Dio si è fermato a Buenos Aires
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Dio si è fermato a Buenos Aires

  1. 176 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Dio si è fermato a Buenos Aires

Informazioni su questo libro

Siamo argentini senza essere passati per il via, l'utero di una sudamericana. Siamo vivi, siamo argentini.Abbracciando suo nipote Guido Carlotto o Ignacio Hurban, tanto che importa più adesso che il sangue ha trovato una direzione, Estela potrà finalmente toccare el nieto recuperado numero 114, e sfiorare con la fantasia il 115, 116, 126, 150, fino al numero preciso di nipoti che altre abuelas come lei stanno cercando.Siamo qui a Buenos Aires per parlare con Javier Cossettini, figlio di una desaparecida, vogliamo sapere la sua storia, qual è la sua vera identità, quella naturale o quella che si è costruito in trent'anni di vita. Vogliamo saperlo, perché noi trent'anni ancora non li abbiamo. È lui, Javier, il filo conduttore di questa esplorazione attraverso i barrios di Buenos Aires. Attraverso il tango, l'economia instabile e la vita notturna, Maradona, il Boca, la passione sfrenata per il calcio. Attraverso la letteratura e gli orrori della dittatura. Attraverso l'identità di un popolo magico che ha saputo trasformare una resa in una reazione.

