Critica della retorica democratica
eBook - ePub

Critica della retorica democratica

  1. 126 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Critica della retorica democratica

Informazioni su questo libro

Un saggio lucido. Una storia lunga duemilacinquecento anni. Franco Cardini

Da Socrate a Bush, una riflessione disincantata sui limiti della democrazia e un invito alla ragione critica nell'epoca del pensiero unico e del 'fondamentalismo democratico', secondo i quali è inammissibile qualunque sistema economico e politico diverso dal nostro.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Critica della retorica democratica di Luciano Canfora in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Politica e relazioni internazionali e Saggi su politica e relazioni internazionali. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

1. «Iuxta propria principia»

Uno dei retaggi più disgustosi della propagan­da profusa al tempo della guerra fredda è il «fondamentalismo democratico». L’espressione, non felicissima ma sostanzialmente chiara, è di García Márquez. Indica l’arrogante uso di una parola («democrazia») che nel suo attuale esito racchiude e copre il contrario di ciò che etimologicamente esprime; e, insieme, l’intolleranza verso ogni altra forma di organizzazione politica che non sia il parlamentarismo, la compravendita del voto, il «mercato» politico.
Un corollario di tale fondamentalismo è la valutazione schematica e en gros di tutti gli altri ordinamenti politici. Il diverso dal modello parlamentare è il totalitario, è il male. Questo modo di vedere, e meglio sarebbe dire «di non vedere», la realtà ha colpito in tutte le direzioni, impedendo di comprendere la molteplicità del mondo quale si veniva articolando nel mezzo secolo successivo alla seconda guerra mondiale. È stato un danno innanzi tutto culturale, e perciò anche politico. Arroccati nel regno del «bene», i facitori di opinione guardavano al resto del mondo avvolgendosi nella coda come il Minosse dantesco, a significare il girone (metaforico, e talvolta non solo metaforico, se si pensa ai massacri Cia in Cile e Indonesia) in cui far sprofondare questo o quell’altro antagonista.
Dopo la fine dell’Urss, è stata la Cina, specie dopo Tienanmen, e nonostante i corteggiamenti strumentali del tempo di Nixon, l’oggetto privilegiato di questo sforzo di non-comprensione. Una voce di buon senso, critica, si è levata un paio d’anni fa. È la voce di uno studioso che non ha viaggiato solo «sul Tolomeo», per dirla con l’Ariosto, ma che forse ha avuto il torto, agli occhi dei «fondamentalisti», di scrivere, all’inizio degli anni Ottanta, I giganti malati1, libro non allineato, come all’epoca si pretendeva. Esso poneva infatti – come oggetti di analisi – sullo stesso piano il regno del «bene» e quello del «male»! Stiamo parlando non certo di un bolscevico, ma di Alberto Ronchey.
Scriveva dunque Ronchey a proposito della Cina, dopo Deng, e tentava di capire, non di sentenziare: «Più che propriamente comunista, il regime appare oggi come una sorta di collettivismo confuciano ammodernato». (Se si considera che Confucio fu tra i bersagli prioritari della «Rivoluzione culturale» maoista, il cammino percorso non è poco.) «È un ibrido di statalismo totalitario e mercantilismo, tra chiusura politica interna e apertura economica verso l’imprenditoria privata nazionale o straniera». (Inutile dire che la ricetta non è nuova, e per certi versi rassomiglia alla Nep, di buona memoria.) «A Pechino durano al potere gli eredi del dogmatico Mao e insieme del pragmatico Deng. Perché?».
La risposta parte proprio dall’evento propagandisticamente più sfruttato in Occidente, e lo affronta, significativamente, partendo da un aforisma di Deng: «In qualsiasi nazione, in qualsiasi epoca, c’è almeno l’uno per cento dei cittadini ribelle a qualsiasi autorità. Ma qui, fra un miliardo e duecento milioni di cinesi, l’uno per cento significa dodici milioni di ribelli sulle piazze».
Donde la domanda: «Come si governa dunque una sterminata nazione, con la prospettiva di dodici piazze Tienanmen in rivolta? Non c’è termine di paragone con i presupposti delle civiltà liberali nate in Gran Bretagna come in America e in Francia. E neanche proponibile sarebbe un paragone con Cuba». «Gli Occidentali hanno spesso interpretato gli eventi cinesi con i sistemi di giudizio e i parametri storici del mondo loro, anziché studiare la Cina iuxta propria principia. [...] Quella remota entità esiste come l’hanno fatta la storia più ­antica, la demografia moderna più accelerata nei tassi d’accrescimento, l’idrografia più calamitosa e la dominazione coloniale più dolorosa». «Forse anticipa, senza che sia prevedibile altrove una simile stabilità di governo benché dispotica, il futuro del Terzo Mondo investito dalla bomba demografica»2. Torneremo, alla fine di queste pagine, su questo punto capitale.
Per ora ci limitiamo a ricordare che già Erodoto, quando raccontò in pubblica lettura, in Atene, che, alla morte di Cambise e dopo la fine dell’usurpatore che gli succedette, qualcuno propose di «instaurare la democrazia in Persia», non fu creduto. E che, nel dialogo di George Cornewall Lewis sulla «migliore forma di governo» (1863), una delle obiezioni ricorrenti è che il sistema «parlamentare» (per fondamentalismo definito poi tout court «democratico») non è adatto indiscriminatamente ad innestarsi in qualunque civiltà e su qualunque terreno: senza che questo comporti, nelle parole del politico e storico inglese, quella spocchia di liberali razzisti alla Julius Schwarcz (1873), secondo cui la «democrazia» sarebbe appannaggio esclusivo della «razza bianca».
Del resto non sono gli stessi fondamentalisti «democratici» a ripetere, quasi incessantemente, che liberismo e liberalismo (loro dicono più rozzamente: capitalismo e democrazia) sono indissolubili?
Quanto in realtà fosse mera propaganda l’indignatio di cui il regime politico cinese è stato oggetto così a lungo, lo si è visto nello scorso ottobre, quando il presidente degli Stati Uniti si è precipitato in Cina a corteggiare il vertice del partito-Stato, onde ottenerne la neutralità nella dissennata guerra «contro il terrorismo» scatenata dagli Usa ai confini della Cina. La Cina è diventata a quel punto un ragguardevole, affidabile e apprezzato partner. Tienanmen non esiste più.
1 A. Ronchey, Usa-Urss, i giganti malati, Rizzoli, Milano 1981.
2 Id., L’ultima Cina nell’era di Jang, in «Corriere della Sera», 26 settembe 1999, p. 1.

