Cecità morale
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Cecità morale

La perdita di sensibilità nella modernità liquida

  1. 280 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Cecità morale

La perdita di sensibilità nella modernità liquida

Informazioni su questo libro

Tutti, visibili e invisibili, viviamo la medesima, «umiliante ed esasperante sensazione di essere condannati ad affrontare in solitudine minacce comuni».

A sostenerlo è Zygmunt Bauman in un bel dialogo con Leonidas Donskis.Franco Marcoaldi, "Robinson – la Repubblica"

Quando il dolore morale perde la salutare funzione di avvertimento, di allarme e di spinta ad aiutare il nostro simile, inizia il tempo della cecità morale.

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Informazioni

1.
Dal Diavolo ai tipi «terribilmente normali»

Leonidas Donskis Dopo il ventesimo secolo tutti noi – specialmente un europeo dell’Est come me – tendiamo a definire le manifestazioni del male in termini demoniaci. In Europa occidentale e America del Nord gli studiosi umanistici e di scienze sociali guardano soprattutto all’ansia di influenza, mentre nell’Europa orientale di solito si soffermano principalmente sull’ansia di distruzione. Quanto all’Europa centrale, l’unico elemento che accomuna la sua concezione della modernità alla visione apocalittica dell’Est Europa è l’ansia di distruzione (fisica)2. Ma se a est il lato oscuro della modernità si manifesta come forza assolutamente irrazionale che spazza via la fragile apparenza di razionalità e civilizzazione, nella letteratura occidentale del Novecento emerge un tipo del tutto diverso di modernità: una modernità razionale che sottomette ogni cosa, anonima, spersonalizzata, che scinde prudentemente in sfere separate la responsabilità e la razionalità, frammenta la società in atomi e attraverso la propria iperrazionalità si rende incomprensibile alla gente comune. Se nell’Europa orientale il profeta della modernità apocalittica è Michail Bulgakov, nell’Europa centrale i suoi equivalenti sono senza dubbio Franz Kafka e Robert Musil.
Nella conferenza sulla «storia naturale del male» che hai tenuto all’Università Vytautas Magnus di Kaunas, hai fatto nuova luce sui «demoni e spiriti» del male, richiamando il caso di Adolf Eichmann a Gerusalemme, efficacemente descritto da Hannah Arendt in un provocatorio saggio3. Al processo tutti si aspettavano di trovarsi di fronte un personaggio assurdo e patologico, un vero e proprio mostro, e perciò rimasero totalmente spiazzati e delusi dalle dichiarazioni degli psichiatri del tribunale secondo cui Eichmann era in realtà una persona assolutamente normale e avrebbe potuto tranquillamente essere un ottimo vicino, un marito dolce e fedele, un padre di famiglia esemplare e un cittadino modello. Sono convinto che tu abbia offerto in tal modo uno spunto molto significativo e tempestivo, vista la nostra diffusa propensione a spiegare le esperienze traumatiche demonizzando e rappresentando in termini patologici chiunque abbia a che fare con un crimine su larga scala. In un certo senso sei molto vicino alla chiave di lettura proposta da Milan Kundera, nella raccolta di saggi Un incontro, riguardo al giovane pittore Gamelin, il protagonista del romanzo di Anatole France Gli dèi hanno sete: Gamelin diventa un fanatico rivoluzionario, ma nelle situazioni e nei rapporti che nulla hanno a che fare con la Rivoluzione francese e con coloro che ne furono i padri fondatori (i giacobini) non si comporta affatto come un mostro. E sebbene Kundera ricolleghi sottilmente questo tratto dell’animo di Gamelin a ciò che egli definisce le désert du sérieux o le désert sans humour (un deserto che nasce dalla serietà o dalla mancanza di ironia), contrapponendo a Gamelin il suo scettico vicino Brotteaux, l’homme qui refuse de croire, che il giovane pittore spedirà sulla ghigliottina, l’idea di fondo è chiarissima: un uomo perbene può albergare dentro di sé un mostro. Dove vada a finire quel mostro in tempo di pace, e se continuiamo a portarlo dentro di noi, è un’altra questione.
