L’albergo da un letto
Due giovani non possiedono che il proprio amore. I capelli di lei sono anche di lui. Le mani di una sono in quelle dell’altro, e quelle di entrambi sono vuote di denaro. Vorrebbero sposarsi ma non basta mostrare il proprio amore al concilio della città , bisogna mostrare al governatore il certificato di proprietà di una casa. È il 1728 ad Amberg, antica cittadina bavarese attraversata dal fiume Vils, e un mercante ha un’idea per aiutarli: trasformare quei due metri e cinquanta di granaio in una casa da vendergli esclusivamente per il tempo necessario a che diventino moglie e marito. Poi la casa passerà a un’altra coppia bisognosa. Oggi questa casa è diventata l’Eh’Häusl, l’albergo che ha un solo letto. Naturalmente matrimoniale. Si narra che le coppie che ci dormano siano destinate ad amarsi per sempre. Per questo siamo in viaggio verso Amberg, per avere un’assicurazione in più sul nostro amore.
Di fronte all’hotel in cui ci fermiamo per una prima tappa a Monaco c’è il Dolly Bar, uno strip-club aperto fino al mattino. Ce ne sono anche altri in tutta la strada, le silhouette di donne nude disegnate sulle vetrine popolano il marciapiede, ma ognuno di questi locali per noi prende il nome di Dolly Bar. Anche per riferirci all’hotel diciamo l’hotel Dolly Bar. Di notte mi sveglio più volte, sposto la tendina della finestra e osservo le spogliarelliste fumare sull’uscio, parlare fra loro, provare a fermare qualche passante, alle cinque ne vedo una che beve ancora un’altra birra. Sapere che sono lì fino al risveglio mi regala un senso di calma e di serenità . «Che fai, guardi le bimbe?», mi chiede lei. «Sì», rispondo io, e torno a letto fino all’ora successiva, fino a quando poi le bimbe non ci sono più, la saracinesca del Dolly Bar è abbassata e noi dobbiamo fare le valigie per andare a mettere al sicuro i sentimenti.
«Ti avevo detto di non parcheggiare così lontano!», mi dice lei mentre camminiamo in cerca dell’albergo mimetizzato fra le altre case più grandi. Abbiamo appuntamento con Ramona, la signora che ci consegnerà le chiavi. «Al telefono aveva una voce giovane», precisa lei ma per me se ti chiamano Ramona nasci già adulta, sei già Ramona come ti immagino: felicemente in carne, i capelli biondi legati in cima perché sono troppi, incontenibile come la risata contagiosa in cui scoppi dopo ogni frase e la tua famiglia si tramanda da sempre questo nido d’amore di cui non vedi l’ora di raccontarci tutta la storia. «Ma dov’è?», ci chiediamo proprio mentre oltrepassiamo il numero 8 di Seminargasse, una stradina di case colorate, incastrate l’una nell’altra come i giochi di costruzione per bambini. Quella rossa è la nostra, l’Eh’Häusl. Tutti i particolari architettonici la fanno sembrare una casetta delle favole: il tetto a punta, le due finestre che paiono disegnate, la porta di bronzo su cui è illustrata in rilievo la storia della giovane coppia povera. In cima, racchiusa in una nicchia c’è una statuetta che contrassegna gli edifici storici della città .
Una giovane ragazza viene verso di noi. La prima cosa che noto è il foulard avvolto attorno al collo, le colora la giacca nera di verde, di giallo e di arancione. I capelli sono ordinati in due trecce che le cadono leggere ai lati delle spalle. Le sopracciglia sono curate e sottilissime, gli occhi grandi e le guance rosse di fard le dipingono un viso di porcellana che però non ha nulla di fragile o di delicato. Dal modo in cui regge sotto il braccio una cartellina portadocumenti avverto invece ordine e rigore, sta facendo il suo lavoro. Ha meno di trent’anni, la sua famiglia non si tramanda da generazioni la casa e lavora per l’agenzia immobiliare che nel 2008 ha comprato e ristrutturato l’albergo. Non sa dirci molto di più di ciò che c’è scritto in caratteri gotici sulla lettera di benvenuto. Immagino sia stata stampata qualche ora prima con i nostri nomi. Già domani verrà buttata in un cestino. Ha poco tempo per parlare perché deve tornare in ufficio e portarsi avanti con il lavoro, la settimana prossima è in ferie, si sposa. Le chiedo se passerà qui la prima notte di nozze: «No», mi risponde, «dopo il matrimonio voglio tornare a casa mia». Detto questo, prende un portachiavi a forma di cuore, spinge la maniglia che ha sopra due cuori, e temo all’apertura di trovare un altro cuore gigante, enorme, che lascia libere solamente due fessure da cui passare per andare a stendersi sull’unico letto che c’è.