2. Vincere le elezioni

Nel mese di novembre dell’anno 2000 si è verificato l’evento forse più importante del secolo che si è appena aperto. È stata imposta l’elezione a presidente degli Usa di George Bush jr., nonostante egli avesse perso le elezioni. A tal fine è stato impedito, attraverso un verdetto politicamente predeterminato della Corte Suprema degli Stati Uniti, il conteggio dei voti nello Stato della Florida, che – se ultimato e correttamente verificato – avrebbe segnato la sconfitta del candidato Bush.
Nessuno ha mai pensato che le elezioni presidenziali americane fossero una procedura «democratica». Anche coloro che, se richiesti di esprimersi in merito, lo sostengono, intimamente non ci credono. Ai tempi in cui Tocqueville, attento viaggiatore europeo, visitava gli Usa, prima della terribile carneficina della «guerra di secessione», l’esclusione dei neri dall’effettiva fruizione dei diritti politici (e in certi Stati anche civili) era un dato notorio e accettato. Basti ricordare il già citato brillante dialogo politico, pubblicato in Inghilterra, poco prima della guerra di secessione americana, dal grande statista e storico George Cornewall Lewis, Qual è la miglior forma di governo?. Dialogo nel corso del quale uno dei tre interlocutori, sostenitore dell’inevitabilità dell’oligarchia, nota che neanche negli Usa la democrazia esiste, visto che buona parte della popolazione lì è esclusa di diritto e di fatto dallo spazio politico: come – soggiunge l’acuto dialogante – accadeva in Atene a danno della popolazione non libera. Neanche Atene era una «democrazia». Tesi oggi di senso comune, ma che allora poteva suscitare scalpore, e che era stata anticipata proprio da Tocqueville in un memorabile capitolo sulle «antiche repubbliche» compreso nella seconda parte della Democrazia in America.
Ma questa è storia remota. È la prassi elettorale del tempo nostro che qui ci interessa. Com’è noto, i resoconti, nei giornali europei, delle presidenziali americane non danno mai, o quasi nascondono, i risultati conseguiti dai contendenti in termini di voti; viene data solo la percentuale. Si vuole nascondere (in Europa la cosa apparirebbe vergognosa, se risaputa) che la maggioranza degli aventi diritto al voto, negli Usa, non esercita tale diritto. Il meccanismo è semplice. Il certificato elettorale non viene fatto giungere ai singoli cittadini, come accade in Europa; sono i cittadini che debbono andarlo a richiedere, farsi parte sollecita. E una larghissima parte non lo fa: per molte ragioni, tra le quali spicca ovviamente l’assenteismo politico delle comunità povere e marginali. Peraltro, tra coloro che il certificato lo ritirano, moltissimi ugualmente non votano. Insomma il vincitore rappresenta una modesta minoranza del corpo civico. Ma questo, si dirà, è fisiologico e comunque (formalmente) non deriva né da coazioni né da divieti.
Il fatto veramente nuovo del novembre 2000 è invece il colpo di forza. È scattato, per la prima volta, il divieto di contare i voti: operazione che avrebbe determinato la sconfitta del candidato che doveva vincere. Questo colpo di stato (lo ha definito così lo stesso Al Gore in uno dei momenti più caldi del lungo braccio di ferro) è un inedito nella storia degli Usa. E siccome si tratta dei padroni del pianeta, nessun organo di stampa che conti, nell’attonita Europa, ha osato dire in modo aperto e martellante la sconvolgente verità; verità che avrebbe urlato se si fosse trattato di qualunque altro paese.