Che cosa accade, al mostro che vive dentro di noi, in questi tempi liquidi, oscuri, in cui spesso rifiutiamo di riconoscere l’esistenza dell’Altro, di vederlo, di ascoltarlo, e optiamo per un’ideologia cannibalistica, sostituiamo a una situazione esistenziale faccia-a-faccia e sguardo-nello-sguardo un sistema di classificazione onnicomprensivo che consuma vite e personalità trattandole alla stregua di dati empirici, prove, statistiche?
Zygmunt Bauman Non mi sento di attribuire il fenomeno della «demonizzazione del male» alle peculiarità dell’«europeo dell’Est» condannato a vivere da secoli lungo il limen che separa e lega un «centro di civiltà» – la parte occidentale d’Europa, con le sue «conquiste moderne» – e un vasto hinterland visto e vissuto – in contrapposizione al primo – come «non civilizzato» e «bisognoso di civilizzazione» (in quanto non evoluto, arretrato, in ritardo). Finché le origini del bene continuano a essere divinizzate, come in tutte le fedi monoteistiche, il male dev’essere demonizzato: la figura del «Diavolo» sta a indicare l’inconciliabilità tra la presenza del male nel mondo in cui viviamo e sopravviviamo e la figura di un Dio che ama, padre benevolo e clemente e custode dell’umanità, fonte di ogni bene, che è il presupposto fondamentale di qualsiasi monoteismo. L’origine del male, la perenne domanda unde malum – puntualmente accompagnata dalla tentazione di individuare, rivelare e descrivere una fonte di malvagità etichettata come «Diavolo» – assilla da duemila anni le menti dei teologi, dei filosofi e di tanta parte della loro clientela anelante a una Weltanschauung che sappia offrire significato e verità.
L’aver assegnato a una «modernità» fin troppo visibile (prodotto eminentemente umano, riconosciuto come scelta umana e come modo di pensare e agire adottato e praticato dagli uomini) il ruolo fino ad allora riservato a Satana – invisibile ai più e visto solo da pochi eletti – è stato solo uno dei tanti aspetti, conseguenze ed effetti collaterali del «progetto moderno» di affidare la gestione delle cose del mondo a un management umano. Poiché questo progetto ereditava in tutto e per tutto l’atteggiamento rigorosamente monoteistico da secoli di dominio ecclesiastico, il cambiamento si ridusse a sostituire alle vecchie entità (sacre) nuove entità (profane) che pur con nomi diversi rimanevano all’interno di un modello immutato da tempo immemorabile. A partire da quel momento la risposta alla domanda unde malum fu cercata bussando alla porta di inquilini terreni, di questo mondo. Uno di questi inquilini era la «massa» plebea, il popolo non ancora totalmente civilizzato (purificato, riformato, convertito), che si portava dietro il retaggio di un’educazione premoderna fatta di «preti, vecchie e proverbi» (come i filosofi illuministici definivano l’istruzione religiosa, i saperi familiari e le tradizioni locali); l’altra porta cui si bussò fu quella degli antichi tiranni reincarnatisi come moderni dittatori, despoti che a parole (magari con le migliori intenzioni) volevano promuovere la pace e la libertà, ma ricorrendo alla coercizione e alla violenza. Tutti coloro che abitavano a questi recapiti – sia che si trovassero davvero all’opera in quel momento, sia che fossero solo frutto di immaginazione – furono esaminati minuziosamente, rivoltati da ogni lato, passati ai raggi X, psicanalizzati, sottoposti a visite mediche e analisi cliniche, rilevando così malformazioni di ogni sorta, sospettate di creare o favorire le inclinazioni peggiori. Perciò, dal punto di vista pratico non ne venne fuori granché. La somministrazione delle terapie prescritte eliminò o ridusse forse qualcuno di quei presunti difetti, ma la questione dell’unde malum rimase, in quanto nessuna delle cure proposte si dimostrò risolutiva, e anzi si vide chiaramente che oltre alle sorgenti di male immediatamente evidenti ce n’erano altre, e che molte di esse – forse la maggioranza – rimanevano ostinatamente nascoste. Inoltre, quelle sorgenti cambiavano di continuo; ogni nuovo status quo sembrava possedere le proprie sorgenti di male, e ogni tentativo volto a deviare e/o cercare di arginare e bloccare le sorgenti già note, o presunte tali, produceva un nuovo stato di cose, magari risparmiato dagli odiosi mali del passato, ma non certo dagli effluvi tossici di nuove fonti, fino ad allora sottovalutate, ignorate o ritenute insignificanti.
