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Le interpretazioni della crisi ecologica
1.1. La questione tecnologica
Nel vasto movimento dell’ambientalismo la linea di pensiero più diffusa è quella che viene definita corrente riformista che considera la crisi ecologica come un problema fondamentalmente scientifico e tecnologico e, conseguentemente, individua nell’incremento della ricerca tecnologica la via per cercare, se non una soluzione a tale crisi, comunque un suo sensibile ridimensionamento. Partendo dal presupposto che è utopistico pretendere di pervenire a una completa soluzione di tale problema, mentre è considerato realistico ipotizzare interventi che mirino a limitare, ridurre, le varie forme di criticità ecologica (Passmore, 1986, p. 58), viene individuata nell’incremento della ricerca scientifica e tecnologica la via necessaria e sufficiente per una soluzione.
Nell’ambiente culturale che investe sull’approccio tecnologico si riconosce che gran parte dei fattori che concorrono a determinare la crisi ecologica sono riconducibili in larga misura proprio allo sviluppo tecnologico che ha reso disponibili nuove sostanze e nuovi metodi di produzione non compatibili con gli equilibri degli ecosistemi: l’introduzione di detergenti chimici, un uso sempre più massiccio di materiali plastici, la produzione di fertilizzanti inorganici, cui si aggiunge la tendenza a un incremento di sistemi di imballaggio non riutilizzabili, e con queste molte altre innovazioni. Tuttavia prevale la convinzione che, così come le nuove tecnologie sono all’origine dell’inquinamento ambientale, allo stesso modo le stesse possono essere ripensate per provocare un rinnovamento che metta a disposizione un sempre maggior numero di sostanze ecocompatibili e di dispostivi tecnici che consentano un uso sostenibile delle risorse energetiche. Per “tecnologia ecocompatibile” s’intende quella che deve calzarsi al sistema ambientale come il guanto alla mano. Dev’essere pensata e usata in modo da garantire una presenza sostenibile all’interno del sistema biosferico, senza provocare rotture di equilibrio. Una tecnologia ecocompatibile si fonda sul principio di armonizzazione con la processualità dei sistemi viventi.
Interpretare la crisi ecologica in termini tecnologici porta a postulare la non necessità di ristrutturazioni profonde del tessuto culturale, per investire invece in una serie di aggiustamenti progressivi nella politica di gestione delle risorse e nella messa a punto di un apparato tecnologico in grado di ridurre l’entità dei dissesti ecologici. Proprio per questo cauto riformismo e per la fiducia in certi casi incondizionata nella tecnica, questa posizione raccoglie largo e facile consenso nell’opinione pubblica.
Un’analisi più attenta dei fenomeni culturali suggerisce invece di prendere le dovute distanze da questa fiducia nella tecnica, perché ciò significherebbe tendere verso una società sempre più tecnocratica, e di mettere in discussione l’ipotesi che tale eco-tecnocrazia abbia una base scientifica affidabile. Occorre guardarsi dal mitizzare lo sviluppo tecnologico, perché se è vero che ha consentito un miglioramento delle condizioni di vita riducendo per certi aspetti la sudditanza nei confronti delle condizioni ambientali, non per questo si deve ritenere che ciò si traduca in un aumento automatico di libertà dai vincoli naturali. L’essere umano è, infatti, per sua natura un essere condizionato, perché ogni cosa con cui entra in relazione assume immediatamente le caratteristiche di un fattore condizionante la sua esistenza (Arendt, 1989, p. 8); e a svolgere questa funzione condizionante non è solo la natura, ma anche le cose prodotte dalle attività umane, e dunque anche la scienza e la tecnica.
Con queste riflessioni non s’intende negare il valore della tecnica, poiché questa è indispensabile per costruire un mondo umano. Nel Protagora di Platone si narra che un tempo gli esseri umani vagavano indifesi sulla terra, esposti alle forze incontrollabili della natura. Solo quando, per la benevolenza di Prometeo, essi ricevettero in dono le varie tecniche (il coltivare, l’allevare, l’edificare, il fare discorsi, ecc.) furono in grado di iniziare a costruire quel mondo di artefatti che rappresenta la condizione per condurre una vita propriamente umana. Questo mito tematizza l’idea che la tecnica è condizione per l’edificazione della civiltà; per questa ragione al progresso tecnologico l’intelligenza umana ha dedicato gran parte delle sue energie.
Nel tempo le tecniche hanno conosciuto una continua evoluzione fino al punto che oggi si parla di tecnosfera, per indicare che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, sia perché l’esistenza è condizionata dall’uso delle tecnologie, sia perché prevale una razionalità di tipo tecnico, secondo la quale ogni obiettivo di trasformazione culturale è pensabile possa essere raggiunto solo attraverso la mediazione della tecnica.
