si sarebbe raggiunto il biennio.
Ad ognuno di questi passaggi, destinati ad incidere nella formazione di una nuova forza armata, corrispondevano peraltro altrettanti eventi storico-politici, destinati a cambiare la fisionomia del Paese. Se l’armistizio sottoscritto a Villafranca l’11 luglio 1859, fortemente voluto dalla Francia, poteva sembrare un’amputazione per il Regno di Sardegna, impedendo l’estromissione definitiva degli austriaci dall’Italia, ai quali rimaneva il Veneto, nei mesi successivi le cose si misero di nuovo in moto, riconfigurando gli assetti e gli equilibri a venire. Il Regio decreto del 29 agosto 1859 assorbì dunque il «contingente lombardo», composto di militari che erano stati al servizio dell’imperatore d’Austria e Ungheria. Alle 5 divisioni dell’armata sarda venivano quindi ad aggiungersi effettivi per altre 3 divisioni. Nei territori emiliani, romagnoli e in quelli toscani, dopo le sollevazioni popolari, la fuga dei rispettivi sovrani e le repressioni violente laddove queste si erano verificate, succedettero i commissari regi inviati dal governo di Torino e l’istituzione di governi provvisori. Mentre le truppe del Ducato di Modena erano riparate nelle zone ancora controllate dall’Austria, essendo poi accorpate all’esercito imperiale, quelle del Ducato di Parma e Piacenza, di consistenza modesta, non si erano mosse. In Toscana, dove invece esistevano forze armate, fu quindi deliberato da parte delle nuove autorità, sotto la supervisione del generale Gerolamo Ulloa, di istituire una divisione, di otto reggimenti, che avrebbe combattuto alle dipendenze dei francesi. La medesima unità, divenuta poi la nona divisione dell’esercito sardo, fu quasi subito mandata a presidiare il Sud del Po, tra Modena e Parma. Più in generale, la costituzione di gruppi combattenti, aggregati ai corpi d’armata francesi o alle divisioni piemontesi, aveva un duplice obiettivo: canalizzare e convogliare le milizie, che andavano costituendosi un po’ ovunque nel momento in cui la presenza austriaca scricchiolava o veniva a mancare, verso un’organizzazione che facesse capo all’alleanza franco-sarda, per controllarne poi l’attività; generare un precedente, attraverso i corpi armati antiaustriaci, affinché l’eventuale ritorno delle autorità spodestate risultasse il più difficile possibile. In Lunigiana e Garfagnana, così come in Romagna e fra gli espatriati dalle Marche, agli ordini dei generali Ignazio Ribotti di Mollières, Luigi Mezzacapo, Pietro Roselli e del colonnello Luigi Masi, si costituirono colonne e gruppi di combattimento, il cui obiettivo era di ricongiungersi alle truppe piemontesi, o spalleggiarle nelle zone in cui non erano arrivate, per partecipare alla lotta in corso.
Dopo l’armistizio di Villafranca il governo piemontese fu costretto a ritirare i commissari regi dalla Toscana, dai Ducati e dai territori romagnoli. Ciò pose un freno temporaneo alle trasformazioni in atto, anche se una parte della popolazione sembrava essere apertamente favorevole all’annessione al Regno di Sardegna. Al posto delle autorità vacanti furono quindi favorite forme temporanee di autogoverno locale, sulla base dell’assunzione di misure straordinarie e di emergenza. Il duplice obiettivo, anche in questo caso, era d’impedire il ritorno dei vecchi sovrani così come, al medesimo tempo, controllare e indirizzare politicamente i sommovimenti fra i civili e nei reparti armati che erano rimasti sul territorio. Il 10 agosto 1859 fu quindi istituita una «Lega militare» tra Modena, Firenze e la Romagna, che doveva prefigurare la nascita di un esercito dell’Italia centrale, sotto la guida dei generali De Cavero, Garibaldi, Medici e dei colonnelli Sacchi e Bixio. Si trattava di comandanti di diversa provenienza, accomunati dall’adesione al percorso politico di unificazione. Il coordinamento era affidato ai generali piemontesi Manfredo Fanti e Raffaele Cadorna, il primo distaccato dall’armata sarda per tale funzione, il secondo nominato ministro della Guerra della Lega. Ne nacque, nel giro di non più di tre mesi, una formazione composta da 11 brigate di fanteria, altrettanti battaglioni di bersaglieri, 4 reggimenti di cavalleria, 18 batterie di artiglieria da campagna oltre a diverse compagnie di genieri. Fanti, sotto la presidenza di Cavour, assunse la carica di ministro della Guerra del Regno il 22 gennaio 1860, mantenendo gli impegni sottoscritti con la Lega. Il suo obiettivo era ora quello di dare corpo unitario alle diverse formazioni armate presenti sul territorio controllato dai piemontesi o da essi influenzato. Dopo