Nel capitolo post-diabolico della lunga ricerca dell’unde malum (che è ben lungi dall’essersi conclusa), si è dedicata inoltre grande attenzione non solo al «dove» ma anche – in sintonia con lo spirito moderno – al «come», alla tecnologia del male. Le risposte si possono sostanzialmente suddividere in due categorie, che fanno capo rispettivamente alla coercizione e alla seduzione. Le espressioni forse più estreme si trovano, per quanto riguarda la prima categoria, in 1984 di George Orwell e, per la seconda categoria, in Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Entrambi questi tipi di risposta sono nati a occidente; tuttavia, nel caso della visione di Orwell (che nasce come reazione diretta all’esperimento comunista russo) è facile rintracciare una stretta affinità con il discorso europeo-orientale risalente a Fëdor Dostoevskij e, ancora più indietro, ai tre secoli di scisma tra la chiesa cattolica, occidentale, e la chiesa ortodossa, orientale; proprio a est, del resto, la sfiducia e la resistenza al principio delle libertà personali e dell’autonomia individuale – due attributi caratteristici della «civiltà occidentale» – erano particolarmente forti. La visione di Orwell appare molto più ispirata all’esperienza storica dell’est che a quella dell’ovest; essa intendeva anticipare, in fin dei conti, la forma che l’Occidente avrebbe assunto una volta investito, conquistato, sottomesso e asservito dal dispotismo di stampo orientale; e la sua immagine chiave era quella di un volto schiacciato dallo stivale militare. La visione di Huxley era invece una reazione preventiva al probabile avvento di una creazione eminentemente occidentale come la società dei consumi; anche in questo caso, il tema principale è l’asservimento di chi è senza potere, ma in questo caso si tratta di una «servitù volontaria» (secondo un’espressione coniata tre secoli prima, a detta di Michel de Montaigne, da Étienne de La Boétie) in cui si usa la carota molto più del bastone, si procede attraverso la tentazione e la seduzione, più che la violenza, il comando e la coercizione brutale. Va ricordato però che entrambe queste utopie erano state precedute da Noi di Evgenij Zamjatin, che aveva già prefigurato una miscela, un utilizzo simultaneo e complementare, di entrambe le «metodologie di asservimento» in seguito elaborate separatamente da Orwell e Huxley.
Hai assolutamente ragione a mettere in evidenza anche un’altra faccia della questione – apparentemente interminabile e infinita – dell’unde malum, che nella nostra epoca moderna, post-diabolica, sopravvive con immutato, anzi accresciuto vigore rispetto alle epoche in cui il Diavolo tesseva i suoi intrighi, tra esorcismi, cacce alle streghe e roghi. È il tema delle motivazioni della malvagità, della «personalità malvagia» e del mistero (a mio avviso cruciale) delle azioni mostruose non commesse da mostri, degli atti ignobili a fini nobili (come ha notato Albert Camus, i più atroci crimini sono stati commessi dall’uomo in nome del bene più grande...). A tale proposito trovo molto appropriato e tempestivo che tu abbia chiamato in causa Kundera, ricordando la profetica visione di Anatole France, che a posteriori può essere considerata il prototipo di tutte le successive variazioni e oscillazioni delle spiegazioni proposte nel tempo dalle scienze sociali.
