Processo all'italiana
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Processo all'italiana

  1. 190 pagine
  2. Italian
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Processo all'italiana

Informazioni su questo libro

Il processo italiano non solo è complicato, ma anche schizofrenico.Il rimedio principale non sta tanto nella modifica di questa o quella norma, quanto nel tornare, noi, a essere un popolo serio.Alla data del 30 giugno 2011 la massa dell'arretrato nei tribunali italiani era pari quasi a 9 milioni di processi.I tempi medi necessari per la definizione di una causa sono arrivati a più di 7 anni nel civile e a quasi 5 anni nel penale.I nostri processi sono elefantiaci e la magistratura si scontra con procedure che richiedono anni.Nella classifica della Banca Mondiale l'Italia è al 158° posto, su 183, per la durata dei procedimenti e per l'inefficienza della giustizia: un dato sconcertante, che ci vede preceduti persino da Togo, Isole Comore, Indonesia e Kosovo.Questo libro spiega come funziona la giustizia in Italia e cosa vogliono dire parole chiave come patteggiamento, rito abbreviato, udienza preliminare, depenalizzazione, prescrizione. Ma, soprattutto, propone una cura a costo zero per uscire dai gironi infernali dei tribunali italiani. Bastano poche misure, anche banali, per ovviare a rinvii continui ed esasperanti; per eliminare montagne di carte; per rivedere il patteggiamento e il rito abbreviato, i due riti alternativi che non hanno dato i risultati attesi; per consentire gli appelli solo dopo una loro selezione; per rendere effettive le depenalizzazioni, mai adeguatamente realizzate; per mettere la parola fine all'interminabile polemica sulle intercettazioni.

