Capitolo IV
Le scorte e le coperte
Una vita accompagnati da gruppi di giovanotti con in mano le pistole con il colpo in canna, seguiti per strada da auto blindate zeppe di uomini armati, con gli agenti che ti precedono, armi in mano, quando sali le scale del palazzo dove abiti. Non è stata una novità, naturalmente, per Gian Carlo Caselli, che alle scorte si era abituato anni prima di andare a Palermo, quando era impegnato contro il terrorismo. Diventò invece quasi una novità per Antonio Ingroia, quando anche le sue difese furono rafforzate subito dopo l’assassinio di Paolo Borsellino. Per tutti e due una sofferta, ma accettata perdita di autonomia, una tendenza alla solitudine del tutto cancellata, un cambiamento profondo delle proprie abitudini, la creazione di un nuovo e sincero rapporto con chi era disposto a mettere in gioco la propria vita pur di difenderti.
Ingroia non aveva mai riflettuto abbastanza su come in casa sua stessero vivendo quella organizzazione di vita assai limitativa e frustrante per i sentimenti e i legami di famiglia, finché un pomeriggio per caso si trovò a rientrare con suo figlio Marco che in quel momento poteva avere al massimo 6 anni. Padre e figlio erano talmente pieni di pacchi e pacchettini che l’agente armato che gli faceva da scorta fino al suo appartamento, per lasciargli sufficiente spazio sull’ascensore, contravvenendo ai suoi obblighi, non entrò con loro. La porta dell’ascensore si chiuse, il figlio guardò Ingroia ed esclamò, emozionato e con tenerezza: “Qui noi non siamo finora mai stati soli”. E lanciò un bacio guardando suo padre nello specchio della cabina. Ingroia si intenerì e capì che fino a quel momento non gli era mai capitato di stare solo con suo figlio. Fu un momento di estrema emozione e di profondo affetto.
Anche Caselli ha avuto soprattutto durante la sua permanenza a Palermo occasioni di vivere vicende, nel suo caso, perfino rocambolesche ed esilaranti, comunque sempre assai significative per capire in profondità quanto sentito e serio sia il rapporto tra il magistrato sotto scorta e gli agenti destinati a difenderlo a mano armata. All’inizio del 1994, Caselli era arrivato da poco a Palermo. Un prete, fra’ Paolo, amico di don Ciotti, lo invitò ad andare una sera a Corleone, a parlare di legalità. Caselli accettò di slancio: sarebbe stato un incontro che non aveva bisogno di aggettivi. Subito dopo comunicò la sua decisione al caposcorta che, allibito e preoccupato, disse che andar lì, nel paese d’origine dei maggiori capimafia, non era proprio possibile. Caselli insistette, spiegò, sottolineò il grande valore esemplare che quel dibattito avrebbe avuto: non una sfida alla mafia, ma la riappropriazione di un territorio, di una località da parte di chi aveva il compito di ripristinare e difendere la legge contro la criminalità organizzata. Il caposcorta capì e si arrese. A una condizione, disse: che il procuratore, valutando i rischi che quella sortita comportava, doveva comportarsi come la scorta avrebbe ordinato. Caselli accettò. Prima di partire gli imposero di non parlare con nessuno di quella trasferta e di sdraiarsi sul sedile posteriore di un’auto anonima che immediatamente dopo venne issata sul piano più alto di una bisarca, cioè di un camion con rimorchio destinato al trasporto auto. C’erano altre auto accanto alla sua su quella bisarca, tutte procurate in quella occasione dagli uomini della scorta. Quando stavano per partire, gettarono su Caselli sdraiato una coperta. Così, dissero, nessuno l’avrebbe visto durante il viaggio. A poca distanza da Corleone, dopo aver percorso chilometri di strade prive di ripari naturali, si fermarono, l’auto fu fatta scendere dalla bisarca, Caselli scese e salì sulla sua auto che lo aspettava in ombra, per fare il suo ingresso in Corleone. Seguì il dibattito con i poliziotti raggianti, orgogliosi di aver fatto così bene il loro lavoro da aver stupito perfino i carabinieri di stanza nel paese che neppure avevano ben capito da dove mai fosse spuntato il procuratore capo di Palermo. Il ritorno fu quasi normale, con Caselli chiuso in un furgoncino destinato a non suscitar sospetti. Il reciproco affetto tra scorta e magistrato si irrobustì, ulteriormente cementato dal riconoscimento del comune coraggio.