Ramona apre la porta e le note di Libiamo ne’ lieti calici irrompono nel silenzio della stradina, ci strattona con forza e ci proietta in un mondo barocco su quattro piani. All’ingresso ci accoglie una statua di marmo bianco raffigurante Romeo e Giulietta abbracciati voluttuosamente. Una porzione di pavimento lucente, intagliata nel parquet, li illumina dal basso conferendogli ancora più pathos. Siamo gli unici ospiti dell’albergo ma non siamo soli: putti d’argento suonano flauti a ridosso della scala color avorio che conduce dalla sala della colazione al salotto, salendo per la camera da letto fino alla mansarda. Nel tragitto incontriamo affreschi in stile pompeiano sui muri color crema, donne alate che reggono candelabri al neon e una cariatide che sostiene il tetto della mansarda al cui centro troneggia una vasca idromassaggio. «Non la riempite oltre questo livello, please», ci chiede Ramona, mettendo un limite al lasciarsi andare.
Qui dentro ho l’impressione che l’amore venga accuratamente pianificato, controllato e somministrato con moderazione. Io invece penso che potremmo allagare tutto. I lampadari di cristalli e gli specchi dalle cornici d’oro creano una luce e un’atmosfera calde. Una mini-reggia con le sue regole. In salotto Ramona ci mostra come accendere il camino elettrico. È il 3 luglio, ma se magari mettiamo l’aria condizionata intorno agli zero gradi possiamo riscaldarci romanticamente. Nascosti in uno scomparto sotto lo schermo piatto del televisore ci sono il lettore cd e quattro pulsanti per azionare la filodiffusione nei diversi ambienti. Ad ogni piano si trovano una bottiglietta di champagne e due bicchieri. In ventiquattro ore una coppia potrebbe brindare incessantemente a qualcosa: a noi, a noi due, a te e a me, al domani, a oggi, a ieri che ci siamo conosciuti, a chi ci vuol male, a chi ci vuol bene, a chi finge di volerci bene ma ci vuol male e viceversa, evviva, che bello, vuoi sposarmi? Vuoi risposarmi?
Io le chiedo: «Usciamo?».
Appunto su un taccuino le coppie che incontriamo nella passeggiata pomeridiana. Sono appunti veloci perché le coppie sono tante e non faccio in tempo a censirne una, che già devo censirne un’altra.
1) Giovane coppia incontrata appena usciamo dalÂl’Eh’Häusl, sono di queste parti, lei gli sta raccontando la storia della casa, lui ride.
2) Coppia multirazziale, lei porta il bimbo, lui una bottiglia di birra.
3) Bionda + lui rossiccio.
4) Donna con bimbo su carrozzina viola.
5) Donna che spinge un carrello della spesa, seguita dalla figlia grande che porta la sorellina nella carrozzina.
6) Coppia anziana seduta alla panchina, non si dicono nulla. È il problema delle panchine, appena ti ci siedi non ti viene più niente da dire.
7) Due giovani che pediniamo per qualche metro. Hanno lo stesso tatuaggio sugli avambracci, si muove con loro e s’intreccia, li tiene più uniti.
8) Mamma + figlia.
9) Altra mamma + altra figlia.
10) Coppia con cane di razza bulldog.
11) Donna incinta (Anche se l’uomo non c’è, sono comunque una coppia).
Mi fermo perché sono troppe e dopo un po’ perdo la voglia di descriverle anche soltanto con un aggettivo, così diventano semplicemente: uomo+donna, donna+uomo, donÂna+bambino, fino a tramutarsi in inchiostro invisibile. Sono un esercito di gente mano nella mano, mano sulla carrozzina o mano sopra la pancia e non mi rendono felice. Mi aspettavo di sapere di più sull’Eh’Häusl. Avrei voluto conoscere i nomi della prima giovane coppia che l’ha acquistata, i nomi dei loro figli e dei loro nipoti, avrei voluto conoscere nei dettagli la storia del mercante e l’attuale indirizzo dei suoi discendenti per andare a trovarli e chiacchierare di quando nessuno di noi era ancora nato. Ma non puoi chiacchierare con una leggenda, una leggenda non ha indirizzo perché esiste nel ricordo e nel passaparola, e il passaparola è fatto di voci di cui non si conosce mai il volto. All’ufficio turistico però incontriamo un’impiegata dal volto simpatico. Ci dice che purtroppo l’albergo è solo un esercizio commerciale e che della sua vera storia se ne sa poco. Ci sta ancora più simpatica quando ci dà il nome dell’archivista della città : «Andate domattina da lui, potrà sicuramente dirvi di più, si chiama Fischer». Usciamo felici e per festeggiare andiamo in farmacia. È fra la tipologia di negozi che lei preferisce. Gioisce dei miei acciacchi perché possiamo andare ad acquistare cerotti per gli strappi muscolari, integratori multi-vitaminici, pasticche per i bruciori di stomaco, unguenti per le ferite, shampoo e spazzolini da denti.
