L'ordine giuridico medievale
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L'ordine giuridico medievale

Paolo Grossi

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L'ordine giuridico medievale

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L'esperienza giuridica medievale si pone come un pianeta separato e distinto da quello moderno: un insieme di valori fortemente incisivi e largamente diffusi creano una particolare mentalità giuridica e impongono precise scelte e soluzioni per i grandi problemi della vita associata.Su questa base Paolo Grossi ricostruisce magistralmente tale mentalità, assumendo a sue fedeli cifre espressive in primo luogo i vari istituti che organizzano la vita di ogni giorno, ciò che oggi noi chiameremmo 'diritto privato'.Ne emerge una civiltà intimamente giuridica, perché fondata su un ordine che è offerto dal diritto e che sul diritto si incardina. A fronte di una tumultuosa superficie politico-sociale, fa spicco la saldezza e la stabilità della costituzione sottostante, l'ordine giuridico appunto, garanzia e salvataggio della civiltà medievale. E, per questo, uno dei suoi messaggi storici più vivi e vitali.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858130346
Argomento
Diritto

VI.
La maturità d’una esperienza giuridica
e le sue tipicità espressive

1. Tra XI e XII secolo: continuità e maturità di tempi
Un non dimenticabile storico italiano, Gioacchino Volpe, ha parlato del secolo undicesimo come di un tempo «ricco di origini»1. Frase felice e suggestiva, ma che reca in sé un grosso rischio: quello di avvalorare l’idea dell’avvio sostanziale di un tempo ‘nuovo’, con la conseguenza di insistere su un divenire discontinuo ponendo una cesura fra il prima e il poi. Per lo storico della civiltà medievale e, in particolare, per lo storico del diritto, il secolo XI – e soprattutto la seconda metà del secolo XI – appare piuttosto come uno straordinario momento di maturità: i tempi sono maturi per raccogliere i frutti di tante seminagioni altomedievali lente ma costanti.
Cominciamo con alcuni dati strutturali. Alla fine del secolo XI il paesaggio agrario di buona parte dell’Europa occidentale appare significativamente mutato: i tenaci dissodamenti che cominciano in guisa massiccia dal 950 in Fiandra, in Normandia, in Beaujolais, per continuare largamente in Spagna e poi nella Germania occidentale, nei Paesi Bassi, nell’Italia settentrionale e più tardi ancora in Inghilterra, con un grandioso processo spaziante dal X al XII secolo, incidono sul volto di questo paesaggio ormai dominato da campi coltivati. Con il risultato elementare ma rilevantissimo di una assai maggior quantità di prodotti agrari disponibili e di una attenuazione notevole dell’antico incubo della fame e della sopravvivenza quotidiana. Si produce di più, si mangia di più, si nasce di più.
La crescita demografica è cospicua, e il paesaggio appare sempre più popolato. La stessa psicologia collettiva si modifica. L’incontro solidale tra gli uomini, loro perenne salvataggio, comincia ora a realizzarsi in una diversa orientazione: se nei secoli protomedievali gli uomini si incontravano chiudendosi verso l’esterno paghi di rinserrarsi nella protezione murata del castello, ora la sede ideale per l’incontro comincia ad essere la città, una comunità di uomini e case disponibile verso l’esterno, vocata – per propria natura – ad allacciare relazioni e a porsi al centro di un reticolato di queste, sempre situata su grandi arterie di comunicazione che le portano sangue e vita.
Il vecchio affidamento nel sociale si appagava di inserire il povero e incapace individuo nella nicchia protettiva di una micro-comunità pensata come sostanzialmente isolata. D’ora in avanti, l’affidamento nel sociale significa anche insofferenza verso vecchie chiusure mentre si allarga sempre più il tessuto di relazioni. Conviene ripetere qui quanto scrivevamo nel nostro antico corso sulle situazioni reali: la città non è un ammasso di pietre, non è una maggior quantità di uomini e case ammassati e organizzati entro certe mura: essa è soprattutto un atto di fiducia collettiva perché è comunità aperta, proiettata verso l’esterno e che non ha paura di affermare la sua dipendenza dall’esterno.
Ed emerge un altro segno indubbio di fiducia collettiva: la migliore qualità intrinseca e la maggior circolazione della moneta. Ed emerge, e prende sempre più consistenza, in un sempre più fitto tessuto di relazioni, un soggetto sostanzialmente nuovo: il mercante professionista. Ci sono più prodotti, con un immancabile esubero di taluni di essi in talune località; si rende necessario lo scambio, è necessaria la presenza dell’ingranaggio insostituibile di ogni scambio: il mercante. Non più la permuta tra prodotti che interveniva nel rudimentale mercato del villaggio protomedie­vale, ma la capacità e l’intraprendenza di un soggetto che, caricandosi di rischi pesanti, fa della intermediazione negli scambi il proprio mestiere; soggetto, nell’intimo delle sue ossa, cittadino, viaggiato­re infaticabile, insofferente a chiusure e frontiere come richiede il sempre maggior dilatarsi del raggio d’azione dei suoi traffici ed affari.