Anche i lettori del ventunesimo secolo rimarranno sconcertati e affascinati dal romanzo Gli dèi hanno sete di Anatole France, che pure risale al 19124. Molto probabilmente anch’essi, come me, si sentiranno sopraffatti dall’ammirazione per un autore che non solo è stato capace – come direbbe Milan Kundera – di «strappare il sipario della preinterpretazione» che rimaneva «sospeso davanti al mondo», nell’intento di liberare «i grandi conflitti umani dalla semplicistica interpretazione che li riconduce alla lotta fra il bene e il male, [per] comprenderli alla luce della tragedia»5 (proprio questa è, per Kundera, la missione del romanziere e la vocazione che conduce a scrivere un qualsiasi romanzo), ma che ha anche ideato e collaudato, a beneficio di lettori che ancora dovevano nascere, gli strumenti per strappare sipari che ancora non c’erano, ma che sarebbero stati alacremente intessuti e appesi «davanti al mondo» dopo il completamento del suo romanzo, e ancor più dopo la sua morte...
All’epoca in cui Anatole France posò la penna e diede un ultimo sguardo al romanzo appena finito, nessun dizionario, francese o di altre lingue, riportava ancora voci come «bolscevismo», «fascismo» o «totalitarismo», e i nomi di Stalin o Hitler non comparivano in alcun libro di storia. L’attenzione di Anatole France era concentrata, come hai già detto, su Évariste Gamelin, giovane artista di grande talento e di belle speranze, disgustato da Watteau, Boucher, Fragonard e altri dittatori del gusto popolare, di cui Gamelin spiegava «il cattivo gusto, la brutta forma, il cattivo disegno», la totale mancanza «di buono stile [...] [e] della linea pura», l’assenza di «naturalezza» e «verità», l’amore per «maschere, fantocci, cenci e smorfie» con la disponibilità a «lavorare per dei tiranni e per degli schiavi». Il giovane pittore profetizzava che «fra cent’anni, tutti i quadri di Watteau saranno miseramente finiti nei solai», e che «nel 1893 gli studiosi di pittura copriranno con i loro abbozzi le tele di Boucher». La Repubblica francese – che all’epoca era solo una tenera, incerta e fragile figlia della Rivoluzione – sarebbe cresciuta fino a recidere, una dopo l’altra, sia questa che le altre teste dell’idra della tirannide e della schiavitù. Non ci sarebbe stata pietà per chi cospirava contro la Repubblica, né libertà per i nemici della libertà, né tolleranza per i nemici della tolleranza. Ai dubbi e all’incredulità di sua madre Gamelin rispondeva senza esitare: «Confidiamo in Robespierre: egli è virtuoso. Ma speriamo soprattutto in Marat, che ama il popolo, sa discernere i suoi veri interessi e li serve. Egli fu sempre il primo a smascherare i traditori, a sventare i complotti». In una delle sue rare notazioni di autore, Anatole France spiega e condanna le idee e le gesta del suo eroe e dei suoi simili come «sereno fanatismo» di «uomini di bassa condizione che avevano distrutto la regalità, rovesciando il vecchio mondo». Emil Cioran, ripercorrendo il cammino che da giovane fascista rumeno lo aveva condotto a diventare un filosofo francese, così riassumeva la sorte dei giovani ai tempi di Robespierre e Marat, e anche di Stalin e Hitler: «La cattiva sorte è il loro destino. Sono loro che proclamano la dottrina dell’intolleranza e che la mettono in pratica. Sono loro che hanno sete – di sangue, di tumulti, di barbarie»6. Tutti i giovani? Soltanto loro? E soltanto ai tempi di Robespierre o di Stalin? Tutt’e tre queste ipotesi suonano palesemente sbagliate.
Quanto apparirebbe sicuro e confortevole, accogliente e amichevole il mondo, se a compiere atti mostruosi fossero sempre e soltanto dei mostri. Dai mostri siamo ben protetti; perciò possiamo sentirci al sicuro dalle azioni malvagie che sanno minacciare e realizzare. Per scovare gli psicopatici e i sociopatici abbiamo gli psicologi; per sapere dove si moltiplicano e si concentrano abbiamo i sociologi; per condanna...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. L’elusività del male
  2. 1. Dal Diavolo ai tipi «terribilmente normali»
  3. 2. La crisi della politica e la ricerca di un linguaggio per la sensibilità
  4. 3. Tra paura e indifferenza: la perdita di sensibilità
  5. 4 L’università come prodotto di consumo: lo smarrimento della ragion d’essere e la perdita dei criteri di valutazione
  6. 5. Il tramonto dell’Occidente e noi