Humanitas: romani e no
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Humanitas: romani e no

  1. 20 pagine
  2. Italian
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Humanitas: romani e no

Informazioni su questo libro

Il lettore si rassicuri: l'autore diffida quanto lui della parola humanitas perché questa parola è vaga ed elogiativa al tempo stesso; indica gli esseri umani che sono degni del nome di uomo perché non sono né barbari, né inumani, né incolti. Humanitas vuol dire cultura letteraria, virtù di umanità e stato di civiltà; il nostro compito, sarà quindi quello di chiederci che cosa era l'uomo romano o piuttosto che cosa pretendeva di essere, che cosa intendeva per civiltà e quali caratteri hanno distinto la civiltà romana (o piuttosto greco-romana) dalle altre grandi civiltà. Ma tutti gli uomini sono umani? Lo schiavo e il barbaro sono uomini? Uomini e no: l'umanità e il genere umano sono la stessa cosa? Che opinione avevano i Romani del loro imperialismo? Il pensiero antico è stato universalista, ha proclamato l'unità del genere umano?Acquista l'ebook e continua a leggere!

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Informazioni

Argomento
Storia
Categoria
Storia antica

«Humanitas»: romani e no

Il lettore si rassicuri: l’autore diffida quanto lui della parola humanitas perché questa parola è vaga ed elogiativa al tempo stesso; indica gli esseri umani che sono degni del nome di uomo perché non sono né barbari, né inumani, né incolti. Humanitas vuol dire cultura letteraria, virtù di umanità e stato di civiltà; il nostro compito, sarà quindi quello di chiederci che cosa era l’uomo romano o piuttosto che cosa pretendeva di essere, che cosa intendeva per civiltà e quali caratteri hanno distinto la civiltà romana (o piuttosto greco-romana) dalle altre grandi civiltà. Ma tutti gli uomini sono umani? Lo schiavo e il barbaro sono uomini? Uomini e no: l’umanità e il genere umano sono la stessa cosa? Che opinione avevano i Romani del loro imperialismo? Il pensiero antico è stato universalista, ha proclamato l’unità del genere umano?
Liberiamoci subito dello studio della parola; questo termine humanitas è servito all’inizio per rendere la parola greca paideia: «è in Grecia che sono state scoperte l’humanitas, le lettere e la coltivazione delle piante», scrisse Plinio il Giovane (Lettere, 8, 24, 2). L’umanità distingue l’uomo civilizzato dal selvaggio che vive di raccolta; distingue anche il letterato (e più in generale l’uomo ben educato e di buona famiglia, pepaideumenos) dalle persone rozze e dai membri poco istruiti della classe possidente che, per la loro incultura, non fanno onore alla loro classe. Inoltre humanitas corrisponde anche a un’altra parola greca, philanthropia: la qualità di un uomo non duro né altezzoso, che faceva di più di quanto richiedesse una stretta giustizia o che non reclamava tutto il suo dovuto. Nei testi giuridici, ad esempio, l’umanità di un giudice o dell’imperatore si manifesta in favori personali, in provvedimenti di clemenza, in condoni fiscali (tale era già la «filantropia» dei sovrani ellenistici). Tutti gli uomini appartengono al genere umano, ma, come si vede, alcuni sono più umani degli altri: non vivono come gli animali selvaggi, non sono inumani o addirittura sono impregnati di ciò che un giorno si chiameranno gli studi umanistici.
L’humanitas è dunque un merito piuttosto che un tratto universale. Quando è merito di un individuo, dà una carica di dolcezza alla giustizia comune o ne tempera il rigore (Cicerone, Ad Attico, 4, 6, 1). Quando è merito di una società intera, rappresenta un arricchimento della semplicità primitiva: tutti gli uomini mangiano e lavorano, ma non tutti scoprono le arti, le tecniche, le belle lettere. A queste articolazioni si aggiunge un progresso interiore degli individui. I selvaggi sono allo stesso tempo troppo rigidi e non lo sono abbastanza non sanno concedere niente all’umanità, non sanno resistere agli impulsi; l’humanitas ammorbidisce questa durezza, mentre la legge insegna a disciplinarsi (Cicerone, In favore di Celio, 11, 26; dove humanitas atque leges si oppone a silvestris coitio). Rimane però un’inquietudine: questa umanizzazione non produrrà forse effeminatezza (Cesare, La guerra gallica, 1, 1, 3)? La civilizzazione, che ammorbidisce le anime, le indebolisce e le prepara alla schiavitù (Tacito, Agricola, 21, 3; cfr. Storie, 4, 64).
