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Lo stato dell'arte
L'esperienza estetica nell'era della tecnica
- 224 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro
Cosa sta accadendo alle arti e all'esperienza estetica nel nostro tempo compiutamente tecnicizzato e qual è lo stato della questione sotto il profilo della consapevolezza teorica: in un percorso coerente e guidato, le voci dei maggiori filosofi, saggisti, storici dell'arte che si sono interrogati sul destino dell'esperienza estetica nell'età della tecnica dispiegata.
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Informazioni
Argomento
PhilosophyCategoria
Aesthetics in Philosophy1. Che cos’è la tecnica?
Premessa
La tecnica può essere intesa, in senso semplicemente strumentale, come la capacità di supplire con artefatti alle carenze adattative che contraddistinguono l’uomo in quanto animale non specializzato; oppure, in un senso che si potrebbe definire «protetico», come una sorta di prolungamento inorganico – come una «protesi», appunto – indissociabile dall’uomo perché cooriginario alla sua identità specifica o, se si vuole, al suo essere. Le moderne riflessioni sulla natura della tecnica, presentate in questo capitolo, oscillano tra questi due paradigmi, tra i quali, tuttavia, sussiste una differenza non trascurabile. Secondo il primo, infatti, la tecnica corrisponderebbe a una particolare forma di sapere progettuale e operativo proprio di una specie zoologica che a un certo punto avrebbe cominciato a esercitarla per produrre artificialmente ciò di cui la natura non l’aveva dotata. Stando al secondo, invece, l’estensione artificiale farebbe parte fin dall’inizio di questa specie zoologica, la quale, a differenza di tutte le altre, recherebbe qualcosa di ‘esterno’ e di inorganico nel suo medesimo essere ‘naturale’ e dunque più che progettare artefatti sarebbe essa stessa il risultato di un pro-getto, di una proiezione esterna avvenuta prima e indipendentemente da ogni controllo riflessivo.
Al di là delle differenze, in ogni caso, i due paradigmi ci presentano la tecnica come uno dei requisiti decisivi dell’ominazione. Ciò è del tutto evidente, per esempio, in due autori come Arnold Gehlen (1904-1976) e André Leroi-Gourhan (1911-1986), anche se il primo si attesta su una concezione compiutamente antropologica della tecnica (primo paradigma), mentre l’altro tende a spostare l’accento sulla sostanziale indistinguibilità di antropogenesi e tecnogenesi (secondo paradigma).
Nel quadro dell’antropologia filosofica di Gehlen, infatti, la tecnica si lascia integralmente comprendere nella sua funzione adattativa di supplenza. L’oggetto tecnico sostituisce organi che l’uomo non possiede oppure potenzia ed espande «facoltà esistenti nel corpo umano» o, infine, disimpegna o demoltiplica la prestazione dell’organo consentendo un decisivo risparmio di lavoro. «Chi viaggia in aereo, scrive Gehlen, ha i tre principi riuniti in uno: l’aereo sostituisce le ali che non ci sono cresciute, batte in modo assoluto tutte le capacità organiche di volo e risparmia fatiche dirette a chi vuole recarsi in posti molto lontani». La tecnica è dunque un’integrazione dell’inorganico nell’ambito dell’organico (un’integrazione crescente, sottolinea Gehlen), che resta subordinata alla progettualità dell’uomo e da questa guidata, anche se per Gehlen quest’ultima non potrebbe essere ricondotta soltanto all’elemento di una razionalità volta al conseguimento di fini (e dunque alla prassi sperimentale impostasi in epoca moderna), sussistendo nell’atteggiamento tecnico un’altrettanto decisiva componente «inconscia» o «istintiva». La tecnica, in tal senso, risponde al «bisogno che l’uomo sente di interpretarsi inserendosi nella natura e differenziandosi poi da essa» seguendo una «logica recondita» che appare con chiarezza se la si osserva da un punto di vista evolutivo: essa evolve, infatti, nel senso di una «progressiva oggettivazione del lavoro umano e di un crescente disimpegno dell’uomo». Si potranno leggere, alla fine del capitolo, alcune notevoli attualizzazioni di questa tesi, di cui per il momento andrà ribadita la sostanziale intonazione ‘umanistica’. Per quanto possa rendersi responsabile di trasformazioni decisive nel modo in cui l’uomo abita il mondo, la tecnica è comunque riconducibile a un fondamento antropologico nel senso che appartiene all’essere dell’uomo il progetto di farsi surrogare o supplire da qualcos’altro.