i plebisciti, nei quali si votò a favore dell’annessione, l’Emilia e la Toscana entrarono quindi a far parte del nuovo Stato. Il Regio decreto del 25 marzo stabiliva che «l’esercito dell’Emilia e della Toscana [...] sono ambedue incorporati [...] nell’esercito nostro, col quale d’ora innanzi si intenderanno fare un solo e stesso esercito». Quello stesso giorno veniva istituito lo Stato maggiore generale, con a capo Manfredo Fanti, dal quale dipendeva l’articolazione territoriale in 5 «dipartimenti militari»: Alessandria, Brescia, Parma, Bologna e Torino. Nel complesso, l’intera ramificazione delle nuove forze armate, comprendeva gli effettivi di 13 divisioni di fanteria e 1 di cavalleria. Cinque giorni dopo, l’esercito della Lega fu a sua volta inserito nell’organico piemontese. Il 15 aprile 1860 il Corpo dei bersaglieri fu riordinato in uno Stato maggiore e 27 battaglioni, per un totale di 615 ufficiali e 16.994 fra sottufficiali e truppa. Il Corpo dei Cacciatori delle Alpi e degli Appennini fu trasformato nella brigata Cacciatori delle Alpi. Laddove, come nel caso della brigata Savoia, i francesi avessero chiesto di acquisirne il comando, nell’ambito della cessione delle terre all’alleato, fu disposto che gli effettivi scegliessero se rimanere sotto la giurisdizione piemontese o passare a quella d’oltralpe. Coloro che optarono per questa seconda soluzione vennero quindi incorporati nella brigata Re.
La repentina riorganizzazione di una forza armata, che vide in poche settimane più che raddoppiare i propri effettivi, se da un lato doveva servire a consolidare la nuova sovranità, cercando – al medesimo tempo – di avviare un processo di uniformazione dei reparti e di mantenere l’ordine pubblico, dall’altro doveva influenzare gli austriaci, ancora solidamente attestati sul Mincio, evitando che l’esercito imperiale riavviasse le ostilità. Faceva da sfondo il crescere e il manifestarsi nelle province centrali e meridionali dell’Italia di fermenti insurrezionali e ribellistici. Il problema che si poneva, al di là dei decreti regi, era come procedere concretamente in questo percorso d’integrazione fra reparti e personale con abitudini, tradizioni, discipline, organizzazioni ma anche lealtà differenti. Alla semplice riunione dei preesistenti eserciti in un unico organismo si preferì quindi cooptare i nuovi contingenti uno ad uno nell’esercito piemontese, attraverso l’assorbimento e la fusione nelle unità già in organico. L’intero corpo degli ufficiali sardi fu chiamato in causa, divenendo la spina dorsale della trasformazione. Se all’inizio del 1859 gli ufficiali effettivi di prima linea o in grado di partecipare a una guerra, erano poco meno di 2.500, mentre un altro migliaio era nella riserva o svolgeva funzioni accessorie, si dovettero richiamare molti di coloro che erano stati congedati negli ultimi anni, per assolvere ai nuovi compiti. Una parte fu quindi rapidamente promossa ai gradi superiori e poi mandata a soprintendere la costituzione delle nuove unità o il loro assorbimento. L’una e l’altra azione avvenivano in questo modo: «si aumentava nei corpi già esistenti dell’esercito sardo il numero delle compagnie, squadroni e batterie, e fra i vecchi ed i nuovi reparti venivano distribuiti i contingenti esterni. Poi, con i battaglioni, le compagnie, gli squadroni e le batterie in eccesso si creavano reggimenti nuovi, in tutto simili agli antichi per la loro composizione». In sostanza, si trattava di creare un amalgama, pensando alle forze armate come al «crogiolo dell’unificazione degli italiani». Non era un’impresa di facile realizzazione. L’armata sarda aveva una compattezza ed un’unitarietà che poteva essere messa in discussione dai nuovi reparti, formati in base a criteri diversi.
2. L’esercito di Fanti
Manfredo Fanti, militare e poi ministro della Guerra, fu l’artefice della riorganizzazione dell’esercito nella prima fase dell’unificazione. Nel 1860 raccolse tutte le truppe in 5 corpi d’armata, suddivisi in 14 divisioni omologhe, cioè composte dal medesimo numero di effettivi e da unità similari, contando ciascuna su 2 brigate di fanteria, 1 battaglione di bersaglieri e dei corpi sussidiari e di servizio. Le divisioni avevano diverse origini: 5 di esse erano piemontesi, 3 lombarde, 5 tosco-emiliane e 1 mista. L’organizzazione era a base territoriale: le divisioni dovevano presidiare territori diversi da quelli di origine e formazione, di fatto costituendo una sorta di ramificazione che si estendeva su tutto il Regno. Nel complesso, erano sotto le armi, in quel momento, ben 183.302 mili...