Formazione
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Una questione nazionale

  1. 160 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Una questione nazionale

Informazioni su questo libro

Il nostro sistema scolastico e, conseguentemente, quello universitario non forniscono strumenti sufficienti a porre tutti i cittadini su un piano di equità. La rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale prevista dall'articolo 3 della nostra Costituzione appare da lungo tempo inefficace, a dispetto della storia del nostro paese che ha conosciuto il riscatto culturale e sociale come leva per la crescita civile. La cieca furia riformatrice, spesso enfatica e priva di risorse, è lo specchio di una società sempre meno interessata alla cultura. Ma adeguarsi alla dilagante perdita della preparazione di base, allargare le braccia in segno di impotenza, è il modo per cristallizzare l'impreparazione e la condizione di iniquità sociale che ne deriva.

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Informazioni

1.
In soggettiva

1. Al blocco di partenza si arriva tutti diversi

Dopo le mie passeggiate di vigilanza durante lo svolgimento delle prove scritte di Storia contemporanea sono in genere piuttosto stanco ma, al contempo, ansioso di leggere le risposte dei miei studenti. In me subentra uno stato d’animo contraddittorio: da una parte sono curioso di conoscere le loro costruzioni fantasiose e imprevedibili, dall’altra, come succedeva quando da ragazzino giocavo allo “schiaffo del soldato”, temo che qualche botta troppo forte mi faccia barcollare.
Gli schiaffoni, adesso, consistono in errori grossolani, che non rientrano nel campionario banale delle possibili lacune ma che sono l’esito di quella grande confusione spazio-temporale per cui tra l’Impero romano e la caduta del muro di Berlino sembra non esistere una distanza temporale abissale. A ogni compito corretto si rafforza in me la consapevolezza che non è solo la storia a uscirne umiliata, ma anche la geografia e, fatto ancora più grave, la stessa lingua italiana.
Per molti anni ho raccolto le prove di un diffuso disorientamento, in un corso di laurea ritenuto, nell’ambito umanistico, “professionalizzante”. Ho fotocopiato una messe di errori tale da poter ricostruire, nel complesso delle prove, una storia di pongo, plasmata da una conoscenza frammentaria, se non dalla fantasia. Le lacune cumulate appaiono, in molti casi, irreparabili. Ciò che mi poteva far sorridere quando ritenevo si fosse di fronte a un fenomeno circoscritto, nel tempo si è trasformato in fonte d’angoscia. Mi sono in parte ripreso tenendo un corso di laurea a Lettere: la frequenza di errori eclatanti è decisamente minore, pur riscontrando anche tra quegli studenti un diffuso disorientamento geografico, l’incapacità di cogliere nessi storici e una scarsissima maturità civica.
Nel complesso, dieci anni di osservazione della preparazione media mi hanno allarmato. La differenza tra studenti che frequentano corsi diversi, pur attenuando l’effetto dello shock, conduce a ulteriori riflessioni: la constatazione che gli studenti del corso di Lettere siano decisamente più preparati, pur mostrando lacune crescenti rispetto ai loro colleghi di qualche decennio fa, può essere dovuta agli istituti che hanno frequentato alle superiori, al contesto in cui si trovano a socializzare, al luogo di provenienza.
Comparando questo dato con quelli raccolti dai docenti di altre università, si è fatta strada un’ipotesi, diventata col tempo una tesi: gli studenti più carenti fanno parte delle classi sociali meno abbienti e hanno frequentato scuole tecniche e professionali.
Nella larga maggioranza dei casi, dunque, si può dedurre che sia la discriminazione sociale ad alimentare la catena di svantaggi, cui è difficile sottrarsi, e a indebolire la già tenue speranza di un’ascesa sociale. Infatti, hanno molte più chance di ricevere una buona formazione scolastico-universitaria i ragazzi appartenenti ai ceti sociali medio-alti, ovvero a famiglie pronte a valorizzare curiosità e attività culturali, a dare importanza prima alla preparazione complessiva e poi al titolo.
Il secondo dato è relativo alla provenienza geografica: si riscontra una migliore preparazione, in genere, negli studenti provenienti da centri medi o grandi. Se anche nelle città sembra ormai fievole la vita culturale, questo indebolimento si evidenzia maggiormente nei centri medio-piccoli, dove esistono pochi riferimenti socialmente e culturalmente aggreganti. Con ogni probabilità, la possibilità di una migliore formazione nelle città medio-grandi è data anche dai numeri: lì è più facile trovare coetanei con cui condividere conoscenze, andare al cinema, al teatro, prendere parte ad associazioni culturali, insomma frequentare contesti in cui gli stimoli culturali siano tanti e vari.
In provincia, esistono senz’altro buoni licei. A giudicare dalla preparazione degli studenti provenienti da tali aree, ho l’impressione però che la strategia scolastica, più che nelle grandi città, ponga attenzione a non lasciare indietro chi ha cumulato il maggior numero di lacune. È una tattica comprensibile perché l’assenza delle più elementari competenze grammaticali e sintattiche è dilagante e suggerisce una scarsa qualità dell’istruzione primaria, una volta elemento d’eccellenza in Italia e oggi non più in grado di fornire i prerequisiti per lo sviluppo della conoscenza, della comunicazione e della capacità critica.
