Bari calling
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Bari calling

  1. 168 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Bari calling

Informazioni su questo libro

Bari calling è un racconto generazionale, una irriverente ballata rock ispirata dall'unica città al mondo che può vantare una squadra di calcio declinata al maschile e al femminile: il Bari o la Bari.

«E se fossimo la generazione fuori tempo massimo rispetto a tutti i grandi eventi della storia? Nel 1968 avevo quattro anni, ne avevo cinque quando andammo sulla luna, sei la notte di Italia-Germania, dieci quando ci fu il referendum sul divorzio. Avevo sempre dieci anni al tempo dell'austerity e delle domeniche a piedi, ancora meno quando a Bari ci fu il colera e nessuno dei grandi mangiò più le cozze crude. Nel 1977, nel periodo dei movimenti studenteschi, avevo tredici anni. Non ero nato quando Elvis andò per la prima volta in televisione, né quando ammazzarono Kennedy, avevo quattro anni quando Tommie Smith alzò il pugno guantato di nero. Ne avevo solamente due, forse meno, quando Bob Dylan scrisse Like a Rolling Stone. Tutte cose che mi sono perso e che avrei voluto vivere da adulto. E invece non c'ero. Mi riconosco il solo merito di aver visto tutte le partite di Totti e aver urlato in tutti gli stadi del mondo con Bruce Springsteen.»