Ingroia Sono convinto che nei tuoi anni di Palermo a giovarsi indirettamente degli effetti trasversali delle campagne di aggressione e denigrazione abbia finito con l’essere anche la mafia. Una organizzazione, Cosa Nostra, già di suo così potente che anche dopo l’arresto di Totò Riina continuò ad agire e a reagire. Noi forse ci eravamo un po’ illusi, pensando che la decapitazione dell’organizzazione ne avrebbe almeno rallentato l’attività. I mafiosi invece continuarono a operare a tutto campo, arrivando addirittura ad alzare il tiro: penso agli attentati del 1993 a Roma, a Firenze, a Milano. Capimmo subito che quelle bombe erano un ulteriore capitolo della strategia stragista di Cosa Nostra: del resto, quale altra organizzazione poteva esservi in Italia così efficiente e radicata da effettuare attentati di quel livello e così diffusi?
Noi comunque non ci fermammo: proseguirono gli arresti di boss, tutti di alto lignaggio criminale, tutti latitanti da decenni. Di fatto, esclusi sul momento Bernardo Provenzano e pochi altri, finì in carcere in poco più di un anno quasi tutto lo stato maggiore di Cosa Nostra, non solo palermitano, fino a Giovanni Brusca, giovane boss di grande potere. Anzi, a proposito della cattura di quest’ultimo, ho una mia chiave di lettura per le grandi scene di giubilo da parte degli agenti di polizia che accompagnarono il trasferimento di Brusca in questura. Sono profondamente convinto che tutti quei giovani uomini dello Stato in armi, che brandivano fucili e pistole, sporgendosi dai finestrini delle loro auto, col volto coperto dai passamontagna per evidenti ragioni di sicurezza, per impedire che riprese televisive o foto si impossessassero della loro immagine, non volevano imitare come taluno stigmatizzò uno scomposto esercito senza disciplina di guerriglieri smodati e fin troppo coloriti: in realtà erano veramente contenti di aver messo a segno un altro fortissimo colpo contro Cosa Nostra. E sapevano di poter gioire perché avevano arrestato l’assassino dei loro colleghi morti insieme a Falcone e a Francesca Morvillo nella strage di Capaci, ma anche perché si fidavano finalmente in maniera completa di tutti i loro capi, dei vertici d’ogni tipo, di noi magistrati. Forse quella manifestazione spontanea che invase i televisori di tutta Italia e che lasciò perplesso qualche cittadino fu il segno fragoroso dell’impegno quasi spasmodico profuso da tutti quegli uomini in armi, esposti a tanti rischi, nel tentativo di far saltare l’organizzazione criminale. A me generalmente, l’esibizione dei mitra, delle armi piace poco. Quella notte, fuori dalla questura di Palermo, credetti di capirla. E per la prima volta la apprezzai.
Caselli Me la ricordo bene la sequenza continua di boss latitanti che caratterizzò un lungo periodo dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Non era mai successo, in nessun’altra fase della risposta dello Stato alla grande criminalità. Mai erano stati catturati così tanti e così grandi latitanti come in quella stagione. Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni ed Enzo Brusca, Pietro Aglieri, Vito Vitale, Mariano Tullio Troia, Vincenzo Sinacori, Filippo e Giuseppe Graviano, Raffaele Ganci e i figli Domenico e Calogero, Giuseppe e Gregorio Agrigento, Francesco Paolo Anzelmo, Mico Farinella, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Antonino Mangano, Salvatore Grigoli, Pietro Romeo, Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano, Cosimo Lo Nigro, Fifetto Cannella, Pino Guastella, Nicola Di Trapani, Salvatore Cucuzza, Giovanni Buscemi e tanti, tanti altri ancora. Per merito dell’impegno di tutti.
