Sul Lungomai di Livorno
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Sul Lungomai di Livorno

  1. 112 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Sul Lungomai di Livorno

Informazioni su questo libro

«Ne ho conosciuti a decine di sprecati in questa città.Sprecarsi a Livorno è la cosa più facile del mondo. Tutto ti aiuta a farlo.»«La retorica impone che si dia prima la cattiva notizia: i livornesi vogliono avere a che fare soltanto con i livornesi. La buona è invece che diventare livornesi non è affatto difficile: siamo tutti pronti a darvi una mano. Perché è bene si sappia subito che a noi, di voi, di chi siete e del luogo da cui provenite, francamente non ce ne importa nulla. Se però, dichiarando la vostra apostasia, professerete adesione alla livornesità, non solo sarete i benvenuti, ma faremo di tutto per farvi sentire a casa, visto che, per la vostra intelligenza, avete saputo vedere quel che gli altri (si pensi ai disgraziati che si ostinano a vivere a Parigi, Milano, New York o Roma) non vedono.»Tre traslochi avvenuti nel corso di vent'anni per ritrarre una città dove ogni volta è facile sentirsi a casa, un posto accogliente come una trappola per topi dal quale sembra impossibile fuggire, a meno di non essere disposti a pagare il prezzo di una nostalgia infinita.

