Il sacerdote
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Il sacerdote

  1. 20 pagine
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Sarebbe sbagliato parlare al singolare del sacerdozio romano, o del potere sacerdotale romano. Queste funzioni non possono essere esaminate che sotto la visuale della pluralità, e in rapporto a un contesto sociale preciso. Le situazioni religiose, a Roma erano multiformi, e quindi le competenze sacerdotali numerose. Così, la ricchezza delle figure romane del sacerdozio è lontana dall'esaurirsi nella distinzione tra quelli che sono detti sacerdoti (sacerdotes) e quelli che non portano questo titolo, o tra sacerdozi pubblici e privati. Quale che fosse la categoria in causa, essa comportava sempre degli attori cultuali alcuni dei quali erano detti sacerdoti, altri no. Inoltre, accanto al potere sacerdotale di Roma propriamente detta esisteva una moltitudine di cariche sacerdotali nelle varie città.Acquista l'ebook e continua a leggere!

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Informazioni

Argomento
Storia
Categoria
Storia antica

Il sacerdote

Sarebbe sbagliato parlare al singolare del sacerdozio romano, o del potere sacerdotale romano. Queste funzioni non possono essere esaminate che sotto la visuale della pluralità, e in rapporto a un contesto sociale preciso. Le situazioni religiose, a Roma erano multiformi, e quindi le competenze sacerdotali numerose. Così, la ricchezza delle figure romane del sacerdozio è lontana dall’esaurirsi nella distinzione tra quelli che sono detti sacerdoti (sacerdotes) e quelli che non portano questo titolo, o tra sacerdozi pubblici e privati. Quale che fosse la categoria in causa, essa comportava sempre degli attori cultuali alcuni dei quali erano detti sacerdoti, altri no. Inoltre, accanto al potere sacerdotale di Roma propriamente detta esisteva una moltitudine di cariche sacerdotali nelle varie città.
In altre parole, parlare dei sacerdoti a Roma comporta sempre una serie di distinzioni e di precisazioni: bisogna soprattutto decidere se trattare l’argomento in relazione ai Romani in quanto cittadini o in quanto abitanti di Roma, senza dimenticare che, progressivamente, la maggior parte dei cittadini romani non risiedette più a Roma, ma nelle città dell’impero, che erano dotate di istituzioni religiose proprie. Per ragioni non solo di spazio, ma anche di comprensione, parleremo del sacerdozio prevalentemente nel contesto dell’Urbe, il che permette di saldare dal punto di vista cronologico la Repubblica e l’Impero, e di proporre delle figure sacerdotali una descrizione abbastanza complessa, che possa servire da modello per la maggior parte delle città di cultura e di diritto romani. Bisogna tuttavia ricordare, ancora una volta, che, se adottiamo il punto di vista di un contemporaneo di Cicerone o di Marco Aurelio, dovremo sempre aver presente l’esistenza, a Roma, di sacerdozi e di funzioni religiose diverse dai sacerdozi romani in senso stretto. Un romano poteva incrociare e frequentare quotidianamente i responsabili religiosi di comunità straniere stabilitesi sulle rive del Tevere, sia che si trattasse di Egiziani, di Ebrei o di Greci della Siria o dell’Asia Minore, comunità che esercitavano tutte, d’altra parte, forme di irradiamento spirituale e i cui culti diventarono spesso, secondo gli eventi, parte integrante del patrimonio religioso del popolo romano: prima della vittoria definitiva del cristianesimo, il numero e la natura dei sacerdoti romani non ha mai cessato d’arricchirsi. Bisognerà inoltre, ricordarsi del carattere provvisorio e parziale di qualsiasi catalogo delle figure sacerdotali romane.
La maggior parte della nostra esposizione riguarderà i culti pubblici, non perché essi siano predominanti rispetto alle altre espressioni cultuali dei Romani, ma perché hanno influenzato per più tempo e in modo più incisivo la popolazione nel suo complesso; o, più semplicemente, anche perché sono quelli che conosciamo meglio. Il modello offerto dalla vita religiosa pubblica di Roma può essere comunque applicato, senza troppi rischi, alla vita cultuale privata, quella che si svolgeva nei «collegi» o in famiglia, come pure a quella delle città dell’impero, per quanto poco entrino in gioco le forme tradizionali della religione.
