1. Perché il processo “si imballa”
I guasti dell’oralizzazione e dell’“immutabilità” del giudice
Diceva Thomas Hobbes che il termine tirannia significa né più né meno ciò che significa
il termine sovranità. Solo chi è in collera col sovrano lo chiama tiranno1. In modo non dissimile, si potrebbe dire che coloro che “sono in collera” con il
“procedimento con istruzione” lo chiamano «inquisitorio».
Il processo inquisitorio, qual è stato in vigore da noi fino al 1989, era un processo
con istruzione. Paradossalmente la formula del processo accusatorio, che in Italia
lo soppianterà da quell’anno sulle tracce del modello anglosassone, nell’antico diritto
romano è nata prima, non dopo2. Aveva il suo fulcro nell’oralità, strettamente legata alla presenza delle giurie.
Che, essendo composte da persone analfabete, non potevano utilizzare testi scritti.
Davanti a loro la prova si formava, appunto oralmente, per necessità. Solo successivamente
è stato adottato il processo con istruzione, quando i funzionari imperiali, incaricati
di “istruire” il procedimento, acquisivano le prove e le fissavano per iscritto.
Se si volesse fare della provocazione, si potrebbe dire che l’oralità segna il ritorno
al Neolitico, perché la scrittura è stata inventata per “fermare” il ricordo degli
uomini. Il processo italiano ha trasformato l’oralità in feticcio, al punto da aver
imposto talora la “oralizzazione”, termine orribile ma efficace.
Anticipiamo qui la descrizione di un’anomalia che attiene ad altra fase del processo
gestito dal giudice, come si vedrà più avanti. È il simbolo della perdita di tempo.
Ricorre quando davanti al giudice sfilano come testi poliziotti, carabinieri o uomini
della Guardia di Finanza, cioè ufficiali e agenti di polizia giudiziaria. Sono investigatori
che svolgono un’attività seriale, quanto ai reati meno rilevanti, vicende spesso simili
se non uguali, replicate con lo stampino: arresti per scippi o spaccio di stupefacenti.
Il giudice che li ascolta non può accedere alle loro annotazioni di servizio che sono
solo agli atti del fascicolo del pubblico ministero. Non gli è permesso in base alla
ferrea “consegna” che la formazione delle prove deve avvenire in contraddittorio tra
le parti, secondo quanto stabilito dalla Costituzione all’articolo 111. Potrebbe farlo
soltanto se le parti dessero via libera: solo così quegli appunti potrebbero entrare
nel dossier del dibattimento. Ciò di norma non accade perché la disciplina dei termini
di prescrizione e di quelli di custodia cautelare rende conveniente all’imputato cercare
di guadagnare tempo. Però la legge concede ai testimoni di sfogliare, come aiuto alla
memoria, atti a propria firma.
Ecco dunque la scena dell’udienza. Gli agenti arrivano in aula, si siedono sul banco
dei testimoni. Hanno in braccio pacchi di carte. Devono riferire su uno scippo. Il
presidente, o il giudice, se è monocratico, li autorizza a consultare i documenti
da loro redatti: a distanza di mesi o di anni non sono certo in grado di ricordare
tutti gli episodi e, se richiesti di fornire dettagli, devono scartabellare le note
scritte subito dopo gli avvenimenti (seriali, ripetitivi, non dimentichiamolo) dei
quali si sono occupati. E loro procedono, leggendo, ovviamente, ciò che hanno steso
in forma di riassunto. Allora uno si chiede: ma perché questo compito, di semplice
lettura, non può essere svolto da altri protagonisti del processo? Perché deve essere
inibito al giudice? Se invece non lo fosse, non sarebbe indispensabile sentire quei
testi. Gli avvocati non possono lamentare nessuna violazione del loro diritto di difesa:
se ne hanno realmente bisogno, quei testi possono essere chiamati e rispondere a tutte
le domande possibili.