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Informazioni

Argomento
Diritto

1. Perché il processo “si imballa”

I guasti dell’oralizzazione e dell’“immutabilità” del giudice

Diceva Thomas Hobbes che il termine tirannia significa né più né meno ciò che significa il termine sovranità. Solo chi è in collera col sovrano lo chiama tiranno1. In modo non dissimile, si potrebbe dire che coloro che “sono in collera” con il “procedimento con istruzione” lo chiamano «inquisitorio».
Il processo inquisitorio, qual è stato in vigore da noi fino al 1989, era un processo con istruzione. Paradossalmente la formula del processo accusatorio, che in Italia lo soppianterà da quell’anno sulle tracce del modello anglosassone, nell’antico diritto romano è nata prima, non dopo2. Aveva il suo fulcro nell’oralità, strettamente legata alla presenza delle giurie. Che, essendo composte da persone analfabete, non potevano utilizzare testi scritti. Davanti a loro la prova si formava, appunto oralmente, per necessità. Solo successivamente è stato adottato il processo con istruzione, quando i funzionari imperiali, incaricati di “istruire” il procedimento, acquisivano le prove e le fissavano per iscritto.
Se si volesse fare della provocazione, si potrebbe dire che l’oralità segna il ritorno al Neolitico, perché la scrittura è stata inventata per “fermare” il ricordo degli uomini. Il processo italiano ha trasformato l’oralità in feticcio, al punto da aver imposto talora la “oralizzazione”, termine orribile ma efficace.
Anticipiamo qui la descrizione di un’anomalia che attiene ad altra fase del processo gestito dal giudice, come si vedrà più avanti. È il simbolo della perdita di tempo. Ricorre quando davanti al giudice sfilano come testi poliziotti, carabinieri o uomini della Guardia di Finanza, cioè ufficiali e agenti di polizia giudiziaria. Sono investigatori che svolgono un’attività seriale, quanto ai reati meno rilevanti, vicende spesso simili se non uguali, replicate con lo stampino: arresti per scippi o spaccio di stupefacenti.
Il giudice che li ascolta non può accedere alle loro annotazioni di servizio che sono solo agli atti del fascicolo del pubblico ministero. Non gli è permesso in base alla ferrea “consegna” che la formazione delle prove deve avvenire in contraddittorio tra le parti, secondo quanto stabilito dalla Costituzione all’articolo 111. Potrebbe farlo soltanto se le parti dessero via libera: solo così quegli appunti potrebbero entrare nel dossier del dibattimento. Ciò di norma non accade perché la disciplina dei termini di prescrizione e di quelli di custodia cautelare rende conveniente all’imputato cercare di guadagnare tempo. Però la legge concede ai testimoni di sfogliare, come aiuto alla memoria, atti a propria firma.
Ecco dunque la scena dell’udienza. Gli agenti arrivano in aula, si siedono sul banco dei testimoni. Hanno in braccio pacchi di carte. Devono riferire su uno scippo. Il presidente, o il giudice, se è monocratico, li autorizza a consultare i documenti da loro redatti: a distanza di mesi o di anni non sono certo in grado di ricordare tutti gli episodi e, se richiesti di fornire dettagli, devono scartabellare le note scritte subito dopo gli avvenimenti (seriali, ripetitivi, non dimentichiamolo) dei quali si sono occupati. E loro procedono, leggendo, ovviamente, ciò che hanno steso in forma di riassunto. Allora uno si chiede: ma perché questo compito, di semplice lettura, non può essere svolto da altri protagonisti del processo? Perché deve essere inibito al giudice? Se invece non lo fosse, non sarebbe indispensabile sentire quei testi. Gli avvocati non possono lamentare nessuna violazione del loro diritto di difesa: se ne hanno realmente bisogno, quei testi possono essere chiamati e rispondere a tutte le domande possibili.
Altro esempio, tra i tanti. Parliamo di perizie. Sembra un assurdo, eppure, secondo il codice, della relazione del perito si può dare lettura solo dopo l’esame del perito stesso. Ma se le parti non l’hanno scorso in precedenza, che cosa gli chiederanno mai? E se questo è già avvenuto, perché dopo “se ne deve dare lettura”? Tutte queste norme sono d’ostacolo, urtano con il comune buon senso, non c’entrano nulla con il concetto di garanzia. Anzi, ne costituirà proprio una il fatto che il giudice abbia “metabolizzato” quei resoconti scritti, lui non può e non deve “brancolare nel buio”. Provare per credere: com’è possibile, ad esempio, in un caso di bancarotta, discutere di poste di bilancio oralmente?
Risultato: il processo penale italiano, a prescindere dalla difficoltà intrinseca nella formazione della prova davanti al giudice, in contraddittorio, è un processo complicato, perché la prova deve essere raggiunta in questo modo, un modo obbligatorio: quel principio è in Costituzione, quindi difficilmente modificabile.
Il buon giudice del vecchio codice era quello che dell’istruttoria studiava tutto, perfino le virgole. Nel nuovo codice, paradossalmente, il buon giudice è invece uno che non sa niente, zero assoluto: si vorrebbe che fosse “la pagina bianca su cui scrivono le parti”. Così bianca che a volte si creano situazioni stravaganti. Anni fa, in un processo in corso al Tribunale di Milano, doveva essere interrogato un testimone. Il rappresentante dell’accusa gli chiese: «Riferisca tutti i fatti di cui è a conoscenza». E lui: «Confermo quanto ho già dichiarato ai carabinieri e al pubblico ministero». Il presidente, con molta calma, intervenne: «Ma noi non sappiamo che cosa lei ha raccontato, quindi deve avere la pazienza di ripetercelo». Il teste, stupito, si rivolse al magistrato: «Ma veramente non siete informati su quello che ho già messo a verbale?». Il presidente, allargando le braccia: «No». Insistette il teste: «Ma come fate allora a giudicare?». È così che una persona normale, entrando in un’aula di giustizia, si trova di colpo di fronte a un mondo rovesciato.