Dopo queste premesse, sorge un primo interrogativo. Chi possiamo chiamare sacerdote a Roma? Abbiamo già detto che non basta, neppure all’interno del quadro tradizionale, designare come tale il personaggio che porta il nome di sacerdote, sacerdos, come per esempio nel cristianesimo: sacerdoti romani erano tutti coloro che effettuavano atti cultuali per una determinata comunità. Ma la definizione è ancora incompleta; conduce, in particolare, a un paradosso: coloro che vi corrisponderebbero meglio sarebbero non quelli che venivano denominati sacerdotes, ma addirittura i magistrati o i patres familias. I sacerdoti propriamente detti avevano una qualità in più: erano i depositari del diritto sacro, che erano i soli ad amministrare e a sviluppare, e in questo ministero erano necessariamente assistiti dal senato, che, da parte sua, non esercitava alcuna attività cultuale. È preferibile, di conseguenza, considerare il sacerdozio come l’esercizio di un’autorità religiosa, il cui potere d’iniziativa comprende gli aspetti rituali del culto o il controllo del sistema religioso. Per meglio comprendere l’originalità e la ricchezza di questo potere sacerdotale, definiremo per prima cosa tutti i ruoli del sacerdote che si possono individuare a Roma; esamineremo, in un secondo tempo, la natura dei comportamenti sacerdotali.
Chi è sacerdote a Roma? Come nella maggior parte delle religioni antiche, una prima risposta appare semplice: il culto e il potere sacerdotale erano anzitutto un attributo maschile, sia sul piano pubblico che su quello privato. Celebrato a nome di una comunità, l’atto sacerdotale non poteva essere affidato a una donna, incapace a rappresentare altri che se stessa. Questo non significa, però, che le donne fossero escluse dal culto. Sono note a tutti le funzioni sacerdotali femminili, quali il servizio di Vestale o di flaminica, nonché l’ufficio cultuale delle matrone, in pubblico e in privato. Va tuttavia osservato che quando una donna esercita un ruolo sacerdotale è sempre subordinata a un uomo; in caso contrario, non era più una donna in senso pieno. Le flaminiche o anche le madri di famiglia erano in effetti delle assistenti dei loro sposi; esse svolgevano più frequentemente compiti marginali e complementari rispetto a quelli del flamine o del pater familias. L’atto cultuale per eccellenza, il sacrificio, era loro interdetto salvo rare eccezioni, e in questo caso, come per esempio al momento dei Damia, a officiare erano le Vestali. Ma le Vestali, che erano sottomesse all’autorità del pontefice massimo, non erano più né fanciulle, né donne maritate: si situavano in una dimensione intermedia tra le categorie sessuali. Per quel che riguarda le matrone, esse svolgevano occasionalmente dei sacrifici, come nel giorno della Fortuna Virile, ma le fonti precisano, in questo caso, che si trattava di un privilegio eccezionale, e ricordano che esso era stato concesso alle donne per aver salvato la città quando gli uomini non furono in grado di farlo.
Col tempo furono introdotti a Roma altri sacerdozi femminili: quello di Cerere aventina, quello di Bacco, quello di Iside. Ma queste sono figure sacerdotali immesse nella religione pubblica o privata dei Romani al seguito delle divinità straniere di cui celebravano il culto. Ammesse dai Romani in quanto figure inseparabili dalle pratiche cultuali, queste sacerdotesse arricchivano il sistema romano con l’apporto di significative varianti, più che modificarlo. Come gli dèi naturalizzati, questi sacerdozi femminili più che riflettere l’evoluzione delle convinzioni religiose dei Romani erano il segno dell’ampliamento del concetto stesso di romanità, che poco a poco inglobava, accanto all’antico spirito romano-italico, anche gli dèi, i territori e ben presto le élites del mondo intero. In ogni caso, non bisogna perdere di vista che nella religione pubblica questi culti e sacerdozi naturalizzati erano sottomessi all’autorità del collegio sacerdotale, esclusivamente maschile, dei (quin)decemviri. L’esempio dei Libri Sibillini è, da questo punto di vista, significativo. Questi libri, che costituivano l’unico oracolo che vaticinava il futuro di Roma, provenivano dalla Campania, dunque dall’esterno, ed erano stati dettati da una donna, la Sibilla Cumana. Ingranaggio indispensabile delle istituzioni romane, venerati come uno dei talismani della città, questi oracoli sembravano, a prima vista, segnalare l’intrusione di una profetessa, di una sacerdotessa, oltretutto straniera, nel cuore stesso della vita pubblica. Tuttavia questa lontana profetessa e i Libri da lei venduti secondo la tradizione romana al re Tarquinio, erano interamente sottomessi al collegio dei (quin)decemviri, che erano i soli abilitati a consultarli e a farli parlare per i magistrati e per il senato.
Tutti questi fatti, e molti altri ancora, ci inducono a non misconoscere il ruolo delle donne nell’esercizio del potere sacerdotale. Pur escluse dal ruolo principale, esse ne occupavano tuttavia, e necessariamente, quello secondario, in quanto erano le indispensabili coadiutrici dell’uomo: separato dalla flaminica, il flamine di Giove non era più in grado di compiere le sue funzioni; senza le Vestali, Roma stessa non poteva più ricoprire il suo ruolo nella storia.
In altre parole, l’atto sacerdotale è spesso presentato, nelle tradizioni romane, come una necessaria collaborazione di uomini e donne.
Ma questa definizione è ancora imprecisa. Se g...

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