«Stai bene?», mi chiede.
«Sì», rispondo.
«Sicuro?».
«Sì».
«Peccato».
Non avendo al momento nessun terribile dolore che possa rallegrarla, compro le pasticche «Magic Voice, Für eine frische und kristallklare Stimme», ovvero «Per una voce fresca e cristallina». Sul fronte della confezione, un bel sacchetto dorato, c’è l’immagine di uno spartito musicale e in primo piano un tenore visibilmente soddisfatto. La commessa dice che dopo averle prese canterò come lui.
Dopo la farmacia visitiamo la piazza del mercato. Camminiamo come se ogni angolo avesse una calamita e ci richiamasse a sé, ingaggiando una battaglia fra chi è più interessante. Ci dirigiamo prima verso il municipio perché ha la facciata più caratteristica fra tutti gli edifici presenti. È una costruzione di epoca medioevale arricchita però in epoca rinascimentale. Tra i banchetti di frutta e verdura della piazza mi fermo a guardare una bicicletta legata a un palo, proprio davanti all’entrata della basilica gotica di San Martino. Più della basilica m’incuriosisce la bicicletta, siamo tutti così insieme in questa piazza, coppie, gruppi di amici, famiglie e mi chiedo, vedendola lì, a testimoniare una solitudine, di chi mai possa essere. Dopo la leggera deviazione, la caratteristica facciata del municipio riprende il comando e ci chiama a sé. Vorrei avere l’età di chi può permettersi di correre a zig-zag fra le volte senza essere preso per pazzo.
A pochi passi dal municipio andiamo incontro a un cane accucciato ai piedi di una fontana, vicino a lui ci sono i suoi padroni, una famiglia composta dai genitori e da tre figli, il più piccolo sta scartando un giocattolo appena comprato. Giriamo attorno a loro e alle quattro statue costruite per commemorare il matrimonio del principe Philip con Margarete di Baviera nel 1474. In basso alla coppia reale ci sono due figure di giullari, nere e tetre. Preferirei una statua per commemorare l’apertura del nuovo giocattolo. Voltiamo le spalle al municipio e camminiamo fra i tavolini dei bar, ci avviciniamo all’angolo degli hot dog e ne compriamo due da un ragazzino così timido che fatica ad allungare la mano per prendere i soldi. Abbandoniamo il percorso principale e passeggiamo lungo il fiume. Il cielo è grigio. Vedo un uomo in bicicletta, che sia quella vista poco prima davanti alla basilica, penso. Ci ripariamo sotto il ponte di legno, peccato non piova, ce lo godremmo di più. Fuori l’albergo troviamo un’ultima coppia che censisco. Sono turisti, sorridono guardando le vignette degli innamorati sulla porta. Il loro divertimento, misto a stupore, descrive bene lo stato d’animo che riconosco in tutte le persone, noi compresi, che si trovano davanti ai luoghi di queste nostre spedizioni. Scopriamo mondi che non sono sommersi ma che sono difficili da vedere perché bisogna sgranare gli occhi e viaggiare con una lente d’ingrandimento.
La sera ceniamo in un ristorante greco. A parte noi due, conto il proprietario, un cameriere e una coppia che ordina solo da bere, lei ha una risata acuta che mi fa venir voglia di finire tutte le Magic Voice e di ricambiare il fastidio. Ceniamo all’aperto, in un cortile condominiale. Il nostro tavolo è vicino a un grande albero, ma intorno ci sono delle moto parcheggiate e alcuni box aperti con le auto in vista. Devo concentrarmi sull’albero per non pensare ai tubi di scappamento. Una donna torna a casa con le buste della spesa, seguita dai suoi due bambini e mi fa pensare a una cucina casereccia. Il cameriere è di una gentilezza estrema. È solerte e ci porta tutto subito. Le porzioni sono abbondanti e alla fine della cena si dispiace nel vedere che non riusciamo a finirle. Uscendo sfiliamo lungo tutti i tavoli vuoti, una processione che ci fa pensare alla crisi greca. Una crisi così forte, mi dico, che arriva a colpire fino a chilometri di distanza ogni cosa proveniente dalla Grecia: ristoranti, negozi e persone che cercano di sfuggirle emigrando.