Dobbiamo porci allora la seguente domanda: perché quel magistrato deve restare “vergine” e “ignorante”? Se non lo fosse, cioè se gli fosse possibile conoscere tutto in anticipo, ribattono i sostenitori del metodo “accusatorio”, le sue decisioni potrebbero essere bollate da un marchio terribile: il pregiudizio, un fatto intollerabile. L’obiezione non regge. Può valere per i giurati, non per un giudice professionale che sa cosa può usare o non può usare: un conto è quanto si afferma in dibattimento, un altro conto quanto invece è stato esposto in una fase precedente. Un esempio chiarirà. Un giudice che deve stabilire se assolvere o condannare qualcuno tirato in ballo da una chiamata in correità, eventualmente riscontrata, deve valutare l’attendibilità soggettiva di chi la fa, in altre parole se costui è attendibile. Se lo è, solo allora potrà tentare di trovare riscontri alle sue affermazioni. Se non lo è, è inutile cercarli: se anche ce ne fossero, sarebbero irrilevanti.
Il fattore più importante per analizzare la credibilità di una dichiarazione è capire la sua genesi: come nasce, che cosa è stato detto prima, quali domande sono state poste, di quali notizie si era a conoscenza a quell’epoca. Se il giudice è all’oscuro di tutto questo, non può giudicare seriamente: si tratta di elementi che ora possono emergere solo attraverso le contestazioni. Che sono, per loro natura, frammentarie e richiedono un impegnativo lavoro di ricostruzione. Soluzione: sarebbe molto più semplice avere a disposizione gli atti.
Nel nuovo codice, il giudice si trova di fronte a uno snodo drammatico. Mentre nel vecchio codice aveva a disposizione un materiale imponente, che poteva vagliare con assoluta tranquillità, distinguendo ciò che serviva da ciò che non serviva, ciò che era valido da quello che non lo era, ora deve vedersela con documentazioni inutilizzabili, testi che ritrattano e altro. Insomma, poca roba su cui poter lavorare. Perché gli si devono nascondere i fatti? È un problema fondamentale: il giudice si formi prima la sua idea e la verifichi in dibattimento. Estremizziamo il paragone: si può mai pretendere che uno scienziato, quando sta conducendo esperimenti in laboratorio, faccia tabula rasa di tutte le precedenti conoscenze, di tutte le sperimentazioni del passato? Certamente no: anzi, ne farà tesoro per ricontrollare, ancora una volta, i risultati.
E allora il nostro giudice, dopo aver “digerito” i suoi faldoni, avrà un’idea precisa sulla gestione di un caso e potrà guidare in modo mirato il processo. Che durerebbe molto meno: udienze più veloci, risparmio di pubblico denaro, ma anche, e soprattutto, di tempo collettivo, ben più prezioso di quello individuale.
Una via d’uscita a questo marasma c’è. Basterebbe introdurre una piccolissima norma: è abolita la distinzione tra fascicolo del pubblico ministero e fascicolo del dibattimento. Rimarrebbero comunque utilizzabili solo gli atti assunti in dibattimento o quelli concordati dalle parti. Che già oggi possono pattuire l’inserimento, nel fascicolo dibattimentale, di documenti provenienti dal dossier del pubblico ministero o dal dossier della difesa.
Il processo italiano è non solo complicato, ma anche schizofrenico. Non c’è altro aggettivo per qualificare il cosiddetto principio dell’“immutabilità” del giudice: se delle prove sono state acquisite e verbalizzate davanti al giudice, che in seguito cambia, perché mai devono essere rifatte? Nel processo civile, accusatorio per definizione, non è affatto così. Facile immaginare lo sconquasso che ne segue. Prendiamo un collegio di tre persone, impegnate in processi che, essendo complessi e numerosi, durano anni. Deve affrontare udienze con detenuti: e può capitare che sia alle prese talvolta con un giudice che deve essere trasferito, talaltra con chi deve andare in maternità. Conclusione: si riparte daccapo. A meno che non ci sia il consenso delle parti per mantenere le prove già assunte: il pubblico ministero lo presta sempre, come la parte civile, tutti interessati a una decisione; il difensore, rarissimamente, perché sovente persegue lo scopo di “tirare in lungo”. Certo, legittimamente, anzi è un suo dovere, con le attuali leggi.
È sotto gli occhi di tutti: il processo è “complicato”. Nei prossimi capitoli saranno sviluppati argomenti che lo abbracciano nei suoi meandri, attraverso le figure che lo animano, i protagonisti “sulla scena”: dal giudice, nei suoi molteplici ruoli, al pubblico ministero, il “motore delle indagini”, da anni sotto il tiro della classe politica; dalla polizia giudiziaria, che collabora alle inchieste dei magistrati, all’imputato; dal difensore alla vittima del reato, spesso “fuori scena”, non trattata come invece dovrebbe essere.
Poi, le storture del processo, che lo rendono elefantiaco, nella banalità di misure che tardano a essere prese, pur essendo a costo zero, come le difficoltà nelle notifiche, causa di rinvii continui ed esasperanti; le montagne di carte; i “riti alternativi”, patteggiamento e abbreviato, che non hanno dato i risultati attesi; gli appelli, consentiti sempre, senza la selezione di criteri che possano arginarli; le depenalizzazioni, mai adeguatamente realizzate; l’interminabile polemica sulle intercettazioni, da vietare o limitare.
1 T. Hobbes, Leviathan (trad. di M. Vinciguerra, Laterza, 1974, p. 654), sul termine «tirannia» e sui suoi rapporti con il concetto di «sovranità»: «E poiché il nome di tirannia non significa né più né meno che quello di sovranità, sia in uno o in molti uomini, salvo che quelli che usano la prima parola sono considerati in collera contro quelli che essi chiamano tiranni; così io penso che tollerare un odio professato contro la tirannia significa tollerare un odio contro lo Stato in generale».
2 Si tratta della cognitio extra ordinem, che dal 342 d.C. era diventata l’unica procedura in uso nei processi, voluta dagli imperatori Costanzo e Costante. Era una formula scritta, succeduta a quella per formulas, anch’essa scritta, ma troppo complicata, a sua volta subentrata alla formula orale delle legis actiones, abolita nel 17 a.C. con la Lex Iulia.