Si tratta, dunque, di un’epidemia di lungo corso, diffusa nella comunità nazionale, che non colpisce tutti gli studenti, ma “solo” una gran parte di essi. Le prove raccolte, le cronache tratte dai giornali e le statistiche di istituti autorevoli rilevano i guasti della formazione scolastica a livello nazionale, denunciano le circostanze che fanno giungere una larga parte di giovani all’università senza che abbiano i prerequisiti sufficienti. Aiutarli, a tal punto, diventa difficile: sarebbe necessario riprendere alcuni insegnamenti di base, in molti casi risalenti perfino alla scuola primaria. Considerando la gravità delle carenze, poche sono infatti le possibilità di autocorrezione durante gli anni universitari e appare difficile incidere profondamente, come docenti, nell’acquisizione degli elementi primari del linguaggio.
L’insieme delle prove prese in analisi mi ha indotto a riflettere sul senso dell’attività del docente e sulle prospettive degli studenti. Pian piano, è subentrata in me l’ambizione di comprendere le origini di tanta disinvoltura nella costruzione di racconti che nulla hanno di storico, degli errori più ricorrenti. La questione del declino complessivo della formazione di base e la difficoltà di correggerlo negli anni dei corsi universitari sembrano riguardare non pochi casi e certamente non solo l’ateneo in cui insegno.
Ciò mi fa sperare che l’analisi di questo caso specifico non urti la sensibilità di nessuno: sto indicando la luna, non vorrei che si guardasse il dito. Non è mia intenzione porre in ridicolo i miei studenti o ex studenti.
Naturalmente, è fin troppo ovvio affermarlo, ho avuto anche fortunati casi di ragazzi non solo preparati ma brillanti, così come ho potuto rincuorarmi assistendo al consolidamento scientifico di giovani studiosi. Tuttavia, gli studenti che approdano all’università con una piena formazione scolastica appaiono eccezioni, insufficienti ad attenuare la sensazione della generale inadeguatezza di un consistente numero di ragazzi che non dispongono dei requisiti di base della lingua, della storia e della geografia.
Gli studenti che si presentano oggi all’università non posseggono soltanto una formazione buona o carente dal punto di vista delle conoscenze di base della scuola superiore. Ai nostri giorni, il livello di preparazione può continuare la sua discesa ben più in basso, mettendo in luce anche carenze che possono arrivare a significare una condizione di sostanziale semianalfabetismo.
Sulla scala che conduce verso il basso, si possono distinguere alcuni studenti brillanti; un numero discreto di ragazzi con una preparazione sufficiente; un numero consistente che risulta approssimativo nell’esposizione, nell’orientamento lungo le coordinate del tempo e dello spazio, nell’elaborazione e nella costruzione logica; infine un numero inferiore a quest’ultimo gruppo, ma superiore a quello con una preparazione sufficiente, che mostra lacune inquietanti: incapacità ortografica, di espressione, di costruzione del periodo, di scelte verbali, di uso della punteggiatura. Senza contare che una gran parte degli studenti scrive in stampatello. Certamente potrà sembrare una “pecca” di secondaria importanza, ma a mio avviso è indice di una totale mancanza di familiarità con la scrittura.
Ma che maleducato! Non mi sono ancora presentato: mi chiamo Marco De Nicolò e insegno Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Cassino; ho anche insegnato Storia moderna e Storia delle istituzioni (quest’ultima presso l’Archivio di Stato di Roma). Nella scuola superiore, per un lungo periodo, sono stato professore di materie giuridiche ed economiche e, come cultore della materia, ho fatto parte delle commissioni per l’esame di Storia delle istituzioni politiche all’Università di Roma La Sapienza.
Le mie esperienze di insegnamento sono poi proseguite in altre sedi. Vorrei rassicurarvi: non è l’inizio di un curriculum, sono solo le coordinate essenziali per chiarire a chi legge che ho avuto l’opportunità di seguire la formazione di giovani studenti e di studiosi sotto più latitudini e che, compiendo un piccolo bilancio complessivo, la sensazione che ho covato per anni ormai è divenuta una convinzione: il livello qualitativo della preparazione delle generazioni che ho seguito dal 1984 in poi, con funzioni diverse, è tragicamente precipitato.
È mia opinione che, in questi ultimi decenni, solo una parte relativamente piccola del mondo studentesco sia stata in grado di presentarsi nel mondo del lavoro dotata di una formazione pari a quella ricevuta dai propri genitori laureati, in molti casi anche solamente diplomati. Il nostro sistema scolastico e, conseguentemente, quello universitario non forniscono strumenti sufficienti a porre, nel rispetto dell’articolo 3 della Costituzione, tutti i cittadini su un piano di equità, rimuovendo «gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano «di fatto la libertà e l’eguaglianza [...], impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». La rimozione di quegli ostacoli appare da lungo tempo inefficace, a dispetto della storia del nostro paese che ha conosciuto il riscatto culturale e sociale come leva per la crescita civile. Adeguarsi alla realtà di oggi, alla dilagante perdita della preparazione di base, allargare le braccia in segno di impotenza, è il modo per cristallizzare l’impreparazione e la condizione di iniquità sociale che ne deriva.

