L'età del disordine
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L'età del disordine

Storia del mondo attuale 1968-2017

Giovanni Gozzini, Tommaso Detti

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  1. 232 pagine
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Storia del mondo attuale 1968-2017

Giovanni Gozzini, Tommaso Detti

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L'età del disordine è un tempo dominato dalla paura, che è figlia dell'ignoranza. Ci sembra di vivere in balia del caos. La globalizzazione è divenuta per molti un incubo: robot che sostituiscono operai, stabilimenti che si trasferiscono in Serbia o in Cina, crisi finanziarie a ripetizione, ondate di immigrati che affluiscono alle frontiere, attentati terroristici. Questo libro è un tentativo di trovare un ordine in tutto ciò, a partire dai cinque anni che aprono questa nuova era: 1968-1973. Iniziano allora i grandi mutamenti da cui è scaturito il mondo attuale: il predominio della finanza sulla produzione, la graduale perdita della presa delle due superpotenze sul mondo, l'uscita dal sottosviluppo di un numero crescente di paesi asiatici, una maggiore consapevolezza del fatto che gli equilibri ambientali stanno saltando. La globalizzazione non è un complotto. Non è molto diversa da quella di cento anni fa, quando migranti, capitali, merci e informazioni si spostavano in misure paragonabili a quelle odierne. Allora la politica la fermò, con i nazionalismi e due guerre mondiali, al prezzo di settanta milioni di morti. Oggi, in preda alla paura, si diffonde la stessa tentazione. Per non ripercorrere quella strada c'è bisogno di una nuova politica che sappia elevarsi al livello planetario delle sfide: migrazioni, finanza, povertà ed ineguaglianze, clima.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858132111