Che la si veda come progresso o come motivo d’inquietudine l’humanitas corrisponde comunque a ciò che noi stessi chiamiamo ancora civilizzazione: una modificazione interna dell’uomo, e insieme un’estensione dell’azione umana sul mondo esterno: città, case di pietra, edifici pubblici, agricoltura, studio dell’eloquenza (Tacito, Agricola 21, 1-2). Come le piante, gli esseri umani esistono dunque sotto due forme: gli uni vivono allo stato selvaggio, gli altri sono resi migliori dalla cultura (Cesare, La guerra gallica, 1, 1, 3; Cicerone, Dei fini, 5, 19, 54; Tuscolane, 2, 5, 13). Questo è il grande salto di cui hanno beneficiato alcuni popoli: hanno scoperto la civiltà (Vitruvio, 2 pref. 5). L’impero greco-romano, con i suoi tre milioni e mezzo di kmq, è un’isola di civiltà attorniata dai barbari (Strabone, fine del libro 6); il pagano Celso (cit. da Origene, Contro Gelso, 8, 68, in PL 11, p. 1620) lo fa notare ai cristiani: se il regime imperiale crollasse, il mondo cadrebbe preda di barbari feroci e ignoranti; il cattolico sant’Ottato lo farà notare ai Donatisti, gli scismatici ribelli al santo imperatore: «lo Stato non è nella Chiesa, ma anzi la Chiesa nello Stato, cioè nell’Impero romano; è qui che sono i santi sacerdozi e il pudore delle vergini consacrate, cose che non esistono presso i barbari o che non vi sarebbero al sicuro, se vi fossero» (Lo scisma di Donato, 2, 3 in PL, 11, p. 1000 A).
Si deve dunque credere che al di fuori dei popoli ellenici o ellenizzati non esistevano che ignoranza o brutalità? I Greco-romani, che non erano né ingenui né più etnocentrici della media degli uomini, non ne erano sempre certi; quando non erano contenti di loro stessi si chiedevano se i barbari non fossero i soli ad aver conservato la purezza e il vigore originari. L’Impero è civilizzato o decadente? Essi oscillavano tra l’ipotesi di una selvatichezza originaria e quella di una autenticità originaria. Si domandavano anche se l’umanità primitiva fosse vissuta in uno stato di ignoranza o se, al contrario, non avesse avuto in dono la vera filosofia che in seguito era stata dimenticata o alterata; alcuni popoli molto antichi (Egizi, Indiani, Etiopi, Caldei e gli stessi Ebrei) avevano conservato una saggezza e una religione molto arcaica in cui bisognava istruirsi con raffinatezza (come fecero Apollonio di Tiana, Giamblico e molti altri). Dato che la civiltà non è fatta d’invenzioni, ma di scoperte, dov’è che si scopre qualche cosa? Negli stranieri quando sanno quello che noi ignoriamo, oppure nella natura stessa.
L’idea che gli antichi si fanno delle scoperte e del passaggio alla civiltà è dunque molto differente dall’idea contemporanea di progresso. Bisogna evitare di leggere con una visione moderna l’epicureo Lucrezio, che è considerato erroneamente come un precursore del nostro concetto di progresso; le idee di Lucrezio non sono diverse da quelle di Platone o degli stoici. Le scoperte della civiltà non rivelano un ordine della cultura che viene a sovrapporsi alla natura e che permette all’uomo di svincolarsi dalla fatalità naturale; al contrario, esse sono prefigurate nella natura; la scoperta umana del linguaggio nasce imitando il canto degli uccelli. Bisogna sapere, in effetti, che i segreti della natura sono ben nascosti: non li si svela che poco a poco, non si possono scoprire che progressivamente, passo passo, pedetentim progrediens, come dice Lucrezio; questa progressività prova più la debolezza del genio umano che la sua potenza. Così pure, come constata tristemente Seneca, restano ancora molte cose che saranno scoperte solo in futuro.
Queste scoperte graduali sono un vero «progresso» di cui bisogna felicitarsi, come ha fatto il XIX secolo? Sì e no: ne risultano cose buone e cose cattive; i selvaggi morivano di fame, dice Lucrezio, gli uomini civilizzati muoiono d’indigestione. Ma c’è di più: se il pensatore è di cattivo umore, egli decreta che ciò che si chiama civiltà dovrebbe piuttosto chiamarsi decadenza. L’idea moderna di progresso implica le nozioni di cultura (opposta a natura), d’invenzione (opposta a scoperta) e di futuro radioso. Ritorneremo altrove sulle innovazioni tecniche e le imprese degli ingegneri antichi.
Civilizzati nel bene come nel male, gli abitanti dell’Impero sanno che il mondo è vasto e che non sono i soli a essere civilizzati. I mercanti...

Indice dei contenuti

  1. «Humanitas»: romani e no