Se ora assumiamo il punto di vista della paletnologia, di cui Leroi-Gourhan è stato uno dei massimi interpreti, potremo constatare il significativo spostamento d’accento con cui qui ci viene riproposto un quadro sostanzialmente conforme a quello che abbiamo appena ricostruito. Anche per Leroi-Gourhan, infatti, la comparsa di utensili segna la vera e propria frontiera dell’umanità, ma l’utensile stesso non è presentato tanto come il risultato di una progettazione quanto come una sorta di necessaria «secrezione» del corpo, come una «esteriorizzazione» determinata, a sua volta, dalla comparsa di tre caratteristiche somatiche distintive di una nuova specie zoologica prodottasi in seguito a una mutazione: la stazione eretta, la liberazione della mano da funzioni locomotorie e la faccia corta. Sotto un certo profilo, queste caratteristiche rappresentano dei vistosi difetti adattativi, in quanto la mano e la dentatura di questo animale, non essendo più in grado di garantire funzioni di aggressione e di preparazione diretta del cibo, debbono necessariamente delegarle a protesi esterne. Ma questa delega corrisponde anche a un decisivo processo di liberazione: sollevata da compiti locomotori o direttamente aggressivi, infatti, la mano può espandere se stessa in oggetti risultanti da operazioni costruttive complesse, proprio come la bocca può predisporsi alla fonazione e al linguaggio. Cosicché, osserva Leroi-Gourhan, si dovrà dire che l’utensile sta alla mano come il linguaggio sta alla faccia. E si dovrà aggiungere che da questo momento in poi (cioè fin dall’inizio, fin dalla comparsa dell’ominazione) i più importanti eventi evolutivi umani sono di ordine tecnico e non biologico per cui, come scrive con efficacia Leroi-Gourhan, «tutta l’evoluzione umana contribuisce a porre al di fuori dell’uomo ciò che, nel resto del mondo animale, corrisponde all’adattamento specifico». Ciò significa che il ‘proprio’ dell’uomo è, da un punto di vista evolutivo, fuori di lui: è il mondo tecnico che, originariamente nato da una «esteriorizzazione» del corpo, assume un’importanza crescente, fino a presentarsi come un universo dotato di «vita propria».
L’interpretazione della tecnica offerta da Leroi-Gourhan, come si è detto, si discosta da quella di Gehlen per la radicalità con cui ci presenta il paradigma che abbiamo definito «protetico». Più che il risultato di una progettazione consapevole, l’oggetto tecnico è uno sconfinamento necessario dell’organico nell’inorganico che contribuisce, in quanto tale, a identificare il modo d’essere dell’uomo. Il quale uomo, a sua volta, dipende dall’esercizio di certe facoltà creative di cui sarebbe ‘naturalmente’ dotato non più di quanto dipenda dall’aver già sempre trasferito in un’esteriorità artificiale parti consistenti (e via via crescenti) del proprio essere specifico. Come fa notare Leroi-Gourhan con un’efficace formulazione, l’uomo «inizia dai piedi» – cioè dalla stazione eretta e dalla liberazione della mano – piuttosto che dalla mente, e quest’ultima è già sempre non solo una mente incarnata, ma anche una mente esteriorizzata, originariamente coinvolta nell’esteriorità della tecnica. Ciò pone il problema imbarazzante (assente in Gehlen e in genere nelle interpretazioni antropologiche della tecnica) di determinare il gioco delle parti tra l’interno (le facoltà dell’uomo) e l’esterno (le protesi tecniche), tra ciò che l’uomo è capace di anticipare e ciò che lo ha già sempre anticipato. In altri termini: l’uomo è il progettista della tecnica o non piuttosto il progettato? In che modo dobbiamo porre questa relazione cercando di evitare il riduzionismo di un’interpretazione unilaterale?
Per rispondere a questa esigenza di chiarimento ci si può rivolgere alle riflessioni di Martin Heidegger (1889-1976), cominciando con l’assumere che le interpretazioni della tecnica offerte da Gehlen e da Leroi-Gourhan concordano, sia pure con diverso grado di radicalità, con la tesi heideggeriana che, respingendo ogni comprensione strumentale della tecnica, la intende come un modo essenziale di orientarsi nel mondo e di incontrare le cose. Ciò significa, nella terminologia filosofica di Heidegger, che la techne fu originariamente compresa come un dis-velamento dell’esistente, un modo di darsi della verità in quanto a-letheia (cfr. supra, Introduzione).