Infatti le implicazioni immediate di quel colpo di stato della Corte Suprema sarebbero molte e tutte antitetiche rispetto alla retorica pervasiva che presiede alla comunicazione e alla formazione dell’opinione pubblica nei paesi che contano. L’implicazione è che forze potenti esigevano quel presidente, e dovevano comunque averlo. La commedia elettorale s’era consumata alla bell’e meglio. Il gioco s’era inceppato, ma questo non doveva assolutamente modificare il risultato atteso.
Risultato atteso non per qualche ragione di dettaglio, ma per imporre scelte capitali quali il rifiuto del protocollo di Kyoto e il rilancio delle «guerre stellari». Il primo significa cassare con un solo colpo tutto ciò che i movimenti, di portata mondiale, che si battono per salvare l’ambiente, cioè la vita dell’umanità, dagli effetti del capitalismo incontrollato, avevano conquistato in anni di battaglie. Finito il timore di una vittoria del movimento comunista mondiale, era logico che l’attacco si rivolgesse contro quel generoso (e ingenuo) movimento, la cui predicazione veridica si coniuga con una angelica inclinazione a rivestire i panni perdenti della non-violenza. Andava spazzata via ogni illusione; e così è stato, già nei primi mesi della presidenza Bush jr. L’altro caposaldo era, se possibile, ancora più inquietante: era il proposito di schiacciare la Cina, considerata unico possibile antagonista al predominio mondiale degli Usa (l’Europa è militarmente un club addomesticato e innocuo). Già il 30 gennaio 2001, cioè appena venti giorni dopo l’entrata in carica di Bush jr., il Pentagono simulava la battaglia virtuale Usa-Cina a colpi di missili e «scudo spaziale», in previsione di un conflitto non virtuale ma vero, previsto, con beneficio d’inventario, per il 20171. Ma l’imprevisto attacco terroristico al cuore degli Usa (11 settembre 2001)2 ha fatto archiviare, per ora, questi folli scenari.
Nei luoghi decisivi del pianeta, gli Usa pilotano le elezioni e fabbricano il vincitore. Il caso più clamoroso e notorio, e di risonanza mondiale, fu la rielezione di ­Eltsin in Russia, in gara con Ziuganov, leader neo-comunista, possibile vinci...

Indice dei contenuti

  1. Prologo. Può la maggioranza avere torto?
  2. 1. «Iuxta propria principia»
  3. 2. Vincere le elezioni
  4. 3. Perdere le elezioni
  5. 4. Il plebiscito dei mercati
  6. 5. Il paradosso democratico
  7. 6. Luttwak, Hobsbawm, Aron: le democrazie oligarchiche
  8. 7. I «nuovi ricchi» non sono sbarcati da Marte
  9. 8. Il sistema misto: i «correttivi» della democrazia
  10. 9. Antonio Gramsci elItista integrale
  11. 10. Il papa e il professore
  12. 11. Per una critica della retorica democratica
  13. 12. Dall’«Élite» alla mafia
  14. 13. La parabola della sinistra: fine dell’utopia?
  15. 14. Nuovi sfruttati, nuove crisi
  16. 15. Da un settembre all’altro
  17. 16. Qualche idea sul nuovo secolo
  18. Per una conclusione