Introduzione alla storia del pensiero politico antico
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Introduzione alla storia del pensiero politico antico

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Introduzione alla storia del pensiero politico antico

Informazioni su questo libro

Dalle origini della polis all'età imperiale romana, passando per Solone, i sofisti, Socrate, Platone, Isocrate, Senofonte, Aristotele, i cinici, gli epicurei e gli stoici, Cicerone, Seneca, Tacito, Marco Aurelio: Silvia Gastaldi traccia un quadro d'insieme del grande insegnamento greco e romano in materia di teoria politica.

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Informazioni

IV. Platone: alla ricerca della giustizia

1. La vocazione politica

Così Platone apre la sua autobiografia nella Lettera VII: «Quando ero giovane, io ebbi un’esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vita politica, non appena fossi divenuto padrone di me stesso» (324 b). A questo ruolo pubblico egli è d’altronde naturalmente destinato, essendo membro di una delle grandi casate ateniesi che vanta, nel suo passato come nel suo presente, personaggi illustri. La famiglia del padre, Aristone, rivendica la sua discendenza dall’ultimo re di Atene, Codro, che, secondo il mito, avrebbe sacrificato la vita in battaglia per la salvezza della città; la madre, Perittione, annovera tra i suoi antenati Crizia il Vecchio, discendente di Dropide, familiare di Solone, ed è a sua volta sorella di Carmide e cugina di Crizia, i due maggiori esponenti della fazione oligarchica ateniese tra la fine del V e l’inizio del IV secolo. In più, la stessa Perittione sposa in seconde nozze Pirilampe, amico di Pericle. Così, questa storia connette strettamente tra loro le due grandi tradizioni dell’aristocrazia attica: quella soloniano-periclea, che tende alla mediazione e alla conciliazione, e quella oltranzista, volta a recuperare l’antico dominio assoluto sulla città.
Platone, nato nel 428/427, diviene «padrone di se stesso» negli ultimi anni del V secolo, quelli contrassegnati dalla sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso e dalla presa del potere da parte degli oligarchi: nulla di più naturale dell’invito rivoltogli dai suoi congiunti di partecipare con loro al governo e dell’attrattiva esercitata su di lui, aristocratico, dalla prospettiva di vedere la città, dopo la caduta del regime democratico, «purificata dall’ingiustizia» (324 d).
Egli ha ben presto modo di correggere il giudizio che ha formulato sulla democrazia ateniese del V secolo: «Mi accorsi così che in poco tempo fecero apparire oro il governo precedente» (324 d); l’atteso miglioramento delle condizioni politiche della città non si è verificato, e anzi la situazione attuale vede in atto la violenta sopraffazione instaurata dalla tirannide criziana. Questa estrema degenerazione trova conferma nella sorte fatta subire a Socrate, «un mio amico più vecchio di me, un uomo che io non esito a dire il più giusto del suo tempo» (324 d-e). Viene così rievocato l’episodio che vede i Trenta intimare a Socrate di fare prigioniero e uccidere Leone di Salamina, un ordine cui egli, incurante delle conseguenze, si sottrae schierandosi a difesa della giustizia e delineandosi anche in questa circostanza come l’emblema dell’eticità.
In questa autobiografia, al rapporto con Socrate Platone assegna un ruolo determinante. Non si hanno notizie particolareggiate sulle modalità del loro incontro. Platone, verosimilmente, entra a far parte, attraverso Crizia, della cerchia di aristocratici che costituiscono gli abituali interlocutori di Socrate e a lui rimane legato fino alla sua morte. Come emerge con nettezza dalla Lettera VII, la vicenda socratica rappresenta del resto un avvenimento decisivo negli anni giovanili di Platone e quello che condiziona più fortemente le sue scelte. Sottrattosi al tentativo degli oligarchi di farlo complice delle loro nefandezze, Socrate viene processato e condannato a morte dalla restaurata democrazia: quale prova più evidente della negatività di entrambi questi modelli di gestione del potere, accomunati dallo stesso disprezzo per la giustizia?
Matura così in Platone la scelta di astenersi dalla vita politica, cui si accompagna, tuttavia, la decisione di proseguire per altra via il cammino di riforma etico-politica intrapreso da Socrate: consapevole dell’inefficacia di una missione condotta da un uomo solo con gli unici strumenti della discussione e della persuasione, egli avverte la necessità di avvalersi di «amici e compagni fidati» (325 d), di affidare cioè la rifondazione della città a un gruppo ben organizzato e a un’istituzione, entro la quale definire le strategie e approntare gli strumenti più efficaci. Nasce così l’Accademia, il cui programma si sintetizza nella celebre formulazione offerta dalla Lettera VII: «Vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere politico non fossero pervenuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle città non fossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi» (326 b).
La solidità del legame con il socratismo trova comunque la sua più chiara attestazione nella scelta della forma espositiva cui Platone affida la diffusione del suo progetto: il dialogo. Se Socrate non ha lasciato nulla di scritto, delegando alla parola il compito di indurre i suoi interlocutori alla riflessione e alla critica, Platone individua nella forma dialogica, in quanto trasposizione scritta di un discorso orale, una via intermedia: essa consente di conservare la pregnanza della discussione nel suo farsi, ma consegue al contempo un carattere di coerenza e di stabilità che garantisce ai contenuti proposti una maggiore autorevolezza.
In particolare, i programmi di riforma etico-politica della città, elaborati all’interno della scuola, sono destinati a circolare all’esterno, assumendo, quali destinatari, i cittadini più preparati, selezionati per origine sociale e per cultura, e anche personaggi politici autorevoli, figure di sovrani che detengono un grande potere. Ne sono esempio i tiranni siracusani, presso i quali Platone si reca tre volte, nel tentativo di mettere concretamente in atto il suo progetto di ricongiungimento di potere e sapere nella figura del buon governante.