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Informazioni

Print ISBN
9788858140581
eBook ISBN
9788858141762

TRE

Bari, 26 marzo 2011, ore 8

Mia madre è morta da meno di mezz’ora.
C’ero solo io con lei. Una sorta di risarcimento: nel momento preciso in cui era morto mio padre non c’ero, non ce l’avevo fatta ad arrivare in tempo. Mi ero scusato con lui quando era già stato composto nella bara e, per un attimo, eravamo rimasti soli. L’ho guardato e gli ho detto: «Papà, io c’ho provato. Ho proprio fatto del mio meglio, credimi». In realtà, non mi riferivo al fatto che ero arrivato tardi, era un discorso più generale.
Mia madre invece mi ha aspettato.
Ha aspettato che io e mio fratello arrivassimo da Roma, la sera prima. Ha atteso che mi svegliassi al piano di sotto, a casa di mia sorella. Che dicessi a mio fratello «Beh, io intanto vado a vedere com’è la situazione». Che salissi al piano di sopra. Che mi mettessi vicino al suo letto, mentre il respiro si faceva improvvisamente affannoso. Che le prendessi la mano.
E poi è morta.
Ho chiamato la Corista di Prince, a Roma. Ho chiamato tutti quelli che erano ancora al piano di sotto. Sono subito arrivati e l’abbiamo guardata tutti insieme. E poi ci siamo fatti un bel pianto silenzioso tutti insieme.
Per qualche minuto è stato un quadro molto intimo, composto. Persino struggente, anche se ammorbidito dalla consapevolezza di essere al cospetto della fine di una vita lunga e bella, e soprattutto del fatto che mia madre, la Signora Maria, dopo che era morto il Professore, sognava unicamente di morire a sua volta, certissima che quello era l’unico modo per rivedere il Professore e continuare a fare ciò che avevano fatto per sessant’anni: stare insieme.
Poi, quel tempo tenero e discreto è precipitosamente finito ed è arrivato il momento di Franzi e Luisa.
Mia sorella Franzi (si chiamerebbe Francesca Romana ma è sempre stata chiamata Franzi perché così si chiamava la mia nonna paterna che era austriaca e che rappresenta l’unico caso al mondo di donna emigrata da Vienna a Gioia del Colle) e Luisa sono le migliori organizzatrici non professioniste di matrimoni e funerali.
Franzi è più adatta ai giorni lieti. Ha uno stile semplice e asciutto: il matrimonio diventa sostanzialmente il suo, gli sposi sono presenze incidentali, il prezzo da pagare all’essenzialità di tutto il resto; ai genitori degli sposi viene riservato il ruolo che si meritano: semplici invitati, in alcuni casi paganti. Per il resto fa tutto lei: chiesa, municipio, fiori, piante, prete, ufficiale civile, partecipazioni, lista nozze, musica, pranzo, cena, cocktail, cocktail rinforzato (cioè, si mangia, anche se non moltissimo), menu, isola dei frittini, carretto del gelato, quello che fa la mozzarella dal vivo, vini, spumanti, champagne, caffè e open bar, torta ad un piano (cioè «stesa», ritenuta molto elegante), torta a due piani (tollerata), torta a più piani (ritenuta cozzalissima, termine barese che sta per «molto cafone»), aperitivo, colazione, cerimonia con festa subito dopo, cerimonia con festa il giorno dopo, cerimonia e basta, temutissime bomboniere, vestito dello sposo, vestiti della famiglia dello sposo e, ovviamente, vestito della sposa.
Sin dal primo giorno (che lei fa coincidere non con l’annuncio vero e proprio del matrimonio ma con la semplice espressione del desiderio, da quando cioè uno dei due malcapitati osa dire «Certo, un giorno mi piacerebbe sposarmi con Tizia o con Caio»), Franzi sceglie il suo avversario e dichiara guerra alla famiglia della parte opposta, quegli esseri umani di rango minore immeritatamente baciati dalla fortuna di potersi imparentare con la nostra famiglia attraverso il solito, banale, espediente del matrimonio tra un loro misero discendente e uno di noi eletti. Franzi gioca d’anticipo su tutto, li frega sul tempo su ogni decisione, li emargina, li schianta. Su ogni cosa dice «sta già pensato», ogni questione è stata già «spicciata», è sempre «tutt’apposto, non vi preoccupate».
Non esiste in natura persona capace di opporsi alle volontà matrimoniali di Franzi. È uno dei motivi per cui mi sono sposato due volte: per poter dire la mia su qualcosa. La prima volta non ho aperto bocca e alla fine Franzi ha benevolmente acconsentito che partecipassi alla cerimonia e che venisse anche Valentina. La seconda volta, io e la Corista di Prince abbiamo approfittato di una sua distrazione, e siamo riusciti a scegliere la musica. Il suo lavoro finisce quando se ne sono andati tutti. A quel punto si siede, scende dal suo tacco 12, si accende una sigaretta, butta la cenere per terra nonostante la presenza di decine di portacenere e dice: «Beh, mi sembra che sia stato tutto perfetto».
Ed è vero.
Franzi avrebbe una solida preparazione anche in materia di funerali, ma su questo riconosce la superiore esperienza di Luisa e, miracolosamente, si ritaglia un ruolo di contorno, da gregario del cordoglio.
Luisa Giorgio in Gemma, da Toritto, un paesone vicino Bari. Per molti solo «la signora Geemm» (a Bari la vocale finale non si è probabilmente mai udita ma solo intuita, una sorta di presenza discreta: si sa che esiste, ma non si pronuncia). Era entrata nella vita della mia famiglia come amica di mia sorella Laura, ma ci volle poco per capire che quella definizione era riduttiva: in breve per me diventò un membro non ufficiale della famiglia. Già conosciuta come «la Emanuelle Nera di Porto Cesareo» sin dalla fine degli anni Settanta, quegli anni in cui d’inverno ci si sparava per strada e, d’estate, le ragazze sperimentavano abbronzature spavalde, cospargendosi con la temibile Lancaster, ignare di buco dell’ozono e raggi UVA. Il soprannome era sacrosanto: Luisa aveva un corpo mozzafiato e aveva esaurito la Lancaster sin dai primi di maggio, quando il resto dei comuni mortali guardava ancora i trailer dell’estate che da lì a qualche settimana sarebbe esplosa, prima negli stabilimenti baresi e poi, più giù, sulle coste eternamente rivali di un Salento assai più pionieristico di quello attuale.