Capitolo 1.
Merci e capitali

1.1. La crisi del 1973

Questo capitolo mette in scena i «mostri» peggiori della globalizzazione: banche e finanza, compagnie multinazionali, merci e consumi di massa, inquinamento dell’ambiente. Abbiamo spesso la percezione di assistere a una loro ascesa incontrastata e inesorabile nella nostra vita quotidiana, ma non è così. Dalla fine del secondo conflitto mondiale a oggi ognuno di questi processi ha conosciuto periodi di stasi, inversioni di tendenza e soprattutto ha generato controspinte di segno opposto nelle diverse opinioni pubbliche del pianeta. La storia del mondo attuale è una storia complessa, determinata da un numero crescente di attori.
Per le economie occidentali la cosiddetta «età dell’oro» durò dal 1945 al 1973 e si svolse all’insegna dell’egemonia degli Stati Uniti. Tra i fattori che la resero possibile vi furono gli accordi di Bretton Woods, i quali nel 1944 stabilirono l’adozione del gold dollar standard: un sistema monetario internazionale basato sulla convertibilità a tasso fisso del dollaro in oro. I cambi tra le diverse monete vennero così stabilizzati, favorendo un eccezionale sviluppo dei commerci. Tra il 1950 e il 1973 il valore delle esportazioni mondiali si moltiplicò per quasi sette volte, quello del prodotto lordo per tre1. A dare impulso a questi sviluppi furono anche altri fattori: le necessità impellenti della ricostruzione postbellica; la disponibilità di manodopera a basso costo proveniente da un’agricoltura che si meccanizzava riducendo il bisogno di braccia; il modello americano di consumi privati di massa (auto, televisori, lavatrici ecc.); la crescita del welfare State in termini di servizi sociali essenziali come la scuola e la sanità.
L’età dell’oro interessò anche l’Unione Sovietica e il blocco dei paesi suoi alleati: le economie statali pianificate ebbero infatti un aumento di nove volte dei commerci e di due volte della produzione, non dissimili a quelli occidentali. Africa, Asia e America Latina crebbero allo stesso ritmo e per le prime due l’età dell’oro fu anche il tempo della decolonizzazione e dell’indipendenza politica. La struttura ineguale del commercio mondiale, fondata sullo scambio tra materie prime e manufatti industriali, ampliò il divario produttivo che separava molti di questi paesi da quelli ricchi, impoverendone le risorse naturali. Tra queste divenne sempre più importante il petrolio, la fonte energetica a basso costo che era stata essenziale per la crescita del Nord del mondo.
A preparare la fine dell’età dell’oro furono in primo luogo gli stessi fattori che l’avevano fatta nascere e crescere. Nuove potenze economiche come il Giappone e la Germania incrinarono la solitaria sicurezza della leadership statunitense, che infatti vide scemare la propria quota sul totale mondiale delle esportazioni e del prodotto industriale: rispettivamente dal 19% al 14% e dal 27% al 22% tra il 1950 e il 1973. A poco a poco venne inoltre riducendosi la riserva di forza lavoro proveniente dalle campagne, mentre la crescita dello Stato sociale moltiplicava la spesa pubblica, mettendo a dura prova i bilanci statali.
La fine di questa eccezionale fase di espansione sopraggiunse nel 1973 con la guerra del Kippur, scatenata dall’Egitto per vendicare la sconfitta patita da Israele nella Guerra dei Sei Giorni del 1967. Povero di effetti duraturi sugli assetti della regione – furono ripristinati i confini antecedenti il 1967 –, quel conflitto portò però alla ribalta un nuovo soggetto della politica internazionale: l’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries), il cartello dei paesi produttori di petrolio dalle cui esportazioni dipendevano quasi tutti gli Stati industrializzati. Nello stesso 1973, per danneggiare i paesi filoisraeliani, l’Opec quadruplicò il prezzo del greggio, ponendo per la prima volta in termini drammatici i paesi sviluppati di fronte al problema delle fonti di energia. Lo shock petrolifero innescò un ciclo di aumento dei prezzi che nelle nazioni ricche fu pari in media al 13% annuo, ma in Gran Bretagna e in Italia arrivò a sfiorare il 20%. Tale impennata ebbe un effetto depressivo sulla domanda interna e sulla produzione industriale: il ritmo di crescita del Pil crollò a livelli minimi. L’inflazione si combinò con una lunga stagnazione delle economie occidentali, per definire la quale gli economisti dovettero ricorrere a un neologismo: «stagflazione».
Si accelerò allora un processo di finanziarizzazione dell’economia globale destinato a durare fino ai giorni nostri. Fra il 1973 e il 1976 il decollo del prezzo del petrolio riversò infatti ogni anno dai paesi ricchi a quelli esportatori circa 70 miliardi di «petrodollari», corrispondenti quasi alla metà del Pil di quanti ne beneficiarono. Nei cinque anni successivi la cifra fu di poco inferiore. L’impiego di questa mole straordinaria di capitali divenne quindi importante non solo per lo sviluppo dei paesi dove arrivavano, ma anche per gli equilibri della finanza internazionale. Solo in parte minore i petrodollari furono spesi sui mercati interni degli investimenti e dei consumi, come anche su quelli internazionali per l’acquisto di beni e servizi. Una quota largamente maggioritaria delle nuove risorse (tra metà e quattro quinti del totale) prese invece la strada del risparmio sotto forma di aumento delle riserve finanziarie statali, di immobilizzo in depositi presso banche straniere e di investimenti esteri in titoli di Stato e azionari, con ricadute più scarse per la crescita economica.
I petrodollari contribuirono così a gonfiare una massa di capitale finanziario liberamente circolante su scala globale, che peraltro si era già messa in movimento almeno un decennio prima con i cosiddetti «eurodollari». Nel corso dell’età dell’oro le imprese multinazionali con sede negli Usa avevano esteso il raggio dei loro affari nei diversi continenti, stabilendo filiali estere di produzione. Molte di esse, anche per aggirare le restrizioni, le imposte e i bassi tassi di interesse praticati da Washington, avevano cominciato a scambiare dollari fuori dal territorio degli Usa, appoggiandosi soprattutto alla piazza finanziaria di Londra. Gli eurodollari così creati ebbero un costante aumento per tutti gli anni Sessanta, fino a raggiungere un decimo delle risorse finanziarie statunitensi.
Di questi denari circolanti all’estero la Federal Reserve (la Banca centrale americana) ignorava volume e collocazione, pur rimanendone garante perché il gold dollar standard la impegnava ad assicurarne la conversione in oro. Il risultato fu che dal 1948 al 1970 le riserve auree degli Stati Uniti calarono da 24 a 11 miliardi di dollari, profilando il pericolo di una crisi di insolvenza. Proprio nel 1970, per la prima volta dal 1894, al deficit della bilancia dei pagamenti si aggiunse inoltre quello della bilancia commerciale: gli Usa importavano più merci di quante ne esportassero e in alcuni settori come l’auto e l’elettronica la prevalenza di prodotti stranieri, anzitutto giapponesi, era divenuta vistosa. Abituati dagli anni Venti ad essere esportatori di una forza economica straripante, gli Stati Uniti si ritrovavano in una improvvisa condizione di debolezza. Così nel 1971 la Casa Bianca, alle prese anche con i costi crescenti della guerra del Vietnam, pose fine alla convertibilità del dollaro in oro, svalutò la moneta e adottò politiche protezionistiche.
Si parlò allora di una crisi dell’impero americano, ma la finanza continuò la sua corsa. Dal 1973 al 2004, mentre il Pil mondiale si triplicava, la media di denaro scambiato ogni giorno sul mercato dei cambi valutari crebbe da 15 a 1.900 miliardi di dollari; tra il 1982 e il 2012 i flussi annui di investimenti esteri da 57 a 1.361 miliardi e il capitale detenuto negli Stati Uniti da fondi di investimento comuni da 25 a 3.488 miliardi. Dal 1980 al 2010 il volume a prezzi correnti dello stock di finanza globale (depositi, azioni, debiti pubblici e privati) aumentò da 12 a 212.000 miliardi di dollari. Negli Usa il valore totale della finanza, che nel 1900 era pari al 101% del Pil e nel 1929 al 167, ammontava nel 1980 al 194, nel 2007 al 442%. A livello globale un campione di 79 paesi metteva in mostra la stessa tendenza: dal 120% del 1980 al 260% del 1990, al 370% del 20072...

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