«La techne – scrive Heidegger – è un modo dell’aletheuein. Essa disvela ciò che non si pro-duce da se stesso», ciò che non ha la capacità di condursi da solo nella presenza e dunque richiede una poiesis, un peculiare coinvolgimento produttivo dell’uomo. Come si è già sottolineato in sede introduttiva, l’aspetto qualificante di questa tesi heideggeriana è da vedere nel suo carattere radicalmente storico: appartiene infatti all’essenza della tecnica in quanto aletheia il suo accadere, il suo aprire di volta in volta orizzonti destinali nel cui ambito l’uomo si ritrova e cerca, per quanto è possibile, di autocomprendersi. Ora, la conclusione fondamentale e decisiva di Heidegger è che la «tecnica moderna» resta, bensì, un modo dell’aletheuein, solo che questo modo «non si dispiega in un pro-durre nel senso della poiesis» perché piuttosto esso vige in quanto «pro-vocazione (Herausfordern) la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta (herausgefördert) e accumulata». La ‘natura’, in tal modo, appare come un Bestand, un «fondo», rispetto a cui non è più in gioco un poiein, un pro-durre, ma un richiedere, o meglio uno Stellen, un porre richiedente che implica, quali modi caratteristici della tecnica moderna, il mettere allo scoperto, il trasformare, l’immagazzinare, il ripartire e il commutare. Tutti questi modi, secondo Heidegger, si possono unitariamente definire col termine Ge-Stell (impianto, im-posizione), che sta a indicare la riunione e l’unificazione dell’insieme delle modalità del porre richiedente secondo cui l’essente nel suo complesso ci viene incontro, si fenomenizza in senso essenziale, ci viene destinato epocalmente.
Bisogna a questo punto ribadire che per Heidegger il disvelamento (la verità come aletheia) è sempre solo in parte accessibile all’uomo, che vi si ritrova in generale coinvolto in modo tale da non poterselo in nessun caso rappresentare come un ‘oggetto’ posto dinanzi a lui e totalmente dominabile. È vero piuttosto che di volta in volta spetta all’uomo di «corrispondere» a ciò che gli viene destinato e che questo suo compito non può essere garantito da alcuna certezza, presentandosi piuttosto come un rischio che riguarda intimamente l’essere dell’uomo. Ora, Heidegger pensa che il Ge-Stell sia tale da configurare questo rischio nella sua versione estrema: cioè come la minaccia che all’uomo possa venire addirittura negata la possibilità di corrispondere autenticamente all’appello con cui la tecnica moderna lo reclama per sé. Ebbene – e il passaggio assume per noi un’evidente salienza – è proprio su questo punto che Heidegger sente il bisogno di accennare alla questione dell’arte, cui riconosce, sia pure in modo interrogativo e problematico (cfr. Introduzione e cap. 2), la possibilità di «salvare» l’uomo dal rischio estremo di fronte a cui lo trattiene la tecnica moderna.
Gli ultimi due testi presentati in questo capitolo sono entrambi incentrati sulle modificazioni introdotte dalla tecnica moderna nei comportamenti percettivi, nelle attitudini cognitive e nella prassi complessiva dell’uomo. Essi forniscono uno sguardo generale sull’età della tecnica che ha il vantaggio di specificare il Ge-Stell heideggeriano (pur senza alcun riferimento diretto a questo autore) presentandone una morfologia specifica, e dunque prestandosi a importanti rilievi empirici.
Marshall McLuhan (1911-1980) ritiene che il requisito essenziale della tecnica moderna sia la sua tendenza ad attestarsi sul piano della comunicazione, espandendo e specializzando l’efficacia dei media. In linea con il paradigma «protetico» che abbiamo discusso, McLuhan argomenta con finezza la tesi secondo cui i media riorganizzano la vita sensibile della gente perché ne sono «un’estensione». Ma, più radicalmente, l’estensione mediale, e in particolare quella elettronica, si caratterizza più per il suo autonomo potere formativo che non per i contenuti di volta in volta messi in forma, donde la celebre definizione secondo cui «il medium è il messaggio» o, secondo una formulazione più esplicita, «il ‘messaggio’ di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo o di schemi che introduce nei rapporti umani».