Per attualizzare le sue potenzialità, l’essere umano necessita di un mondo di artefatti: materiali, noetici e relazionali; solo con essi è possibile affermare fino in fondo il proprio essere, e la costruzione di questi artefatti implica lo sviluppo di abilità tecniche. Proprio dell’essere umano è la messa in atto di azioni finalizzate a costruire una dimora che consenta la piena realizzazione della sua umanità; da qui prende forma la città, quel contesto che costituisce il luogo dell’abitare della sfera umana. L’essere umano si realizza nella misura in cui, attraverso le invenzioni tecnologiche, costruisce e conserva il mondo umano, ed è proprio per costruire un mondo in cui abitare che da sempre manipola e usa la natura. Perciò l’uso e la manipolazione della natura e la costruzione di civiltà vanno di pari passo.
Pur consentendo l’emergenza di sempre migliori condizioni di vita, nello stesso tempo la continua evoluzione tecnica ha però sollevato una serie di problemi di una qualità tale che la ragione umana si trova impreparata ad affrontare. Non si può negare, infatti, che la disponibilità di certe tecnologie ha contribuito al verificarsi di una crisi ambientale che non ha precedenti nella storia umana.
La nostra civiltà, che ha assunto come riferimento essenziale il paradigma del continuo incremento della produzione, ha fatto un uso scorretto delle risorse naturali, arrivando a sfruttare la biosfera ai limiti delle sue capacità. Gli ecosistemi hanno subìto uno sviluppo industriale e una politica di gestione del territorio che ha esercitato un impatto ambientale senza precedenti: distruzione delle foreste, esaurimento di molte fonti di acqua potabile, erosione del suolo, inquinamento dell’aria, riduzione dello strato di ozono, ecc. Inoltre occorre fare i conti con una globalizzazione dei mercati che incrementa l’esproprio delle risorse naturali e con uno sviluppo delle biotecnologie che, accompagnato da una svalorizzazione dei saperi tradizionali, provoca un progressivo impoverimento della ricchezza biotica. Malgrado questo saccheggio della natura che potrebbe garantire un benessere diffuso, intere popolazioni lottano contro la povertà, costrette a una qualità della vita al di sotto dei limiti tollerabili, a causa in primo luogo della mancanza di cibo sufficiente e di acqua potabile, nonché della sottrazione di risorse che nel tempo hanno subito.
In questo scenario, non meno problematico dell’appropriazione crescente e senza misura delle risorse naturali da parte di gruppi di potere, si profila lo sviluppo dell’ingegneria genetica che, occupata a manipolare i processi vitali, solleva questioni di una profonda drammaticità. È vero che dagli inizi della civiltà il patrimonio genetico di piante e animali è stato oggetto di una continua selezione, ma con i mezzi messi a disposizione dalle biotecnologie si sta verificando una forma di manipolazione dei processi morfogenetici che, se da una parte risponde al bisogno propriamente umano di conoscere, dall’altra può essere interpretata come il sintomo di un desiderio smisurato di dominio non solo sull’ambiente, ma anche sulla natura umana.
In passato il sapere umano, malgrado i continui progressi, manteneva dimensioni e proprietà tali da non modificare la sostanza dei processi naturali, che non venivano intaccati nelle loro forze generatrici. Di conseguenza gli interventi umani sull’ambiente venivano facilmente riassorbiti dalle dinamiche eco-organizzatrici che regolano i processi vitali degli ecosistemi. A partire dall’età moderna la ricerca scientifica e tecnologica non si limita a osservare e spiegare i processi naturali, e a usare le risorse che la natura rende evidenti, ma comincia a imporre condizioni e a provocare processi imprevisti dall’ordine naturale delle cose. Con l’applicazione della logica sperimentale si realizza un’arte nuova, quella di “fare la natura” che consiste nel provocare processi inediti (Arendt, 1989, p. 170). Non solo non ci si limita a usare i materiali così come la natura li produce, poiché l’essere umano ha imparato a sintetizzarne di nuovi, ma si è giunti a trasferire i processi cosmici sulla terra, cosicché i cicli energetici vengono a essere forzati verso processi di organizzazione imprevisti che mettono a rischio il fondo stesso della vita.
Certe direzioni prese dallo sviluppo scientifico e tecnologico rivelano il desiderio di esercitare la logica del controllo e del dominio non solo sull’evoluzione del mondo naturale, ma anche sulla vita umana, senza che venga messa a tema la problematicità delle implicazioni sulla qualità della vita. Si può dire che non solo la natura, ma anche l’essere umano è ridotto a mera materia a disposizione della tecnica che egli continuamente reinventa e potenzia.
Alla capacità di distruggere ciò che è prodotto da mani umane, gli esseri umani hanno aggiunto la capacità di distruggere anche ciò che prende forma indipendentemente dal fare umano, senza avvedersi del paradosso per cui, quel sapere scientifico cercato per acquisire una maggiore signoria sulla natura e dare maggiore stabilità alle cose umane ora comincia a distruggere lo stesso mondo costruito, perché distrugge le condizioni della vita. Il problema fondamentale sollevato dall’applicazione delle più recenti tecnologie è costituito dal forzare i limiti posti dalla natura, sia interna sia esterna all’essere umano, al punto da innescare processi di una tale portata da aprire spazi di problematicità non facilmente gestibili dalla ragione umana. Quando, infatti, l’agire tecnologico interviene sulla natura introducendo altre logiche nei processi morfogenetici, provocando nuove forme di energia o manipolando il codice genetico, allora la qualità dell’intervento umano si profila in termini veramente drammatici, poiché può accadere che i processi che sono stati provocati si evolvano secondo logiche del tutto non prevedibili, che possono sconvolgere, se non proprio distruggere, le condizioni della vita senza che si riesca a trovare correttivi, non essendo sempre possibile disfare ciò che è stato messo in atto.