C’è un sostituto in particolare che voglio ricordare, per la capacità investigativa, per la tenacia, per la dedizione sempre dimostrate. È Alfonso Sabella, al quale deve essere riconosciuto il merito di essere stato determinante, come coordinatore delle forze di polizia, per il buon risultato di molte di queste ricerche di boss latitanti. Io direttamente ho seguito solo alcune di queste operazioni, anche se i colleghi sostituti mi tenevano aggiornato su tutto, si intende. Ricordo di essere stato presente però alla fase finale del coordinamento delle ricerche che precedettero la cattura di Giovanni Brusca. In particolare ricordo di aver partecipato a una riunione molto affollata e tesa dentro la questura di Palermo, dove c’erano uomini della squadra mobile, della squadra catturandi (diventata un mito per efficienza e abilità), uomini dello Sco, il Servizio centrale operativo, arrivati da Roma con il loro dirigente dottor Monaco. Attraverso intercettazioni e controlli del traffico telefonico di Brusca, si era arrivati a localizzarlo, ma in un’area che ancora appariva troppo estesa. Ci voleva un espediente per riuscire a restringere il perimetro della zona in cui si trovava il boss, già sfuggito per un pelo ad altri, anche recentissimi, tentativi di cattura. Il margine di errore era di un chilometro e mezzo o giù di lì nel perimetro interessato. Insomma, un margine che bloccava la possibilità di un’azione a colpo sicuro. Finché qualcuno si ricordò che tempo prima alcune intercettazioni in corso a Palermo erano state disturbate da un forte rumore di campane: erano le campane di una delle tante chiese che avevano suonato a festa per l’arrivo del nuovo arcivescovo De Giorgi. Ciò ovviamente significava che le intercettazioni telefoniche captano non solo le voci di coloro che parlano, ma anche i suoni particolarmente forti provenienti dall’ambiente esterno.
Dalla constatazione al piano operativo: fu deciso che un agente avrebbe percorso le vie all’interno del perimetro idealmente tracciato attorno a Brusca su una moto dallo scappamento particolarmente rumoroso. Si sapeva che a una certa ora di ogni giorno Brusca aveva appuntamento telefonico con una persona che avevamo già individuato. Facendo percorrere dalla moto, proprio in quei minuti della giornata, le vie dell’area in questione e riascoltando nelle intercettazioni quel fracasso, e soprattutto il suo approssimarsi o allontanarsi, sarebbe forse stato possibile localizzare con maggior precisione il rifugio di Brusca. Venne così fatto e andò tutto bene. Giovanni Brusca fu catturato. E quello scatto di gioia incontenibile e ostentata fu anche un omaggio alla tenacia e intelligenza investigativa che avevano fatto cadere le sofisticate difese di un boss tra i più tristemente famosi che fino a quel momento era parso inafferrabile. Ma questa mia, lo ammetto, può apparire una interpretazione un po’ sopra le righe. Più realistica è quella che tu prima hai proposto, con una possibile integrazione: il respiro di sollievo che tutti tirammo per aver neutralizzato, in seguito a quell’operazione, l’uomo che aveva premuto il bottone della strage di Capaci.
Arrestare un latitante di Cosa Nostra, qualunque latitante, significa anche impedirgli di uccidere ancora: lo stesso quando si sequestrano armi all’organizzazione. E di armi, dopo le stragi, ne abbiamo localizzate e sequestrate davvero tantissime. Molte armi da guerra, compresi numerosi bazooka capaci di perforare qualsiasi tipo di blindatura, anche la più resistente. Compreso il missile che anni dopo il suo arresto Gaspare Spatuzza (divenuto nel frattempo collaboratore) rivelerà che stava per usare dal Monte Pellegrino contro la mia abitazione di Palermo, prima di un provvidenziale trasferimento all’aeroporto di Boccadifalco disposto dal questore.
Quanto ad Alfonso Sabella, toccò a lui svolgere, fra le tante, anche le indagini su Francesco Musotto, assai più fortunato (lo abbiamo già visto) del fratello Cesare, suo coimputato. E a Sabella toccò anche conseguentemente di doversi sorbire la valanga di acide polemiche che accompagnò il processo prima, durante e dopo il suo svolgimento. Sabella fu duramente attaccato. Evidentemente, quando fa arrestare Bagarella, Brusca, Aglieri e Vitale, un magistrato è bravo. Diventa pregiudizialmente incapace se si azzarda a inoltrarsi sul terreno vietato dei rapporti fra mafia e politica.