Ma il mutamento non si limita al paesaggio strutturale e investe pienamente la dimensione spirituale della società, la sua coscienza più profonda, esprimendosi in una riflessione diffusa e affinata che percorre tutte le scienze umane, a cominciare dalla teologia, scienza delle cose divine ma che, in questo nostro medioevo, si interroga, come sappiamo, sui grandi problemi dell’uomo nei suoi rapporti con Dio, con il cosmo, con la società. Singolare sintonia che sempre le maturità dei tempi ci mostrano, segnalandoci le misteriose scansioni del corso della storia.
Nel clima sollecitante della riforma gregoriana, quando il conflitto fra Chiesa e Impero scuote vecchie certezze e turba vecchi sopori, si assiste a un movimento che non ha riscontro nel periodo precedente: si discute e si dibatte; il monologo che nel chiuso di un chiostro il sapiente altomedievale redigeva – e talora a livello elevatissimo –, diventa naturalmente dialogo; le idee circolano assai più di prima, e assai più di prima il contemplatore solitario cede a una realtà naturalmente dialogica: la scuola. Ormai non si tratta quasi più di voci isolate ma di centri che amplificano, approfondiscono, problematizzano un certo programma culturale. Vengono alla mente subito la grande scuola di Chartres (che abbiamo già ricordato) e, soprattutto nel secolo XII, il convento parigino di San Vittore con l’epifania corale dei cosiddetti ‘vittorini’. La cultura si fa ricchezza assai più diffusa e la scuola lascia le mura segreganti del monastero per scendere nelle città, nel cuore delle città, spesso accanto alle chiese cattedrali, nei crocevia più affollati dove arrivavano e da dove si dipartivano strade di remota congiunzione spaziale. A un mondo tendenzialmente statico sembra sostituirsi un mondo assai più dinamico, contrassegnato da una circolazione intensa, che investe tutti i livelli della vita.
Dirà il lettore che molto, troppo appare mutato in questo crinale storico rappresentato dalla fine dell’XI e gli inizii del XII secolo; impressionato dalle variazioni or ora puntigliosamente indicate – apertamente manifeste solo in questo momento, anche se lentamente preparate e sedimentate –, egli si sentirà in diritto di credere che il continuum dell’esperienza si è interrotto e che quel crinale segna un confine netto. Certo, il mutamento è indubbio, e indubbii gli aspetti nuovi; relativamente al momento che stiamo osservando c’è indubbiamente un prima e un poi. Il problema che ci si offre è se si tratti veramente, come nell’immagine volpiana, di un tempo ricco di origini e se può dedursi una smentita di quella unità esperienziale ricomprendente l’intero evo medio, su cui abbiamo tanto insistito nelle premesse. È evidente di no, ma si pone a noi un dovere di dimostrazione, alla quale passiamo senza indugi.
2. I segni della continuità: il «princeps-iudex» e la produzione del diritto. Il potere politico come «iurisdictio»
La tradizione antica che identificava nel principe il giudice supremo dei proprii sudditi e nella giustizia la sua funzione primaria e anche la sua primaria virtù era stata, come sappiamo2, integralmente raccolta, ai primi del secolo VII, da sant’Isidoro, che l’aveva trovata congenialissima con tutto l’ideario protomedievale e che, maestro letto e seguìto, l’aveva trasmessa alla politologia successiva: «Reges a regendo vocati [...] non autem regit, qui non corrigit [...]. Unde et apud veteres tale erat proverbium: ‘Rex erit, si recte facias; si non facias, non eris’. Regiae virtutes praecipuae duae: iustitia et pietas»3.
È una concezione che troviamo intatta, a metà del millecento, nel primo grande trattato di filosofia politica del momento sapienziale scritto dal prelato inglese Giovanni di Salisbury dove il principe è ritratto quale «imago aequitatis»4 e nella riflessione conclusiva di san Tommaso, il definitore delle certezze medievali, dove, sulla scorta di un preciso insegnamento aristotelico, si insiste sul principe come «custos iusti», custode di ciò che è giusto5; è ovviamente patrimonio comune dei giuristi6.
Di questo princeps-iudex attributo (e funzione) essenziale e tipizzante non è una impensabile creazione del diritto, ma quanto l’ideario medievale esprime con il concetto di iurisdictio. Un termine latino (e non sarà il solo) che, per la sua specificità destinata ad essere irrimediabilmente tradìta dal corrispondente italiano ‘giurisdizione’, lasceremo intradotto non per un vezzo di cultismo ma perché intraducibile.
Iurisdictio è, in senso stretto, la funzione del giudicare propria del giudice ordinario, ma – anche e soprattutto – qualcosa di più alto e di più complesso: è il potere di colui – persona fisica o giuridica – che ha una posizione di autonomia rispetto agli altri investiti e di superiorità rispetto ai sudditi; e non è questo o quel potere (in una visione spasmodicamente frammentaria che è di noi moderni7 ma che non fu dei medievali), bensì una sintesi di poteri che non si ha timore di vedere condensata in un solo soggetto8. Con questa avvertenza fondamentale: che in quella sintesi di poteri la funzione emergente e tipizzante è quella del giudicare: si è prìncipi perché si è giud...

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