2. Il primo banco di prova

Trovarsi a giudicare studenti di corsi in cui il saldo degli esami non dia più del 20% di promossi non può che suscitare la sensazione di essere travolti da una valanga di “vuoto”. Quell’assenza di competenze minime induce a ritenere che il salto di qualità, scopo ultimo degli studi universitari, non possa avvenire che in modo limitato.
Senza lingua, senza scienza del contesto, senza capacità di nessi, la complessità è destinata a essere banalizzata, a perdere nerbo e intreccio, a smarrire la qualità di prerequisito per l’elaborazione critica.
Uno dei sistemi per affrontare il pericolo di una sostanziale stasi formativa è abbassare le pretese, finendo per livellare in basso sia la didattica, sia i giudizi. Si tratta di un meccanismo che, pur comprensibile, finisce per annullare le speranze di mantenere alto il livello della formazione universitaria.
Gli atteggiamenti dei docenti sono ovviamente diversi, ma credo sia un problema comune conferire senso alla propria attività didattica, in particolare nei corsi di laurea triennale, tenendo presente la scala digradante descritta in precedenza. Il docente deve tener conto del fatto che, almeno nel primo triennio, non può dare per scontate conoscenze che dovrebbero essere già acquisite e che, in tempi lontani, poteva e doveva considerare metabolizzate.
Il testo di riferimento che ho indicato ai miei studenti, per alcuni anni, è stato solamente un manuale; solo una volta tornato a insegnare al corso di Lettere, in anni recenti, ho deciso di “aumentare la dose”. Anni fa, agli inizi degli anni Duemila, non avevo ancora compreso quanto profonda fosse la mancanza di nozioni di base, quanto carente la formazione scolastica.
Quando mi venne assegnato il corso di laurea in Lingue indicai agli studenti, come testo di riferimento, un volume di Giuseppe Mammarella, Storia d’Europa dal 1945 a oggi. Immaginavo che quel volume ben si potesse combinare con le loro curiosità e con il percorso di studi, aperto ai contributi delle culture europee; mi pareva inoltre che rendesse in modo piano la complessità e gli intrecci delle politiche nazionali e internazionali. Il programma, peraltro, prevedeva solamente lo studio della prima metà del volume, dando per scontata la conoscenza della storia generale prima del 1945. E qui cascò l’asino, cioè io. Mi resi conto che molti degli studenti non avevano “catturato” passaggi essenziali: ignoravano l’esistenza del regime nazista, i fondamenti ideologici alla base della Guerra fredda, quando si fosse affermato il fascismo in Italia e cosa fosse stata la Resistenza. Il corso ebbe così inizio dalla spiegazione del primo conflitto mondiale.
Le ambizioni di portare quegli studenti a conoscenza delle dinamiche europee più recenti furono spazzate via fin dalla prima lezione. Da quel momento, maturai la consapevolezza della sconfitta: il mio insegnamento non serviva al progressivo incremento della preparazione degli studenti, l’unico senso che potevo dare alle mie lezioni era recuperare quanto non era stato affrontato nella scuola superiore. Così, fui costretto a consultare una decina di manuali in commercio e a sceglierne poi uno, badando soprattutto alla forma del linguaggio e all’equilibrio tra completezza e possibilità di comprensione per studenti che, nella grande maggioranza dei casi, avessero poche salde nozioni di storia.
Nella mia esperienza, per alcuni anni, l’adozione del solo manuale ha significato da un lato una perdita di senso della docenza universitaria, dall’altro una progressiva consapevolezza della necessità di procedere con rigore nella valutazione, perché, pur aderendo alla logica del “recupero”, non era giusto cedere almeno nella pretesa delle conoscenze minime.
Quando il corso si chiudeva, nel periodo precedente al primo appello, non c’era mai uno studente che venisse al ricevimento a chiedere spiegazioni sulle parti del programma che non risultavano chiare, nonostante le mie sollecitazioni. Così, alcuni studenti non sciolgono i propri dubbi; altri credono di non averne affatto.
Durante i corsi, di qualsiasi corso si tratti, sono continuamente combattuto tra un registro che sia coerente con lo studio universitario e uno che non sia troppo complesso per la totalità dell’aula.
Molto spesso, dunque, i passaggi che dovrebbero essere scontati vanno ricondotti alla spiegazione di...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. In soggettiva
  3. 2. La rilevazione oggettiva
  4. 3. Società e istituzioni di fronte al declino formativo
  5. Articoli e testi citati