2. Il «Gorgia»

La riflessione critica sul modello di gestione politica della città attuale, che prelude alla composizione della Repubblica e all’elaborazione del modello della kallìpolis, si compie nel Gorgia. In questo dialogo, Socrate è posto di fronte a tre interlocutori: da una parte Gorgia, il celebre maestro di retorica, che proviene dalla Sicilia, accompagnato dal suo giovane discepolo Polo, dall’altra Callicle, personaggio altrimenti sconosciuto, e forse fittizio, destinato a rappresentare il cittadino ateniese benestante e ambizioso che si appropria dell’arte della persuasione per esercitare il potere nella città.
Il Gorgia, la cui data drammatica è indeterminata (è certo solo il terminus post quem, il 429, dal momento che si allude a Pericle come ormai scomparso), mette in scena un Gorgia già avanti negli anni e dotato di una grande autorevolezza, al quale Socrate, sebbene su posizioni divergenti, testimonia rispetto. Proprio per la sua fama, Gorgia è interpellato quale depositario del sapere retorico, su cui verte l’indagine. La ricerca del ‘che cos’è’ la retorica, cioè della sua definizione, condotta da Platone in puro stile socratico, rappresenta però solo il punto di partenza per una discussione che ne investe la funzione politica, il ruolo svolto nelle sedi istituzionali della città.
Il dialogo conduce così, nella prima parte, una serrata indagine sulla retorica sotto il profilo epistemologico: il fine è quello di mostrare che essa, non presupponendo alcuna conoscenza effettiva degli argomenti su cui vuol convincere l’uditorio e non possedendo un proprio metodo, non può essere ritenuta una tèkhne. La retorica viene definita da Socrate un àlogon pràgma, una sorta di pratica empirica volta a produrre diletto e piacere. Per queste sue caratteristiche, essa è riconducibile a un denominatore più ampio, quello dell’adulazione, in cui rientrano i ‘simulacri’, cioè le immagini contraffatte e fallaci delle vere tecniche. Nel complesso schema di corrispondenze tracciato da Platone e che coinvolge le tecniche autentiche e le loro cattive imitazioni, relative tanto all’anima quanto al corpo, la retorica è per l’anima ciò che la gastronomia è per il corpo: la sua finalità è quella di somministrare agli ascoltatori discorsi belli e piacevoli, così come l’abilità del cuoco consiste nel predisporre e nell’ammannire cibi squisiti e ricercati che gratificano il palato dei commensali (463 a sgg.).
Un punto di vista così svalutativo sulla retorica suscita le vivaci rimostranze del giovane e agguerrito Polo, pronto a esaltare la straordinaria autorità che i possessori della capacità persuasiva esercitano nella città. Al centro della discussione si colloca, da qui in poi, proprio il tema del potere politico e dei suoi rapporti con l’eticità e con il sapere. Polo esalta come massimamente positivo il dominio assoluto, quale è quello detenuto dai tiranni, in grado di fare sempre ciò che vogliono. Egli assume, come esempio paradigmatico, la figura di Archelao, salito al trono macedone attraverso una lunga catena di violenze e di delitti (470 d sgg.).
A questa sfrenata esaltazione dei vantaggi dell’ingiustizia Platone risponde rilanciando le tesi più autentiche, e anche più ‘scandalose’, del Socrate storico, quelle che avevano certamente contribuito a consolidare la sua fama di uomo eccentrico, àtopos. Viene anzitutto drasticamente ridimensionato il presunto potere di cui godono gli uomini politici equiparati ai tiranni: essi non compiono veramente ciò che vogliono, perché l’oggetto della volontà è solo il bene, ed essi lo ignorano. Anche la felicità è loro negata, nella misura in cui essa non può mai correlarsi all’ingiustizia. Questa arreca all’anima un danno gravissimo, che può essere riparato solo subendo una pena adeguata, capace di assolvere a un autentico ruolo terapeutico. Polo accoglie con una risata queste asserzioni di Socrate: nessun cittadino sarà mai disposto ad ammettere che sia preferibile sottostare alle punizioni, massima fonte di vergogna, anziché compiere il male restando impunito. Né meno paradossale appare il ruolo che, in questo orizzonte, viene assegnato alla retorica, quello di contribuire alla realizzazione della giustizia denunciando tutti gli atti ingiusti commessi personalmente o da altri all’interno della città.