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Informazioni

Nel recinto dei cani

Abito nella piazza del recinto dei cani da sette anni, ma non ci rimarrò ancora per molto. Fra qualche mese io e mia moglie ci trasferiremo sul lungomare.
Non senza rimpianti. Mi ero affezionato a questa enorme piazza ariosa, dove però si giunge per un complicato dedalo di sensi unici.
Chi non ha il navigatore, e non conosce la città, ad esempio, non vi arriverebbe tanto facilmente. Può comunque provarci, magari seguendo i cartelli che indicano il parcheggio: Piazza della Vittoria a pagamento.
Se provasse a chiedere indicazioni, però, ricordi che nessuno qui la chiama Piazza della Vittoria. Tutti la conoscono e la chiamano ancora con il vecchio nome di Piazza Magenta. Chi ha il navigatore invece no. Con quello si deve cercare Piazza della Vittoria (senza a pagamento), perché Piazza Magenta, alle mappe, non risulta. L’avevo detto che è complicato.
Venimmo ad abitarci perché è una bella piazza ottocentesca, piena di tigli e palme, vialetti da passeggio illuminati da lampioni di ghisa e panchine di legno, dove tuttavia anche le case di affaccio costano relativamente poco. Nell’immaginario livornese, infatti, Piazza Magenta è rimasta la zona di spaccio e consumo di eroina che fu negli anni Ottanta.
Come quella Rotondina del Metadone che invece guarda al mare nella pittoresca cornice del lungomare di Ardenza, così anche Piazza Magenta è stata bonificata più che altro dal mutato costume della tossicodipendenza che, come ovunque nel Paese, non riguarda più una limitata frangia di emarginati buìni, come si chiamavano da noi quegli sdentati con la voce impastata sempre in caccia di spiccioli e autoradio, ma tutta la società, ormai variamente tossicodipendente.
Così, ad esempio, è molto più facile sentire il panettiere di via non dico quale che si lamenta con un amico del costo della farina, mimando un tirar su con il naso che lascia intendere tutto, o vedere la pensionata in ciabatte che versa la minima nella bocca ingorda di una chiassosa slot machine a tema egizio, dal tabaccaio qui sotto casa, che non vedere un eroinomane aggirarsi per Piazza Magenta.
La notorietà acquisita al tempo in cui le siringhe spuntavano sul prato innumerevoli come le margheritine in primavera ha insomma conservato alla piazza una certa fama sinistra che mantiene il valore al metro quadro degli immobili in un ambito di ragionevole convenienza, soprattutto in rapporto alla splendida fattura degli appartamenti, che hanno soffitti altissimi, mura spesse e ampie stanze luminose.
Dipanata la matassa di sensi unici, e guadagnata in qualche modo la piazza, si tratta poi di parcheggiare.
Mentre lungo il perimetro è consentito farlo ai soli residenti muniti di lettera M, nell’area di fronte al Monumento ai Caduti può farlo chiunque, purché a pagamento.
L’espressione dei cartelli si riferisce dunque al parcheggio, e non, come parrebbe sulle prime, alla Vittoria, il costo della quale è già stato pagato interamente dai Caduti.
Il parcheggio a pagamento di Piazza della Vittoria è uno dei rari luoghi livornesi in cui il tempo passa davvero. Passando, tende a scadere. Per questo, e per le tante volte che io stesso ho dovuto lasciare qui la macchina, sborso circa duemila euro l’anno fra biglietti e multe. La qual cosa, costituendo una sorta di imu aggiuntiva, getta forse un’ombra sulla convenienza abitativa di cui dicevo, ma mi guadagna il diritto morale a parlarne in tutta franchezza.
Circondati dalle auto, i tre Caduti bronzei del monumento resistono tuttavia in piedi, con le spade puntate al cielo, e convergenti verso un punto ideale che simboleggia, immagino, l’altezza della gloria. Sul piedistallo si legge infatti che sono stati forgiati
Col bronzo tolto al nemico.
Dove però quel tempo che sempre scade, unico vero nemico dell’uomo, pare essersi ripreso un poco di quel b onzo.
Restano comunque in mano ai Caduti, oltre alle spade puntate al cielo, anche tre grandi scudi, tenuti, con involontaria ironia, a pararsi le terga.
Dietro di loro, infatti, incombe su tutto, da più alto basamento, quella Vittoria alata di marmo che essi stessi hanno pagato con il sacrificio estremo della vita.
In ricordo di questo, ogni 2 giugno, viene deposta una corona d’alloro, con una cerimonia che culmina nella rimozione forzata delle auto in divieto di sosta mentre suona la Banda Comunale.
Alle spalle dei Caduti, al centro della piazza, sorge invece la monumentale chiesa di Santa Maria del Soccorso, un mastodonte liturgico la cui costruzione venne sottoscritta dai cittadini nel 1836 per ingraziarsi la Madonna contro il colera.
Ospiterebbe tanta gente quanto il palasport, se non fosse che il colera non picchia più da queste parti da troppi decenni, motivo per cui le funzioni sono talvolta deserte. È peraltro piuttosto comune alle grandi opere livornesi (ad esempio il palasport) il fatto di intraprenderne la costruzione sull’onda di un qualche entusiasmo per essere poi completate quando non servono più a nulla.
La chiesa è opera dell’architetto Gherardi, al quale, come si legge nella Deliberazione del ’36, fu commissionata perché, pur fiorentino di nascita, era da molti anni domiciliato nella nostra città, con moglie livornese, direttore di una accreditata pubblica scuola aperta ai livornesi. Poteva quindi ormai riguardarsi al pari di qualunque architetto concittadino.