Altro esempio, tra i tanti. Parliamo di perizie. Sembra un assurdo, eppure, secondo
il codice, della relazione del perito si può dare lettura solo dopo l’esame del perito
stesso. Ma se le parti non l’hanno scorso in precedenza, che cosa gli chiederanno
mai? E se questo è già avvenuto, perché dopo “se ne deve dare lettura”? Tutte queste
norme sono d’ostacolo, urtano con il comune buon senso, non c’entrano nulla con il
concetto di garanzia. Anzi, ne costituirà proprio una il fatto che il giudice abbia
“metabolizzato” quei resoconti scritti, lui non può e non deve “brancolare nel buio”.
Provare per credere: com’è possibile, ad esempio, in un caso di bancarotta, discutere
di poste di bilancio oralmente?
Risultato: il processo penale italiano, a prescindere dalla difficoltà intrinseca
nella formazione della prova davanti al giudice, in contraddittorio, è un processo
complicato, perché la prova deve essere raggiunta in questo modo, un modo obbligatorio:
quel principio è in Costituzione, quindi difficilmente modificabile.
Il buon giudice del vecchio codice era quello che dell’istruttoria studiava tutto,
perfino le virgole. Nel nuovo codice, paradossalmente, il buon giudice è invece uno
che non sa niente, zero assoluto: si vorrebbe che fosse “la pagina bianca su cui scrivono
le parti”. Così bianca che a volte si creano situazioni stravaganti. Anni fa, in un
processo in corso al Tribunale di Milano, doveva essere interrogato un testimone.
Il rappresentante dell’accusa gli chiese: «Riferisca tutti i fatti di cui è a conoscenza».
E lui: «Confermo quanto ho già dichiarato ai carabinieri e al pubblico ministero».
Il presidente, con molta calma, intervenne: «Ma noi non sappiamo che cosa lei ha raccontato,
quindi deve avere la pazienza di ripetercelo». Il teste, stupito, si rivolse al magistrato:
«Ma veramente non siete informati su quello che ho già messo a verbale?». Il presidente,
allargando le braccia: «No». Insistette il teste: «Ma come fate allora a giudicare?».
È così che una persona normale, entrando in un’aula di giustizia, si trova di colpo
di fronte a un mondo rovesciato.
Dobbiamo porci allora la seguente domanda: perché quel magistrato deve restare “vergine”
e “ignorante”? Se non lo fosse, cioè se gli fosse possibile conoscere tutto in anticipo,
ribattono i sostenitori del metodo “accusatorio”, le sue decisioni potrebbero essere
bollate da un marchio terribile: il pregiudizio, un fatto intollerabile. L’obiezione
non regge. Può valere per i giurati, non per un giudice professionale che sa cosa
può usare o non può usare: un conto è quanto si afferma in dibattimento, un altro
conto quanto invece è stato esposto in una fase precedente. Un esempio chiarirà. Un
giudice che deve stabilire se assolvere o condannare qualcuno tirato in ballo da una
chiamata in correità, eventualmente riscontrata, deve valutare l’attendibilità soggettiva
di chi la fa, in altre parole se costui è attendibile. Se lo è, solo allora potrà
tentare di trovare riscontri alle sue affermazioni. Se non lo è, è inutile cercarli:
se anche ce ne fossero, sarebbero irrilevanti.
Il fattore più importante per analizzare la credibilità di una dichiarazione è capire
la sua genesi: come nasce, che cosa è stato detto prima, quali domande sono state
poste, di quali notizie si era a conoscenza a quell’epoca. Se il giudice è all’oscuro
di tutto questo, non può giudicare seriamente: si tratta di elementi che ora possono
emergere solo attraverso le contestazioni. Che sono, per loro natura, frammentarie
e richiedono un impegnativo lavoro di ricostruzione. Soluzione: sarebbe molto più
semplice avere a disposizione gli atti.
Nel nuovo codice, il giudice si trova di fronte a uno snodo drammatico. Mentre nel
vecchio codice aveva a disposizione un materiale imponente, che poteva vagliare con
assoluta tranquillità, distinguendo ciò che serviva da ciò che non serviva, ciò che
era valido da quello che non lo era, ora deve vedersela con documentazioni inutilizzabili,
testi che ritrattano e altro. Insomma, poca roba su cui poter lavorare. Perché gli
si devono nascondere i fatti? È un problema fondamentale: il giudice si formi prima
la sua idea e la verifichi in dibattimento. Estremizziamo il paragone: si può mai
pretendere che uno scienziato, quando sta conducendo esperimenti in laboratorio, faccia
tabula rasa di tutte le precedenti conoscenze, di tutte le sperimentazioni del passato?