Una volta fuori dal ristorante, Amberg non c’è più. Il buio ha fagocitato l’incantevole cittadina turistica del pomeriggio, comprese le persone censite solo qualche ora prima. Sono sparite. Non si vede neanche il ponte sopra il fiume e persino il fiume pare prosciugato dalla notte. L’unica cosa che si muove per strada è la zampa di un gatto cinese esposto nella vetrina di un negozio. Ci saluta. Al contrario della crisi greca, l’economia della Cina sembra essere viva anche qui. Nel silenzio sentiamo il lamento di due cani. Intravediamo la sagoma di un uomo che sembra frustarli con i guinzagli. I guaiti entrano con noi sotto un porticato, ne vengono amplificati e poi, mano mano che procediamo, si allontanano. Sbuchiamo in Seminargasse e quando chiudiamo la porta dell’Eh’Häusl, in strada non rimane più nessuno.
Sul divano del salotto parliamo guardando la fine di un talent show di ballerini, dopo comincia un talent show di cantanti. Lei mi dice che potremmo anche comprarci una casa così, su tre piani, e arredarla in modo un po’ meno kitsch. Io le dico che siamo come le coppie della leggenda e non possiamo permettercelo. Lei controbatte e mi dice che invece possiamo permettercelo eccome e mi chiede:
«Dove potresti mettere lo studio?».
«Dove c’è la vasca idromassaggio».
«Ma io la voglio!».
«Allora facciamo lo studio idromassaggio».
I bicchieri di champagne lasciati a metà sul comodino vicino alla vasca idromassaggio creano un ambiente desolante. Mi fanno sentire un fantasma che vaga sopravvivendo di ricordi. Non mi piace rimanere da solo a questo piano mentre lei è ancora sul divano. Più tardi, a letto, proviamo entrambi un senso di angoscia che non sappiamo spiegarci. Probabilmente siamo condizionati dall’atmosfera posticcia che si trascina dietro questo posto. Mi domando chi ci abbia vissuto veramente. Come dovevano essere queste pareti prima della ristrutturazione. Chi ci ha litigato, chi non è più tornato. Mi sveglio inquieto e vado ad affacciarmi da una delle due finestre del lussuoso bagno in ceramica bianca, il gamberone abat-jour sul mobiletto vicino al water mi fa un po’ senso e non lo accendo. Guardo i lampioni di Seminargasse. Solo qualche notte prima venivo svegliato dalle sirene della polizia che faceva irruzione nel Dolly Bar. Mi mancano.
La chiave gira silenziosa nella toppa della porta. È la signora che prepara la colazione. Avremmo dovuto svegliarci fra un’ora, sorprenderci e dire: «È bellissimo!», ma io voglio incontrarla per chiederle come trova di solito la casa quando gli ospiti vanno via, se le è mai capitato di rinvenire oggetti dimenticati, e che tipo di oggetti dimenticati fossero, e via dicendo. Scendo nella taverna e proprio in quel momento lei viene fuori dalla porta della cucina. Quando mi vede si spaventa e rischia di rovesciare il vassoio degli affettati. RiuÂsciamo a dirci soltanto danke. Più volte. Non riusciamo a parlare di altro che di danke. Non conosce altra lingua che quella del danke e io della sua lingua conosco solo danke. Dopo che abbiamo sviscerato alla nausea l’argomento del danke, ci salutiamo, con un danke, e la signora va via, con un ultimo danke.
Sul mobile vicino allo specchio ci sono due tazze, due confezioni di cereali, un piatto di brioche calde. E una bottiglietta di champagne. La tavola è imbandita, oltre al vassoio degli affettati che stava per cadere, ci sono vasetti con conserve di marmellata, un cestino colmo di burro, formaggini e medaglioni di formaggi, salsicce di pollo, barrette varie di cioccolata, un cesto di frutta, pane di diversi tipi, integrale o con i semi, due spremute, due bicchieri di cristallo colmi di yogurt, latte e caffè. Lei scende indossando una vestaglia bianca e mi chiede di andare a mettere della musica. Metto un disco di musica tedesca comprato a Monaco al museo di Karl Valentin, un comico dei primi del Novecento, precursore del teatro dell’assurdo e del quale mi sono innamorato dopo averne letto i testi teatrali. Di tutto il libro mi ricordo sempre l’aneddoto raccontato nella prefazione. È nella parabola discendente della sua carriera, e torna di notte a casa dopo uno spettacolo in un tingeltangel, le vecchie locande bavaresi con delle assi a far da palco. È ubriaco, non trova le chiavi, lo immagino svuotarsi le tasche dei pantaloni, poi della giacca, si toglie il cappello e controlla persino lì dentro, come fosse una delle sue gag, poi si addormenta, al freddo, per strada. E muore assiderato. Se avesse avuto ancora successo maga...