Nulla dicendo la Deliberazione sulle referenze del Gherardi (quali fossero, ad esempio, le opere precedentemente realizzate), pare quindi ovvio che il conferimento di questa patente di livornesità fosse, agli occhi dei sottoscrittori, il primo e più fondamentale requisito per l’affidamento dell’opera. Come se insomma la Madonna avesse avuto in spregio una chiesa che non venisse progettata da un livornese.
Quelle della Deliberazione sono parole straordinariamente rivelatrici, che meritano un commento soprattutto per quel che sottintendono. E che vorrei qui riassumere secondo la formula tipica delle due notizie.
La retorica impone che si dia prima la cattiva: i livornesi vogliono avere a che fare soltanto con i livornesi.
La buona è invece che diventare livornesi non è affatto difficile: siamo tutti pronti a darvi una mano.
Perché è bene si sappia subito che a noi, di voi, di chi siete e del luogo da cui provenite, francamente non ce ne importa nulla.
Se però, dichiarando la vostra apostasia, professerete adesione alla livornesità, non solo sarete i benvenuti, ma faremo di tutto per farvi sentire a casa, visto che, per la vostra intelligenza, avete saputo vedere quel che gli altri (si pensi ai disgraziati che si ostinano a vivere a Parigi, Milano, New York o Roma) non vedono.
Se sceglierete la bella mi’ Livorno come patria elettiva sarete insomma subito fagocitati, digeriti, assimilati e resi parte di un’identità che somiglia per certi versi a quella americana: accogliente e autoreferenziale allo stesso tempo.
Questa attitudine inclusiva, d’altra parte, è nel patto fondativo della comunità stessa, in quella premessa costituzionale che, alla fine del Cinquecento, ne fece di un villaggio una città:
A tutti voi, mercanti di qualsivoglia nazione, Levantini, Ponentini, Spagnoli, Portoghesi, Greci, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani ed altri [...] concediamo [...] reale, libero e amplissimo salvacondotto e libera facoltà e licenza che possiate venire, stare, trafficare, passare e abitare con le famiglie [...]
(Ferdinando I de’ Medici, Proclamazione della Legge Livornina)
Straordinariamente povera di arredi al suo interno, Santa Maria del Soccorso è invece ricchissima di graffiti lungo tutto il perimetro.
Sono riuscito a fotografarne uno che mi pare possa essere interpretato come il manifesto programmatico di quei bivacchi di ragazzetti che animano le scalinate della chiesa.
Ho provato a restaurare digitalmente il graffito, ormai quasi illeggibile per l’incuria in cui è tenuto, fatto oggetto del vandalismo di chi lo ha imbrattato senza capirne l’attinenza allo spirito del tempo e del luogo.
Come quelle antiche stampe che illustrano il Paese della Cuccagna, dove sgorga vino dalle fontane e piovono pernici già belle e cotte, così questo graffito bene illustra l’ideale piacere dei ragazzi di Piazza Magenta.
Foto di graffiti su un muro.
Mentre però il Paese della Cuccagna, dove chi manco lavora più guadagna, presentandosi come utopia irrealizzabile per la sua paradossalità, può essere interpretato come giustificazione ad absurdum dell’inevitabile soggezione dell’uomo a un sistema di potere fondato sull’ineguaglianza e sull’oppressione, il Graffito di Magenta sembra invece dirci che la Cuccagna esiste davvero, che è qui e ora. Non si tratterebbe dunque di un’utopia, ma di una descrizione improntata a un programmatico realismo di come si passa il tempo a sedici anni. Fumare, giocare a pes (Pro Evolution Soccer), bere, trombare e farci le canne: questo vogliamo fare e questo facciamo.
Ecco quindi, sul lato sinistro, la Play Station 2, e accanto a quella una bottiglia di vino. Al centro della porta, un ragazzetto felice con il cappellino, che tiene fra le labbra una canna dalle dimensioni simili a quelle del grosso membro esposto fra le gambe (la dicitura joint lungo il dorso della canna potrebbe forse essere un indizio utile per la datazione del graffito, che andrebbe quindi fatto risalire ai primi anni del Duemila, fra l’uscita della Play Station 2, appunto, e l’abbandono del termine Joint per indicare le canne, all’incirca nel 2005).
La postura del ragazzo in mezzo alla porta, con le braccia spalancate, assume allora un valore simbolico e apotropaico, quasi di scongiuro verso l’incognita di un futuro che potrebbe piovergli addosso come una pallonata, da un momento all’altro, guastandogli un godimento che, come quello del piccolo perverso polimorfo freudiano, investe tutti i sensi, e vorrebbe protrarsi all’infinito.
L’enigma del Graffito di Magenta, allora, sta tutto in questa incongruenza: che il ragazzo aspetta a braccia aperte il pallone, ma il pallone lanciato nel parco, come quello della celebre poesia di Dylan Thomas, pare caduto per sempre. Guardando bene la foto si può scorgerlo facilmente: se ne sta lì, immobile, fra la Play Station 2 e la bottiglia di vino.
Che cosa stai aspettando dunque, figlio mio?
Ma tornando allo spaccio per cui la piazza fu un tempo rinomata, esso si limita ormai all’erba e al fumo, ed è gestito da un bravo ragazzo, credo albanese, di cui nessuno si è mai lamentato.
Al contrario, il monopolio della vendita al dettaglio nelle mani di A., e sotto l’occhio vigile del suo possente cane corso, garantisce una perfetta gestione dell’ordine pubblico e un crime rate bassissimo.
Lo stesso Maggiore in pensione che porta a pisciare il cane in piazza me lo ha detto un giorno:
“Ma A. tu lo conosci? Sai, quello che fa lo spacciatore... è davvero un bravo ragazzo”.
“Vero, Maggiore, ce ne fossero di giovani così!”.
Il Maggiore si a...

Indice dei contenuti

  1. Prologo in terra. Via Pannocchia, quartiere Stazione, estate del ’78
  2. Nel recinto dei cani
  3. Miasma
  4. Cronache del Lungomai
  5. Epilogo al cielo. Via Pannocchia, quartiere Stazione, marzo 2013