Certamente no: anzi, ne farà tesoro per ricontrollare, ancora una volta, i risultati.
E allora il nostro giudice, dopo aver “digerito” i suoi faldoni, avrà un’idea precisa
sulla gestione di un caso e potrà guidare in modo mirato il processo. Che durerebbe
molto meno: udienze più veloci, risparmio di pubblico denaro, ma anche, e soprattutto,
di tempo collettivo, ben più prezioso di quello individuale.
Una via d’uscita a questo marasma c’è. Basterebbe introdurre una piccolissima norma:
è abolita la distinzione tra fascicolo del pubblico ministero e fascicolo del dibattimento.
Rimarrebbero comunque utilizzabili solo gli atti assunti in dibattimento o quelli
concordati dalle parti. Che già oggi possono pattuire l’inserimento, nel fascicolo
dibattimentale, di documenti provenienti dal dossier del pubblico ministero o dal
dossier della difesa.
Il processo italiano è non solo complicato, ma anche schizofrenico. Non c’è altro
aggettivo per qualificare il cosiddetto principio dell’“immutabilità” del giudice:
se delle prove sono state acquisite e verbalizzate davanti al giudice, che in seguito
cambia, perché mai devono essere rifatte? Nel processo civile, accusatorio per definizione,
non è affatto così. Facile immaginare lo sconquasso che ne segue. Prendiamo un collegio
di tre persone, impegnate in processi che, essendo complessi e numerosi, durano anni.
Deve affrontare udienze con detenuti: e può capitare che sia alle prese talvolta con un giudice che deve essere trasferito,
talaltra con chi deve andare in maternità. Conclusione: si riparte daccapo. A meno
che non ci sia il consenso delle parti per mantenere le prove già assunte: il pubblico
ministero lo presta sempre, come la parte civile, tutti interessati a una decisione;
il difensore, rarissimamente, perché sovente persegue lo scopo di “tirare in lungo”.
Certo, legittimamente, anzi è un suo dovere, con le attuali leggi.
È sotto gli occhi di tutti: il processo è “complicato”. Nei prossimi capitoli saranno
sviluppati argomenti che lo abbracciano nei suoi meandri, attraverso le figure che
lo animano, i protagonisti “sulla scena”: dal giudice, nei suoi molteplici ruoli,
al pubblico ministero, il “motore delle indagini”, da anni sotto il tiro della classe
politica; dalla polizia giudiziaria, che collabora alle inchieste dei magistrati,
all’imputato; dal difensore alla vittima del reato, spesso “fuori scena”, non trattata
come invece dovrebbe essere.
Poi, le storture del processo, che lo rendono elefantiaco, nella banalità di misure
che tardano a essere prese, pur essendo a costo zero, come le difficoltà nelle notifiche,
causa di rinvii continui ed esasperanti; le montagne di carte; i “riti alternativi”,
patteggiamento e abbreviato, che non hanno dato i risultati attesi; gli appelli, consentiti
sempre, senza la selezione di criteri che possano arginarli; le depenalizzazioni,
mai adeguatamente realizzate; l’interminabile polemica sulle intercettazioni, da vietare
o limitare.
1 T. Hobbes, Leviathan (trad. di M. Vinciguerra, Laterza, 1974, p. 654), sul termine «tirannia» e sui suoi
rapporti con il concetto di «sovranità»: «E poiché il nome di tirannia non significa
né più né meno che quello di sovranità, sia in uno o in molti uomini, salvo che quelli
che usano la prima parola sono considerati in collera contro quelli che essi chiamano
tiranni; così io penso che tollerare un odio professato contro la tirannia significa
tollerare un odio contro lo Stato in generale».
2 Si tratta della cognitio extra ordinem, che dal 342 d.C. era diventata l’unica procedura in uso nei processi, voluta dagli
imperatori Costanzo e Costante. Era una formula scritta, succeduta a quella per formulas, anch’essa scritta, ma troppo complicata, a sua volta subentrata alla formula orale
delle legis actiones, abolita nel 17 a.C. con la Lex Iulia.