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Informazioni

Capitolo quarto

esma

Foto autore.
Al tassista diciamo solo l’indirizzo, avenida del Libertador 8465. La parola esma preferiamo abortirla per uno strano senso del pudore, forse timore, o forse, e credo sia questo, essendo campani io e Marsullo conosciamo bene il turismo del dolore, lo subiamo indirettamente e ci infastidisce; abbiamo paura di sentirci come quegli americani che fotografano i vicoli di Napoli ma da via Toledo, senza mettere neanche un alluce nei quartieri spagnoli, in quella sofferenza buia e stretta fatta di vecchi e bambini sdentati.
Il dolore della esma non ci appartiene e mai ci apparterrà, noi italiani abbiamo altri dolori, e non amiamo organizzare visite guidate gratuite per raccontarli. Gli argentini invece sì, ne hanno bisogno, e più tardi capirete perché. È evidente che, così come le famiglie, anche i popoli gioiscono tutti allo stesso modo ma ognuno soffre in maniera diversa.
Il tassista, tanto per cambiare, ha origini italiane, calabresi per la precisione. Riconosce immediatamente il nostro accento, è felicissimo di averci lì nel suo taxi. Ci racconta di suo nonno che parlava solo calabrese, della sua passione per le armi e dei piatti di pasta la domenica prepotentemente, italianamente, sostituiti all’asado. «Siempre pasta, con la lluvia y con el sol», ricorda il bambino che è in lui.
Scendiamo dal taxi e penso ad Elisa, la mamma di Javier: quasi quarant’anni fa, anche lei è scesa qui.
Ma non era in taxi.
Scese da una Ford Falcon, dalla solita Ford Falcon, aveva un cappuccio nero in testa e le gambe tremanti, e forse non era neanche estate o se non era inverno di certo non sentiva il sole.
La esma (Escuela Superior de Mecánica de la Armada), la scuola della Marina militare argentina, è stata l’ultima tappa per quindicimila argentini. El destino final, il luogo in cui entrando non si era più esseri umani, e non solo per le torture che questa gente ha subito, ma proprio perché una volta dentro non si esisteva più, non si era né vivi né morti, si diventava desaparecidos. È in luoghi come questo che las madres avrebbero dovuto trovare i loro figli, a pochi chilometri da Plaza de Mayo, in un grande agglomerato di edifici squadrati immersi nel verde, un’architettura che avrebbe appassionato Mussolini, una specie di Villa Borghese degli orrori.
Una macchina della tortura perfetta, quella della esma.
Ufficialmente scuola militare, una parte era infatti riservata a ragazzi poco più che ventenni col sogno della divisa; mentre dall’altra c’erano altri ragazzi poco più che ventenni alla ricerca di qualsiasi sogno disponibile, purché fosse stato al di là di quel cancello, di questo cancello che adesso io e Marsullo varchiamo, per scelta, perché vogliamo sapere, perché l’abbiamo prenotata tre settimane fa questa visita guidata e penso a che faccia farebbe un cadavere qualunque di quei quindicimila argentini che hanno buttato l’anima e la gola qua dentro, vedendoci entrare, nonostante tutto questo sole che potremmo goderci.
Penso che riderebbe. Ma non di noi, riderebbe e basta.
Ma questo lo penso oggi, mentre scrivo adesso, dopo la visita, dopo aver parlato con Federico, la nostra guida, dopo aver capito bene qual è il senso di tutto questo, qual è il senso di far prenotare settimane prima questa visita ma di non farla pagare, perché deve essere tutto gratuito qui, i fondi, adesso, deve darli il Governo.
Oggi la esma non è più la scuola che era, chiaramente. Oggi è un museo della memoria, si chiama Espacio memoria y derechos humanos (ex esma). E quanto è importante questo «ex esma» tra parentesi! È presente sempre, in ogni dicitura. Sa di vendetta e di orgoglio, e anche di conquista, perché un po’ di anni fa, all’inizio degli anni ’90, un certo Carlos Menem, a mio parere uomo di discutibile onestà intellettuale, divenne Presidente della Repubblica democratica argentina.
Menem ebbe la fantastica idea di voler radere al suolo la esma (d’altra parte a che serve conservare la memoria!) e costruire, al centro di quello che sarebbe diventato un rigoglioso parco verde, un grande monumento dedicato al popolo argentino. Un modo per ricominciare da zero, secondo lui: nobile proposta, soprattutto se viene avanzata da uno che approvò l’indulto per praticamente tutti i militari coinvolti nella dittatura, compresi noti torturatori, assassini e alte cariche istituzionali dell’epoca.
Per fortuna questa rimase solo una proposta, un’idea malsana. Il popolo argentino si oppose unanime (o quasi) e la esma è diventato oggi un luogo della memoria, dove ci lavorano persone straordinarie, volontari miei coetanei, impegnati in mille attività tra cui cineforum e rappresentazioni teatrali, incontri con intellettuali, politici, hijos ritrovati, madri, abuelas e testimoni diretti dell’epoca, tutto gratuito per il popolo, come gratuito, sincero è questo sorriso sulle labbra, la leggerezza impavida con cui Federico ci racconta che dove adesso poggiamo i piedi («vedete questo sentiero», ci dice, «questo che porta fino a quel palazzone?»), bene, qui ci trascinavano le persone prendendole per il collo o per i polsi, le ginocchia dei prigionieri strusciavano a terra; dove adesso poggio i piedi, qualcuno ci ha scorticato le proprie ossa.