È bene, però, non dimenticare che quegli anni di successi e di durissimi colpi inferti a Cosa Nostra furono anche anni difficili. La strada non era affatto in discesa. È vero che in certi momenti sembrava che Cosa Nostra si stesse disgregando: la fiumana ininterrotta di sempre nuovi collaboratori di giustizia che disertavano le file dei corleonesi; la sequela di arresti di latitanti ricercati da decenni; la serie di ordinanze di custodia cautelare e di sentenze di condanna a carico di mafiosi imputati di omicidi rimasti per anni senza colpevoli; l’impegno corale dello Stato in tutte le sue articolazioni per sostenere lo sforzo di magistratura e forze dell’ordine; la coscienza e il coraggio civile dei cittadini onesti che si schieravano dalla parte dell’antimafia. Ma è altrettanto vero che Cosa Nostra, come una belva ferita, cercava di reagire colpo su colpo, di dimostrare di essere ancora militarmente forte e presente sul territorio siciliano e nazionale. Il 1993 fu l’anno degli arresti eccellenti, ma anche, come già hai ricordato, l’anno delle stragi nel continente, le bombe di Firenze, Roma e Milano che hanno segnato l’innalzamento del livello dello scontro. Già all’indomani degli attentati pensammo che in quel momento l’unica organizzazione in Italia militarmente e operativamente attrezzata per attuare quella nuova strategia della tensione poteva essere Cosa Nostra. Ma – nel contempo – pensammo in tanti, e io lo penso ancora, che in quella strategia “nuova” per Cosa Nostra c’era qualcosa che ricordava altre stagioni buie, altre strategie della tensione che avevano insanguinato l’Italia nei decenni passati. E perciò pensammo, e lo penso anche ora, che qualcos’altro di molto torbido e potente si sia mosso al fianco di Cosa Nostra, diventata per la sua capacità intimidatoria e militare sponda e crocevia di altri interessi illeciti e poteri occulti che volevano, ancora una volta, deviare il corso della nostra democrazia.
Ingroia E Cosa Nostra non stava con le mani in mano neanche in Sicilia. Neppure la reazione collettiva alle stragi del 1992 l’aveva indotta a maggiore cautela. Ricordo l’assassinio a Catania dell’ispettore di polizia Lizzio, pochi mesi dopo la strage di via D’Amelio. Sul piano personale non posso dimenticare l’agguato al vicequestore Rino Germanà, stretto collaboratore di Paolo Borsellino e mio amico, fallito soltanto per la prontezza della reazione di Germanà, che, ferito da un colpo di fucile, riuscì a scendere dall’auto e a fuggire rispondendo al fuoco. Ho ben presente il caldo soffocante di Mazara del Vallo, quel giorno, quando mi precipitai per verificare le condizioni del vicequestore e occuparmi delle prime indagini. Dalle rivelazioni di collaboratori abbiamo poi appreso che del commando responsabile dell’agguato facevano parte Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, cioè il Gotha di Cosa Nostra. Fu quasi un miracolo come Germanà, da solo e con la pistola di ordinanza, riuscì a reagire e a sfuggire al piombo dei fucili e dei kalashnikov dei suoi aggressori, che lo inseguirono fra i bagnanti fin sulla spiaggia e sul lungomare di Mazara, continuando a sparare all’impazzata. Una volta ristabilitosi, Germanà dovette essere trasferito lontano dalla Sicilia: la mafia è così riuscita ad allontanare uno dei più esperti investigatori siciliani che io ho conosciuto. L’ennesima dispersione della memoria antimafia e il prevalere dell’oblio.
Caselli La strategia intimidatoria di Cosa Nostra, dalle stragi del 1992 in poi, continuò apparentemente, ma solo apparentemente, senza troppo risentire dei colpi subiti. Ci fu una lunga stagione di attentati contro le amministrazioni comunali siciliane che si erano impegnate sul fronte antimafia, una strategia intimidatoria che rivelava quanto incidesse sugli affari e sul consenso di Cosa Nostra la presenza sul territorio di amministratori locali non disposti al compromesso mafioso ed esplicitamente schierati dalla parte della legalità. Cosa Nostra ha avuto sempre ben chiaro il ruolo decisivo della società civile nell’azione antimafia. E quindi sentendosi minacciata sia sul piano repressivo sia dalla crescente diffusione nella società di aree ostili alla mafia, mise in atto una strategia del terrore. Gli obiettivi non erano più solo i rappresentanti delle istituzioni impegnate nella lotta alla criminalità mafiosa, ma anche singoli esponenti della società civile che simboleggiavano la ribellione dei siciliani alla sua prepotenza. Come già nel 1991 aveva ucciso Libero Grassi, l’imprenditore coraggioso e isolato che si era opposto pubblicamente a Palermo al racket delle estorsioni, tornò a farlo assassinando don Pino Puglisi, sacerdote che cercava di recuperare alla legalità palmo a palmo il territorio inquinato di Brancaccio, uno dei quartieri palermitani a più alta densità mafiosa.