Quando si raccontava, Luisa Gemma amava definirsi una «persona discreta». Qui bisogna intendersi. Nell’epoca pre-Luisa, si definiva «discreto» un essere umano poco propenso al dialogo, sobrio nei comportamenti e nel vestiario, abbottonato nei sentimenti e nelle esternazioni, forse anche un po’ timido, pudico soprattutto nella narrazione di sé. Nell’epoca conosciuta come d.L. (dopo Luisa), il concetto di discrezione si era radicalmente trasformato, sino a identificare una donna di evidente e sfrontata bellezza, amante del maculato in ogni foggia, proprietaria di un parco scarpe con tacco secondo solo a quello di Imelda Marcos, collezionista di anelli, bracciali e collane in vari metalli, straordinaria conversatrice, depositaria di infinita aneddotica, padrona e despota di interi stabilimenti balneari, cuoca sublime e collerica, amatissima professoressa di lettere.
E soprattutto Master of Ceremonies di ogni funerale familiare e massima esperta delle tradizioni baresi in materia di esequie. Svolge il ruolo con un sacro rispetto per il defunto (nel caso specifico, la Signora Maria), nella certezza che sia ancora lì, che non sia già in viaggio verso qualche aldilà ma, piuttosto, in una fase di passaggio: un po’ morto ma non del tutto, una transizione molto delicata in cui va accompagnato, rispettato e soprattutto confortato sotto vari aspetti.
Ha avuto una maestra straordinaria: tale Francesca, detta Checchenella.
In quel di Toritto, Checchenella svolgeva una funzione di centrale importanza: era lei a dover stabilire l’esatto momento della morte, nel senso del preciso istante del distacco dell’anima dal corpo. Non era una funzione sostitutiva del medico legale o del prete: no, no, loro avrebbero potuto sostenere il loro grigio ruolo ugualmente, e la burocrazia dello Stato e il conforto dei sacramenti sarebbero stati assicurati. No, il ruolo di Checchenella era un altro: doveva stabilire il momento esatto in cui, ai familiari del defunto, veniva consentito di esprimere il dolore della perdita senza amareggiare ulteriormente il caro estinto, che era probabilmente già incazzato di suo per il fatto di stare per morire o, in alcuni casi, essere già morto.
Per garantire questo sereno passaggio, Checchenella (anche in questo caso la vocale finale non va pronunciata) veniva chiamata al capezzale nelle ore dell’agonia. Visitava il futuro defunto imponendogli le mani e rilevando, a suo dire, determinanti parametri vitali. Su questo emetteva una prima prognosi sul tempo mancante. Quando si avvicinava l’ora X, ritornava al cospetto del moribondo che l’aveva educatamente aspettata in ossequio alla prognosi.
Quello era il momento più delicato.
Poteva accadere, infatti, che, a un certo punto, il cuore del moribondo cessasse di battere, che il respiro si fermasse, che non ci fosse più battito al polso, che gli occhi rimanessero spalancati e la bocca aperta, che tutto fosse immobile. Sostanzialmente, che il poveraccio fosse morto.
A quel punto, di fronte a questi indizi gravi, precisi e concordanti, qualcuno degli astanti, magari i più impressionabili o i più superficiali, quelli abituati a giudicare sempre e solo dalle apparenze, poteva lasciarsi andare al pianto, se non al grido di dolore. E lì toccava a Checchenella ristabilire la verità: «Ciiittt (zitti)», diceva con assoluta autorità, «statevi zitti, lui sta ancora qua, non fatevi sentire che piangete... che poi se ne va triste». Il tempo si fermava e tutti i presenti nella stanza dipendevano da lei. Fissava il suo paziente potenzialmente morto con amorevole fermezza. Poi chiudeva gli occhi. A un certo punto, nel silenzio assoluto, sentenziava: «Mo sì. Se n’è sciuut: mo potet’ chiagnn» (Adesso sì. Se n’è andato: adesso potete piangere). E il dolore poteva ufficialmente iniziare.
Nel caso della Signora Maria, avevamo fatto a meno di Checchenella e in un impeto di autodeterminazione e indipendenza avevamo autonomamente stabilito che mia madre era inequivocabilmente morta e che quindi eravamo autorizzati a versare qualche silenziosa lacrima, peraltro sicuri che lei fosse già, felicissima, in viaggio verso il Professore.
Allo scadere dei trenta minuti di composto cordoglio consentito, Luisa assunse il comando delle operazioni, partendo dalla priorità assoluta: «Bisogna pensare al Conforto. Che volete mangiare?». Franzi le venne in soccorso: «Ho già ordinato la focaccia e le mozzarelle, mettiamo un po’ di prosciutto tagliato alla barese, io comunque avevo già fatto fare un tortino di carciofi che quello basta che lo riscaldi ed è fatto; ho fatto pulire pure le rape che poi, se vuoi fare le orecchiette, ci mettiamo un attimo; tra poco portano le salsicce, ho fatto fare quelle piccole che uno se le può mangiare anche tipo finger food; la mortadella c’è, gli involtini di peperoni pure, ci sarebbe anche una teglia di melanzane alla parmigiana ma quella la terrei per stasera quando arriveranno gli altri da Roma. Mo chiamo Isa per i dolci e Arciuli per il rotolo con la marmellata di visciole che quello piace a tutti».
Luisa annuiva e dirigeva: «Fai apparecchiare di sotto, a casa di Laura. Metti tutto sul tavolo che poi ognuno, quando ha fame, va e mangia. Le orecchiette ci vogliono ma me la vedo io. Mentre venivo ho già chiamato le pompe funebri: una bara sobria ma luminosa come era la Signora Maria, pace all’anima sua. L’interno della bara bianco, non viola, mi raccomando. Mo, tra poco, appendono i primi manifesti per strada; vanno fatti sennò sembra che noi alla Signora Maria non le volevamo bene. Il necrologio alla ‘Gazzetta’ fatelo voi. Io mi occupo con Franzi e Laura...

Indice dei contenuti

  1. UNO
  2. DUE
  3. TRE
  4. QUATTRO
  5. CINQUE
  6. SEI
  7. SETTE