Va qui detto che, se alcune interpretazioni di McLuhan si sono dimostrate bisognose di revisioni non marginali (si pensi per esempio al discutibile inserimento della televisione tra i «media freddi», cioè tra quelli che «implicano un alto grado di completamento da parte del pubblico»), bisogna riconoscere che il suo esame della complessiva riorganizzazione sensoriale operata dalle tecnologie comunicative ha saputo anticipare molti temi che si sono meglio precisati in tempi più recenti (McLuhan scrive all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso): dai processi di smaterializzazione introdotti dall’elettronica alla crisi dei modelli sequenziali e lineari legati allo schema alfabetico e scritturale (la «galassia Gutenberg», secondo una definizione dello stesso autore) fino ai fenomeni di crescente accelerazione dei flussi informativi e al progetto, iscritto nella tecnica moderna, di una generale neutralizzazione delle distanze spazio-temporali (il cosiddetto «villaggio globale»).
È su questo sfondo che le tesi di Jeremy Rifkin (1945) si distinguono per la precisione dell’analisi e per la chiarezza del disegno interpretativo cui vengono sottoposte le principali linee di forza dell’economia globalizzata (secondo un’accezione molto ampia dell’economico). La rivoluzione elettronica ha inaugurato ciò che Rifkin definisce «l’era dell’accesso», la cui conseguenza decisiva, sul piano dell’economia, è che «sono le idee, i concetti, le immagini – non le cose – i componenti fondanti del valore» (e si pensi solo, per chiarire subito la congruenza dell’analisi, al fenomeno del franchising). Ma non si tratta affatto di un elogio della smaterializzazione delle merci: Rifkin ha ben chiaro fino a che punto i beni materiali, e la loro amministrazione, siano indispensabili per ogni economia, vecchia e nuova. Si tratta piuttosto di comprendere che gli stessi beni materiali sono ormai tendenzialmente immessi in un circuito economico che li produce e li distribuisce nella forma di singoli segmenti di esperienza dotati di valore commerciale. Per cui – ecco la tesi più forte e illuminante di Rifkin – ciò che viene davvero venduto e acquistato non è un bene di cui divenire proprietari, ma «l’accesso a esperienze culturali» di cui godere per un segmento limitato di tempo (si pensi all’industria del turismo e al suo crescente intreccio col mercato delle arti e dei beni culturali) e dunque, in ultima analisi, il tratto saliente dell’economia globalizzata è la «mercificazione del tempo», la produzione e la vendita di ‘pezzi di vita’ cui si accede esemplarmente via rete. L’era dell’accesso, in definitiva, ripropone in termini di pianificazione globale la classica distinzione tra uti e frui, tra il concetto di uso, legato a quello di proprietà, e il concetto di godimento, legato a quello di accesso, con ricadute immediate e non indifferenti sul piano delle arti, cui Rifkin tende ad attribuire un ruolo di crescente integrazione nel dispositivo del marketing tecnologico, arrivando a sostenere che «il marketing è la somma degli strumenti attraverso cui si sondano i territori collettivi della cultura alla ricerca di significati culturali che abbiano il potenziale per essere trasformati, attraverso le arti, in esperienze mercificate, acquistabili sul mercato».
Ma con questo spunto entriamo già nel territorio problematico che sarà oggetto dei prossimi capitoli.
1.1. L’uomo e la tecnica
[da Arnold Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica (pp. 10-19)]
La tecnica è vecchia quanto l’uomo, perché nei ritrovamenti di fossili noi possiamo talvolta dedurre con sicurezza l’intervento di esseri umani solo dalle tracce ivi lasciate da attrezzi elaborati. E già il più rozzo cuneo di pietra focaia cela in sé la stessa ambiguità che oggi è propria dell’energia atomica: era un utensile da lavoro e in pari tempo un’arma micidiale. Nell’uomo, qualsiasi trasformazione degli aspetti originari della natura al servizio dei propri scopi è intrecciata fin dagli inizi alla lotta contro i suoi simili, e solo nei tempi più recenti si va facendo strada il tentativo di dissolvere questa drammatica concatenazione. Se ciò dovesse riuscire e inaugurare una pace veramente definitiva, tale pace avrebbe a presupposto un livello molto alto della tecnica: non è concepibile in altro modo un efficace controllo reciproco degli armamenti.
