1.
Il libretto
I
Il libretto, un testo poetico che organizza e articola la vicenda drammatica, è sempre stato il punto di partenza per qualunque compositore che abbia voluto scrivere un’opera. Apparentemente, quindi, sembrerebbe tutto semplice: un compositore sceglie o riceve un libretto (nuovo di zecca o preesistente) e lo mette in musica, rivestendo, per così dire, le parole di note. In realtà, tutto è da definire: per un compositore, infatti, esistono vari modi di interpretare un libretto. Può rispettarne alla lettera il ritmo drammatico, la versificazione, i significati verbali: è ciò che ha fatto la maggior parte dei compositori d’opera, in tutte le epoche. Ma il compositore può anche riservarsi dei margini di libertà. Può, attraverso la musica, arricchire il libretto, modificarne il senso, rivelare all’ascoltatore aspetti della vicenda che i versi lasciano sospesi, o nascosti. I più grandi capolavori teatrali sono nati in questo modo, grazie all’intuizione di un compositore che ha saputo cogliere in un libretto una specifica potenzialità drammatica, ha immaginato il modo in cui la musica poteva illuminare tale potenzialità, e gli ha conferito un senso completamente nuovo. E poi, naturalmente, ha scritto proprio quella musica, e ha dato vita al libretto, alle parole e ai personaggi in esso contenuti.
Il teatro d’opera, così, diviene oggetto di uno dei più persistenti dibattiti nella storia della musica colta occidentale: quello che cerca di stabilire una gerarchia tra parola e musica, di affermare quale dei due codici artistici, musica o poesia, abbia la precedenza nella realizzazione di un’opera. Dibattito irrisolto, che ha visto di volta in volta schierati grandi musicisti e intellettuali a favore della preminenza dell’una o dell’altra arte. Non è questa la sede per ripercorrere la storia di tale querelle; basterà dire che essa divampa in modo particolarmente acceso proprio nel Settecento, un secolo che, non a caso, vide proliferare un nuovo genere teatrale di carattere satirico: l’opera che prende in giro sé stessa. Opere che mettevano in burletta l’istituzione operistica, le fisime isteriche di cantanti e primedonne, la pomposità dei librettisti, la rapacità degli impresari, la vanagloria dei compositori.
Mozart stesso scrisse una di tali opere satiriche, Der Schauspieldirektor («L’impresario teatrale»), che narra le difficoltà di un impresario alle prese con due capricciose primedonne. L’operina, in un solo atto, fu rappresentata il 7 febbraio 1786, lo stesso anno delle Nozze di Figaro, nel palazzo di Schönbrunn. L’occasione fu una sorta di «competizione musicale» voluta dall’imperatore Giuseppe II, nella quale il Singspiel mozartiano veniva contrapposto a una composizione analoga di Salieri (in italiano) dal titolo ancora più esplicitamente satirico: Prima la musica e poi le parole.
Il libretto era di Giovanni Battista Casti, grande avversario di Da Ponte; e in effetti in quest’opera la satira è nascostamente indirizzata proprio contro il librettista delle Nozze di Figaro, del Don Giovanni e di Così fan tutte.
Prima la musica, poi le parole. C’è una lettera di Mozart che dice proprio questo, attraverso un’espressione celebre e citata innumerevoli volte: la poesia deve essere «figlia ubbidiente della musica». È una lettera al padre del 13 ottobre 1781 (durante la composizione del Ratto dal serraglio), e contiene forse la più importante dichiarazione di poetica teatrale del compositore:
In un’opera la poesia deve assolutamente essere la figlia ubbidiente della musica. Perché piacciono ovunque le ridicole opere italiane? Malgrado i loro libretti così miserabili! Persino a Parigi, ne sono stato testimone io stesso. Perché vi domina la musica, e si dimentica tutto il resto. Un’opera piacerà tanto più se la struttura dello spettacolo è ben elaborata e se le parole sono scritte soltanto per la musica, e non se le parole sono disposte qui e là – o se intere strofe rovinano tutta l’idea del compositore, solo per compiacersi di una povera rima (le rime, per Dio, non contribuiscono per niente al valore di una rappresentazione teatrale, qualunque essa sia, ma piuttosto la danneggiano). I versi sono certamente indispensabili per la musica, ma le rime fini a sé stesse sono del tutto nocive. Quei signori che si mettono all’opera in maniera così pedante, finiranno sempre a terra con tutta la musica.
La cosa migliore è quando si incontrano un buon compositore, che conosce il teatro ed è in grado di fare egli stesso delle proposte, e un poeta intelligente, una vera fenice.
È al compositore, in altre parole, che spettano le scelte drammaturgiche, è la musica che deve determinare il «tono», il ritmo, il senso stesso del dramma. Il compositore, il «buon» compositore, deve essere in grado di fare egli stesso delle proposte. Ossia deve indirizzare il librettista, fargli capire chiaramente quali sono le sue intenzioni, chiedergli modifiche, revisioni, cambiamenti, per favorire la migliore resa musicale.
Non ci sono rimaste, purtroppo, testimonianze dirette del modo in cui Mozart e Da Ponte lavorarono insieme alle tre opere: vivevano entrambi a Vienna, e quindi probabilmente non avevano bisogno di mandarsi lettere per discutere del libretto e della musica. Da Ponte scriverà qualcosa a proposito della collaborazione con Mozart – non molto, per la verità – ma lo farà solo diversi decenni più tardi, e con un tono forse un po’ autocelebrativo.
Sappiamo comunque, da numerose lettere scritte al padre, che Mozart era particolarmente esigente nei confronti dei suoi librettisti. Leopold Mozart, infatti, fece – molto tipicamente – da tramite fra Wolfgang, che si trovava a Monaco, e Giovanni Battista Varesco, il librettista di Idomeneo, poeta e cappellano presso la corte ...