1478. La congiura dei Pazzi
di Franco Cardini
Primavera fiorentina
Che le cose stessero irreversibilmente cambiando, nella repubblica di Firenze tanto gelosa e orgogliosa della sua libertas – che nella pratica significava da almeno un’ottantina d’anni, nonostante le molte e feroci lotte di fazioni, il controllo oligarchico delle istituzioni e degli strumenti elettorali per accedere ad esse –, lo si era ormai capito da oltre un quarto di secolo: da quando, nel 1434, Cosimo di Giovanni de’ Medici era tornato dall’esilio, aveva cacciato a sua volta dalla città i capi delle famiglie del partito avversario e aveva inaugurato quella ch’è stata definita la sua «criptosignoria», come principe di fatto che evitava però accuratamente qualunque segno esteriore del principato.
Ma in quella primavera del 1459 ci si accorse che il clima era cambiato. Cosimo aveva già 70 anni, età ragguardevole a quel tempo; suo figlio Piero, il «Gottoso», appariva debole nel carattere e nella salute. Il vecchio padre-padrone della città pensava a una successione solida: e non gli bastava, per i suoi discendenti e per la sua schiatta, il potere di fatto di cui egli si era accontentato.
Tra la fine d’aprile e i primi di maggio del 1459 papa Pio II passò per Firenze, provenendo da Roma e diretto a Mantova dov’era stato da lui indetto un congresso delle potenze dell’Europa cristiana per lanciare finalmente una definitiva crociata, che avrebbe riconquistato Costantinopoli – dagli ottomani occupata nel 1453 – e proseguito poi fino alla liberazione di Gerusalemme. I fiorentini non avevano alcuna intenzione di prender parte all’impresa: ma è naturale che non potessero dichiararlo apertamente. Intanto organizzarono per il pontefice una splendida accoglienza, con tornei, balli, cacce, banchetti. Dopo la «giostra» (scontro di coppie di cavalieri che giocavano a disarcionarsi), disputata in piazza Santa Croce il 29 aprile, il ballo in Mercato Nuovo e la «caccia» in piazza dei Signori, si tenne un banchetto nel nuovo palazzo dei Medici, quello che Cosimo si era fatto costruire dall’architetto Michelozzo in via Larga, non lungi dalla venerabile basilica di San Lorenzo. Era la prima volta che il palazzo di un privato cittadino ospitava una cappella, privilegio fino ad allora riservato ai principi e ai capi di governo: al suo interno, il pittore Benozzo Gozzoli avrebbe affrescato più tardi un tipico tema regale, la cavalcata dei magi.
Alla fine del banchetto, al quale beninteso non era presente il papa ma partecipavano il conte di Pavia – cioè Galeazzo Maria, figlio di Francesco Sforza duca di Milano e grande amico di Cosimo – e i signori romagnoli, si tenne un’armeggeria nella sottostante strada opportunamente cosparsa di sabbia e illuminata di fiaccole.
Il «messere» dell’armeggeria, vale a dire il signore, il mecenate, l’organizzatore e il capo degli armeggiatori – che erano in numero di dodici serviti ciascuno da un «ragazzo» e da venticinque famigli in livrea, cioè vestiti dei colori che ripetevano quelli della «divisa» del rispettivo signore – fu il giovanissimo nipote di Cosimo, Lorenzo di Piero. Il giovinetto, allora appena decenne, sfoggiava per l’occasione un proprio stendardo bianco, verde e rosso (si tratta di colori molto comuni nelle gare cavalleresche, dotati di un contenuto intenso simbolico, tanto teologico quanto morale e cavalleresco) recante, ricamata, l’impresa di un falcone volante d’oro che veniva catturato da una rete gettatagli sopra e che spargeva attorno le penne.
Gli armeggiatori, splendidi nella festa notturna illuminata da centocinquanta «doppieri», grandi candelabri, erano i rampolli di alcune tra le più insigni famiglie dell’oligarchia fiorentina del tempo: due della Luna, due Pazzi, un Portinari, un Boni, un Bonsi, un figlio di Francesco Ventura, uno di Dietisalvi Neroni. La festa era completata da un «trionfo di notte», da un carro allegorico decorato e probabilmente provvisto di fuochi d’artificio come in quei casi era consueto.
Sotto le finestre della nuova casa Medici e sotto gli occhi di alcuni nobili alleati della repubblica di Firenze, si rese allora omaggio al nipote di Cosimo che già appariva candidato a succedere al nonno: più di quanto non lo fosse suo padre, quel Piero detto il «Gottoso», malfermo tanto di carattere quanto di salute. Quel che si festeggiò, allora, fu anche la nuova dimora della grande famiglia, il palazzo michelozziano da poco eretto e non ancor terminato.