2. Senza timore e senza speranza: il giudice

Il giudice secondo la legge italiana: indipendente e “indifferente”

«Ricorda particolarmente che non puoi in alcun modo essere giudice. Giacché nessuno può esser su questa terra giudice d’un malfattore, se prima non abbia egli stesso acquisito coscienza che anche lui è altrettanto un malfattore quanto quello che gli sta innanzi e che lui per l’appunto, rispetto al delitto di colui che gli sta innanzi, è forse prima di ogni altro colpevole»1.
In queste parole pronunciate dallo starec Zosima, un monaco russo dispensatore di saggezza, Gustavo Zagrebelsky, giurista, presidente emerito della Corte Costituzionale, coglie uno spunto “alto”: evocare la figura di un giudice un po’ speciale raccontata da Fëdor Dostoevskij in uno dei capolavori della letteratura russa e mondiale, I fratelli Karamazov, storia di un parricidio con errore giudiziario. Il tema affrontato da Zagrebelsky nel volume Intorno alla legge2 è profondo: «La giustizia non è solo questione di codici e procedure. È anche, an...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Un paese in tribunale
  2. 1. Perché il processo “si imballa”
  3. 2. Senza timore e senza speranza: il giudice
  4. 3. Il “monopolista” dell’azione penale: il pubblico ministero
  5. 4. Cattani, Montalbano e gli altri: gli investigatori della polizia giudiziaria
  6. 5. Difensori, imputati e vittime
  7. 6. Quanto lavorano i magistrati: montagne di carta...
  8. 7. Le intercettazioni: un problema reale?
  9. 8. I riti alternativi, ovvero la grande illusione
  10. 9. Un appello non si nega a nessuno
  11. 10. Depenalizzazioni sì o no
  12. Conclusioni
  13. Testi citati
  14. Glossario