Federico ce ne parla come se il dolore non esistesse, è chiaro che per lui è normalità, l’avrà fatta mille volte questa visita – sempre le stesse parole – ma a un certo punto dice che, per capire quanto si è sofferto qua dentro, bisogna considerare la sofferenza una cosa ovvia (ha usato proprio queste due parole: «sufrimiento obvio») e la pace, diciamo la pace del corpo, un’eccezione.
Poi ci ha riuniti in cerchio e prima di entrare nel padiglione a piano terra, la prima tappa in cui venivano portati i prigionieri, incappucciati e con i vestiti di casa, con ancora il profumo della cena nel naso, Federico ci fa presentare l’uno all’altro, tutti noi partecipanti della visita guidata.
Siamo una ventina. E siamo di ogni nazionalità, e con motivazioni molto diverse tra noi. C’è praticamente mezza America latina (Cile, Colombia, Perù, Uruguay e Brasile) e mi sembra anche un messicano. C’è una spagnola, una francese, due americane (alle quali Federico, sorridendo, con quella simpatica cazzimma che solo gli argentini riescono ad avere, dice subito che si parlerà anche degli Usa oggi, della Cia e del Plan Condor, e poi però fa una battuta goliardica su Miami – però intanto gliel’ha detto quello che voleva dirgli...) e poi ovviamente ci sono gli italiani, che non sono mai soli. Io, Marsullo e Orazio, un ragazzo di grande spessore, molto simpatico e disponibile, che ci ha prontamente invitato a cena nei giorni successivi (lui vive lì, sposato con un’argentina, con un figlio nato da poco) e noi prontamente siamo andati.
Quando si dice esma, si dice anche Garage Olimpo, Club Atlético, el Banco, el Campo de Mayo, el Vesubio, el Pozo de Banfield, la Perla, la Escuelita, tutti centri clandestini di detenzione. I primi tre erano nella città di Buenos Aires, gli altri sparsi un po’ in tutte le province più importanti del paese. Centri di tortura organizzatissimi, a dispetto dei luoghi desolati dove spesso sorgevano.
El Olimpo, ad esempio. Anzi, el Garage Olimpo.
Già, era un garage, di quelli che si possono trovare in qualsiasi grande città, quelli con la scritta luminosa libero in verde, se c’è posto, e pieno, in rosso, quando tutti i posti sono occupati.
L’Olimpo era sempre libero. Un posto, l’avrebbero comunque trovato.
Ah, Olimpo, si chiama così perché loro, i torturatori, i militari, i medici che coordinavano scientificamente le violenze, las patotas, quelli che violentavano le prigioniere più giovani, o i prigionieri più giovani, i generali pieni di stelle sul cuore, loro, loro erano gli dèi.
Gli dèi dell’Olimpo.
Loro decidevano chi doveva scomparire e chi no.
Sull’Olimpo mi fermo qui. Ma voi non fatelo, e andate a guardare il capolavoro di Marco Bechis, Garage Olimpo. Un film di una bellezza tale che le mie parole non hanno la dignità per descriverlo.
Dicevo che, a dispetto dei luoghi in cui sorgevano, avevano dei macchinari di tortura super moderni, e un’organizzazione perfetta, dalla Ford Falcon che prelevava il prigioniero fino al volo finale, di cui racconterò.
La esma è stato il centro di detenzione più grande del paese.
5.000 i prigionieri, quasi tutti poi morti.
5.000 su circa 40.000 morti che questa dittatura ha prodotto.
Visitiamo solo un edificio della grande scuola, quello in cui mettevano i prigionieri. L’edificio è diviso in tre parti, tre piani: primo piano, piano terra e sótano, sotterraneo. In realtà i piani sarebbero quattro, ma poi capiremo perché uno di questi non lo possiamo visitare.
A me vengono in mente le suore. L’aria austera delle suore verso le tre del pomeriggio, quando dopo quel pranzo pessimo che ti facevano mangiare ti costringevano a dormire sul tavolo, con la testa poggiata sul freddo di quei banchi verdi sbiaditi. Quando dico «suore» intendo l’asilo tutto, dove mia mamma mi ha mandato prima della scuola.
Mentre entriamo al piano terra della esma rivivo quell’incubo, abbastanza fuori luogo direi, considerando che qui gli incubi sono stati di ben altra portata. Ma io penso alle suore, non posso farci nulla. Camminiamo in fila, il corridoio è stretto e il soffitto basso, proprio come quello delle suore, e mi viene un forte rigurgito verso il sonno, voglio tenere gli occhi aperti e la guancia all’aria, al caldo.
Entriamo in una sala enorme, uno spazio ampio e vuoto.
Fede ci spiega che qui per un periodo ci sistemavano i prigionieri appena prelevati dalle loro case, attaccati al muro con delle catene ai piedi e il cappuccio in testa, prima di torturarli la prima volta, poi si è deciso di spostare come prima tappa il sotterraneo che a breve visiteremo, e qui ci hanno organizzato una specie di archivio dei detenuti, un grande ufficio insomma, con tanto di segretari, un centro nevralgico di spionaggio per catturare futuri prigionieri, l’intelligence del centro insomma.
Ci dirigiamo quindi verso il sótano, il sotterraneo, l’inferno umido dei nuovi arrivati.
Federico è ancora dentro, nel grande salone, a raccontare gli archivi e i servizi segreti della dittatura.
Gli uomini di Videla avevano schedato mezza Buenos Aires, non solo i montoneros o i peronisti, o gli attivisti dell’erp (Ejército revolucionario del pueblo) e gli studenti più caldi; non solo loro, ma anche i loro familiari, gli amici, gli amici degli amici, i vecchi co...

Indice dei contenuti

  1. Capitolo primo
  2. Capitolo secondo
  3. Capitolo terzo
  4. Capitolo quarto
  5. Capitolo quinto
  6. Capitolo sesto
  7. Capitolo settimo
  8. Capitolo ottavo
  9. Gli autori