Il tentativo di moralizzare la pratica dei discorsi operato da Socrate suscita, dopo le risa di Polo, l’incredula ironia di Callicle, l’ultimo degli interlocutori del dialogo. Costui si scaglia con violenza contro Socrate, accusandolo di essere ingenuo come un bambino, completamente ignorante della realtà delle cose e del potere. La responsabilità di questo colpevole distacco dalla vita di tutti i giorni viene fatta risalire alla pratica della filosofia, che «senza dubbio è cosa apprezzabile purché venga studiata, con misura, in età giovanile, ma, se con essa ci si intrattiene oltre il dovuto limite, è la rovina degli uomini» (484 c). Callicle, che rappresenta qui il gruppo dei retori-tiranni, rivendica l’esercizio del potere – come si è già visto nel secondo capitolo – a chi è «più forte per natura»: non solo respinge la concezione politica tradizionale, di ascendenza soloniana, secondo cui la giustizia è conformità alla legge, ma rifiuta, e a maggior ragione, l’interpretazione moralizzata fornita da Socrate, tesa a salvaguardare la salute dell’anima.
Pur consapevole di essere attaccato da tanti avversari, di cui Callicle viene elevato a emblema, Socrate non rinuncia, nella parte terminale del Gorgia, a delineare in positivo la figura del buon politico. Al retore che domina nella città attuale, e che si assimila al cuoco, occorre sostituire un politico che sia medico: le contraffazioni adulatorie devono lasciare il posto alle tecniche autentiche, non solo in grado di dar conto di sé, ma indirizzate al bene di coloro cui si rivolgono.
La pòlis infatti è malata, «gonfia e purulenta» (519 a): responsabile di questa condizione è una classe politica che non ha mutato fisionomia nel corso del tempo, già a partire dall’inizio del V secolo, dall’epoca delle gloriose guerre persiane. Nessun politico della storia ateniese, da Milziade, il vincitore di Maratona, a Pericle, che nella finzione letteraria si immagina morto da poco, ha mai abbandonato nei confronti dei cittadini l’attitudine del cuoco, «rimpinzandoli di tutto quello che desideravano» (518 e). Eppure, è facile individuare le prerogative dell’autentico uomo politico: l’analogia con la pratica delle ‘vere’ tecniche fornisce tutti gli elementi necessari. Come nessuno può pretendere di fare il costruttore o il medico «senza avere in precedenza, da profani, fatto alla meglio il nostro tirocinio e avere adeguatamente esercitata l’arte» (514 e), così, e anzi a maggior ragione, lo svolgimento dell’attività politica richiede una competenza acquisita con un’assidua applicazione, cui deve accompagnarsi la costante verifica del livello di conoscenza raggiunto. Questo sapere è messo al servizio della città, «con il fine di rendere i concittadini quanto migliori è possibile» (513 e): la terapia che, equiparandosi al medico, il vero uomo politico deve attuare comporta la diffusione generalizzata delle virtù, destinate ad assicurare ordine e armonia nell’anima e di conseguenza nella pòlis.
Dunque, quando scrive il Gorgia, Platone ha già chiaramente presente la direzione verso cui rivolgere la sua riflessione politica: si tratta di riformare la città, instaurandovi anzitutto la giustizia, e a questo scopo è decisiva la formazione di una nuova figura di governante, capace di unire in sé il sapere etico e la competenza tecnica. Sono allora già enucleati qui i temi che diventeranno centrali nella Repubblica, destinata a delineare il modello di questa nuova pòlis.