Quello fu il segnale che la stirpe mercantesca e bancaria nutriva ormai, nei confronti di Firenze, non un sogno, ma un vero progetto di principato. A molti membri delle famiglie che le erano fino ad allora state alleate, ciò non poteva piacere. Già l’anno prima, del resto, c’era stato un tentativo di colpo di Stato cui si era posto, non senza fatica, rimedio.
L’«età laurenziana»
Nel 1464 venne a mancare Cosimo, cui succedette nella pratica – poiché la signoria medicea in Firenze non aveva ancora alcuna base giuridico-costituzionale – suo figlio Piero. I veneziani cercarono allora di appoggiare la fazione oligarchica in maniera che essa riuscisse a rovesciare il potere mediceo e a ricondurre Firenze all’alleanza con Venezia, abbandonando quella con la Milano sforzesca.
Cosimo aveva lasciato al figlio Piero, quale testamento spirituale, le parole da lui pronunciate due anni prima: «el non se po’ governare un populo como se governa un particulare signore», con cui intendeva significare che i Medici dovevano ancora tener conto dell’opinione pubblica e rispettare la legalità repubblicana, per quanto ormai largamente formale. Piero, da lungo tempo malato di gotta e amante più degli studi che della politica, all’inizio commise l’errore di esigere la riscossione dei crediti del padre e fu anche indebolito dalla morte nel 1466 di Francesco Sforza, che si era mantenuto fedele amico di Cosimo.
In quello stesso anno, tuttavia, egli riuscì a sfuggire a una congiura tesa a togliergli il potere e forse addirittura a ucciderlo, ordita da alcuni patrizi con l’appoggio delle truppe del marchese di Ferrara, Borso d’Este. In quell’occasione, il suo adolescente primogenito Lorenzo (1449-1492) aveva dato prova di energia e di coraggio: ed era stato eletto – incostituzionalmente – in una «balìa», un governo straordinario che si era formato per quell’occasione. Perdonando tuttavia i congiurati, tra i quali v’era Luca Pitti, vecchio fedele collaboratore del padre, Piero dava prova di magnanimità e di saggezza, riuscendo così a rafforzare il suo potere: nell’episodio scomparvero comunque alcuni illustri oppositori di Piero ch’erano stati tra i più prestigiosi alleati di suo padre, come Niccolò Soderini, Agnolo Acciaioli, Dietisalvi Neroni. Più tardi, nel 1467, a Molinella, i fiorentini sconfiggevano anche i mercenari di Bartolomeo Colleoni, assoldati da alcuni fuorusciti, e concludevano una lega insieme con Milano e Napoli contro i veneziani, sospettati di aver armato la mano del Colleoni. Firenze acquistava inoltre da Genova, per 25.000 fiorini, Sarzana, Sarzanello e i castelli della Lunigiana.
Quando, il 2 dicembre 1469, si conclusero i giorni terreni di Piero de’ Medici, il patriziato fiorentino si trovò lacerato: alcuni propendevano per mantenere la situazione caratterizzata dal prepotere della famiglia che abitava il palazzo di via Larga, altri per il ritorno a un regime oligarchico più allargato. A risolvere la situazione fu Tommaso Soderini, zio acquisito per parte materna di Lorenzo – aveva sposato nel 1442 Dianora Tornabuoni, sorella di Lucrezia che sarebbe l’anno successivo diventata moglie di Piero –, il quale aveva riunito un buon gruppo di esponenti delle principali famiglie fiorentine nella chiesa di Sant’Antonio e li aveva persuasi a perseverare sulla via già tracciata. Il giorno dopo, alcuni dei convenuti a quella riunione si recarono alla dimora medicea e chiesero al figlio maggiore di Piero di assumersi la cura della politica cittadina, investendolo in tal modo della preminenza già goduta nel «reggimento» dal nonno e dal padre; nel suo ruolo egli si sarebbe associato il fratello minore Giuliano, di quattro anni più giovane di lui.
Lorenzo, appena ventenne, sposo di fresco della principessa romana Clarice Orsini, era stato il primo della sua famiglia a maritarsi fuori dalla cerchia degli eminenti casati cittadini, secondo un progetto già elaborato dal nonno Cosimo e che chiaramente intendeva far della famiglia, nel giro di un paio di generazioni, una grande dinastia principesca europea.
Egli non doveva deludere le aspettative dei suoi sostenitori. Educato raffinatamente dalla madre, la colta Lucrezia Tornabuoni, di mente acuta e maniere gentili, non era bello: aveva un volto irregolare e un timbro di voce sgradevolmente nasale ma sapeva poetare, cavalcare e non era insomma affatto privo di fascino. Soprattutto, possedeva appieno le doti per affermarsi nell’età in cui viveva: spiccate qualità diplomatiche, un eccellente intuito politico, un carattere forte e deciso, una certa flessibilità che riusciva a comunicare in chi lo avvicinava un’impressione di semplicità e di schiettezza ma che, quand’era necessario, si accompagnava a una durezza spietata.
Lorenzo sarebbe passato all...