A incrementare il livello di complessità con cui si profila il rapporto da intrattenere con la tecnologia è la necessità di dover continuamente investire sullo sviluppo tecnologico in quanto indispensabile per affrontare la questione ecologica. La ricerca di un sempre più raffinato sviluppo tecnico va praticata, però, nella piena consapevolezza della deriva tecnocratica che rischia di profilarsi, nel senso che la tecnica, per mezzo della quale gli esseri umani hanno cercato di guadagnare padronanza dei fenomeni naturali, ha finito per dare forma a una tecnosfera che, contraddittoriamente funzionale sia alla logica dell’industrialismo sia a quella dell’ecologismo, ci imprigiona in un’illusione di efficacia che occulta i limiti stessi della razionalità tecnica spesso incapace di prospettare soluzioni definitive a quei problemi che essa stessa provoca. Non solo la tecnica non ha fatto conseguire quella indipendenza dagli ecosistemi naturali di cui siamo parte, che ha rappresentato il sogno della filosofia del progresso, ma ha asservito tutto alla sua logica, costringendo il mondo umano entro un doppio vincolo di dipendenza (dalla natura e dalla tecnica) che complessifica l’organizzazione della vita sociale. Ora è la tecnica che predispone la qualità e la direzione del nostro agire, rendendo il mondo della vita sempre più dipendente dalle tecnologie. Se provoca la natura sulla base delle possibilità aperte dalla tecnica, e non secondo un progetto che sia indipendente dagli strumenti utilizzabili, allora l’essere umano da soggetto dell’agire diventa strumento delle possibilità della tecnica. A costituire oggi un problema considerevole per il pensiero è, quindi, la nuova qualità dell’agire umano conseguente alla nuova qualità dello sviluppo tecnologico e, con essa, il progressivo ridursi dell’essere umano a fondo a disposizione del progresso tecnico.
La tecnica è un dispositivo che rende il mondo qualcosa di strumentalizzabile, poiché più la tecnica si potenzia più le cose della natura e del mondo diventano mere risorse. In questa visione strumentale del mondo si arriva al punto che non esiste più nemmeno l’oggetto, inteso come ciò che pone innanzi la sua presenza al soggetto che lo considera: restano solo cose da usare, cioè cose che sono pensate essere a disposizione solo per essere usate e consumate. In questa visione strumentale la qualità essenziale della risorsa non è la durata, cioè il persistere nel tempo, ma l’ordinabilità, cioè l’essere a disposizione per l’uso e per il consumo. Viviamo in una cultura che alla permanenza preferisce la sostituibilità, dove gli enti diventano un fondo a disposizione di un’economia dell’uso in cui l’idea di riparare per conservare risulta essere antieconomica. Nell’economia moderna non la distruzione, ma la conservazione appare come una rovina, perché la durata degli oggetti conservati è il maggior impedimento al processo di una continua produzione di oggetti, la cui crescente accelerazione, su cui si regge l’economia del consumo, è la sola costante che rimanga valida quando tale processo abbia luogo.
Come dice il poeta Rilke, noi siamo esseri non solo arrischiati, cioè senza protezione alcuna come sono anche le piante e gli altri animali, ma anche arrischianti, poiché, essendo chiamati a inventare il mondo umano, andiamo continuamente oltre il dato per cercare forme ulteriori del vivere. Se l’essere arrischianti è un destino non evitabile, d’altra parte l’arrischiare ha necessità di una misura. La tecnologia, che risponde al bisogno di trovare protezione alla nostra vulnerabilità, consente la costruzione di un mondo umano, ma essa sta diventando più arrischiante di quanto sia maneggiabile dalla ragione umana. Siamo impreparati al potere assunto dalla tecnologia. Manca una saggezza; stiamo sconfinando in terreni che presentano una problematicità ontologica cui non siamo preparati. È come andare oltre le colonne d’Ercole, oltre il limite, dilagando nelle terre del sacro senza neppure avere più consapevolezza di esso.
Dallo sviluppo tecnologico non si po’ prescindere, ma il rapporto con la tecnica richiede una riflessione critica. Sarebbe necessaria una filosofia della tecnologia, che mediti sulla performatività dei dispositivi tecnologici e sulle implicazioni che il loro uso ha sulla vita umana, per trovare modi di uso che siano congruenti con una buona politica dell’esistenza. Diventa essenziale accompagnare la ricerca scientifica e tecnologica con lo sguardo vigile del pensiero critico per interrogarsi sul senso del nostro agire, sulle direzioni che prende l’uti...