È impressionante il racconto, sicuramente attendibile, di uno dei killer di padre Puglisi. Quando già aveva puntata alla testa la pistola che lo avrebbe ucciso, don Pino disse, sorridendo: “Me lo aspettavo”. Infinite volte mi sono interrogato su questa scena e su queste parole. Per il sorriso la risposta è facile, tant’è che don Pino è stato – nel maggio 2013 – beatificato come martire. Come credente, sapeva che la conclusione della vita terrena è solo un passaggio all’aldilà. Un passaggio per crescere: perciò sorrideva. Ma che cosa aveva voluto dire con quel “Me lo aspettavo”? Forse che qualche volta si era guardato attorno e non aveva trovato accanto a sé molta compagnia. Forse se l’aspettava proprio perché si era sentito solo. E non perché lui fosse un passo avanti rispetto agli altri. Ma perché tante, troppe persone, erano rimaste indietro rispetto ai loro doveri.
La mafia (caratterizzata da una sacralità atea) dietro la lupara ama coltivare i riti di un cattolicesimo fatto di santini, confraternite e devozioni. Spesso con la tolleranza complice di molti uomini di Chiesa: ma non di padre Puglisi, che ben sapeva (e con coraggiosa coerenza operava) che la mafia è impoverimento della collettività, impedimento allo sviluppo, gravissimo peccato sociale (come aveva urlato ad Agrigento papa Wojtyla, qualche mese prima che a Brancaccio, nel feudo dei Graviano, si scatenasse la vendetta contro don Puglisi).
La solitudine di don Pino interpella la responsabilità di tutti quanti noi. L’elenco delle vittime di mafia è lunghissimo. Recitarlo nelle cerimonie pubbliche non deve diventare un inganno, uno schermo dietro il quale nascondere le nostre responsabilità. Quelle vittime sono morte anche perché noi (noi Stato, noi cittadini, noi Chiesa, noi cristiani) non siamo stati fino in fondo quel che avremmo dovuto essere. Non siamo stati abbastanza vivi. Non abbiamo vigilato, non ci siamo scandalizzati dell’ingiustizia: nella professione, nella vita civile, politica, religiosa.
I morti hanno visto il loro prossimo: la sopraffazione, la ricchezza facile e ingiusta, l’illegalità, la compravendita della democrazia, lo scialo di morte e violenza, il mercato delle istituzioni, i giovani abbandonati per strada, facile preda del mondo illegale. Questo hanno visto e per questo sono morti. E noi invece, quante volte – invece di vedere il nostro prossimo – ci siamo accontentati della ipocrisia civile, abbiamo subìto e praticato, invece di spezzarlo, il giogo delle mediazioni e degli accomodamenti?
La criminalità organizzata costringe il nostro popolo a subire infamie tremende e un doloroso turbamento sociale e morale. Occorre da parte di tutti uno scatto di responsabilità. Superando un agire troppo vecchio o timoroso (talora persino connivente) e trovando il coraggio di rinnovare. Per la Chiesa, in particolare, senza coraggio non c’è freschezza del Vangelo. Non c’è speranza di slegare bende e bavagli che per troppo tempo hanno reso forti i mafiosi, mortificando i valori. Guai se la beatificazione di padre Puglisi, invece di essere una piattaforma di rilancio dell’impegno comune, diventasse un comodo lavacro delle coscienze che faccia dimenticare le responsabilità di chi – ieri come oggi – lascia soli coloro che si impegnano.
Ingroia Furono anni veramente difficili. Il nostro lavoro dava risultati immediati, concreti, continui. Tantissimi furono in quel periodo i momenti di tensione, le notizie su progetti di attentati. Ricordo tanti allarmi: fra gli altri (e ne hai già parlato tu) quello per un lanciamissili che le cos...