Ancor più vicini al legame che passa tra l’uomo e la tecnica ci conduce il seguente ragionamento. Ricollegandosi a Max Scheler, l’antropologia moderna ha dimostrato che, mancando di organi ed istinti specializzati, l’uomo non è conformato per un ambiente naturale, peculiare della sua specie, e di conseguenza non ha altra risorsa che trasformare con la sua intelligenza qualsivoglia stato di cose da lui incontrato nella natura. Povero di apparato sensoriale, privo di armi, nudo, embrionale in tutto il suo habitus, malsicuro nei suoi istinti, egli è l’essere che dipende esistenzialmente dall’azione. Nel quadro di tali concezioni, W. Sombart, P. Alsberg, Ortega y Gasset e altri hanno fatto derivare la necessità della tecnica dalle imperfezioni degli organi umani. Alle più antiche testimonianze del lavoro manuale appartengono in effetti le armi, le quali mancano come organi, e alle quali andrebbe aggiunto anche l’impiego del fuoco, se si affermò parimenti per motivi di sicurezza o come isolatore termico. Accanto a tale principio della sostituzione dell’organo mancante, si sarebbe presentato fin dagli inizi quello del potenziamento dell’organo: la pietra in mano per colpire ha un’efficacia di gran lunga maggiore che non il nudo pugno; cosicché accanto alle tecniche di «integrazione», che rimpiazzano capacità negate ai nostri organi, compaiono le tecniche di «intensificazione», che producono effetti superiori alle nostre capacità naturali: il martello, il microscopio, il telefono non fanno che potenziare facoltà esistenti nel corpo umano. Infine vi sono le tecniche di «agevolazione», volte ad alleggerire la fatica dell’organo, a disimpegnarlo e quindi in generale a consentire un risparmio di lavoro, come un veicolo su ruote rende superfluo trascinare a mano oggetti pesanti. Chi viaggia in aereo ha i tre princìpi riuniti in uno: l’aereo sostituisce le ali che non ci sono cresciute, batte in modo assoluto tutte le capacità organiche di volo e risparmia fatiche dirette a chi vuole recarsi in posti molto lontani.
L’intellettualità dell’uomo, che in ultima analisi è e rimane un enigma, sarebbe del tutto inesplicabile se non la potessimo vedere in rapporto alle imperfezioni degli organi e de...
Indice dei contenuti
- Nota dei curatori
- Fonti
- Parte prima
- Introduzione. Arte e tecnica: vecchie e nuove forme di dissidio e di alleanza
- 1. Che cos’è la tecnica?
- 1.1. L’uomo e la tecnica
- 1.2. Il ruolo dell’inorganico nell’evoluzione dell’uomo
- 1.3. L’«impianto»: il carattere enigmatico della tecnica moderna
- 1.4. I media: le estensioni artificiali della sensibilità
- 1.5. La rete: la globalizzazione e il marketing dell’esperienza
- 2. L’impatto sull’estetica
- 2.1. Operazione e metaoperazione. L’arte come risvolto riflessivo della tecnica
- 2.2. «Impianto» e «poiesis». L’arte come possibile filo conduttore nell’enigma della tecnica moderna
- 2.3. Tecnopsicologia e nuovi orizzonti sensoriali. L’arte come esplorazione delle innovazioni tecniche
- 2.4. Produzione industriale di esperienza estetica. L’arte come merce e «public relations»
- Parte seconda
- Introduzione. Nec tecum nec sine te. Le arti e la tecnica
- 3. L’impatto sull’opera d’arte
- 3.1. La radio, un «medium» creativo
- 3.2. La riproducibilità dell’opera d’arte
- 3.3. L’estetica tecnologica
- 3.4. Dall’artigianato all’arte industriale: il Bauhaus
- 3.5. Nuova musica, nuove tecnologie
- 3.6. Forme e significati della composizione elettronica
- 4. L’orizzonte delle ipertecnologie
- 4.1. Una prefigurazione della Rete
- 4.2. Dal pennello al computer
- 4.3. Estetica del virtuale
- 4.4. La bomba digitale
- 4.5. Le arti nel cyberspazio
- 4.6. La tecnica oltre la Tecnica: Andy Warhol
- Bibliografia