3. La «Repubblica»

3.1. Lo scenario e i protagonisti

Determinare la data di composizione della Repubblica è difficile, forse più di quanto non lo sia fissare la cronologia degli altri dialoghi: le fonti antiche sottolineano che essa richiese una gestazione lunga e un non meno lungo lavoro di scrittura e di rielaborazione.
Il primo libro, che possiede tutte le caratteristiche del dialogo socratico, può essere stato composto precedentemente agli altri, per assumere poi una funzione proemiale rispetto ai libri successivi. Se questo primo approccio risale verosimilmente agli anni anteriori al 390, la redazione dei libri successivi assume come punto di riferimento cronologico due avvenimenti rilevanti della vita del loro autore: il viaggio in Sicilia alla corte di Dionisio il Vecchio nel 388 e, al rientro in Atene, la fondazione dell’Accademia. Il soggiorno in Italia meridionale prevede anche la visita alla comunità pitagorica di Taranto governata da Archita, insieme uomo politico, filosofo e scienziato: Platone vede lì realizzato quel connubio tra il sapere e il potere che si delinea, nella sua riflessione sulla situazione ateniese, come l’unico possibile rimedio ai mali attuali della città. Il filosofo, poi, si reca alla corte di un sovrano, un autocrate che, esercitando un dominio assoluto, sembra dotato dell’autorità necessaria per condurre a compimento un progetto di riforma globale della società. Il fallimento del tentativo di convertire Dionisio alla filosofia rende Platone consapevole della necessità di affidare a una struttura organizzativa solida, formata da «amici fidati», il compito di elaborare e di diffondere i suoi programmi etico-politici. La fondazione dell’Accademia risale proprio al 387 e della nuova istituzione la Repubblica costituisce il manifesto d’apertura. Come risulta dalla Lettera VII, Platone avverte fortemente l’esigenza di calare le proprie riflessioni in una dimensione operativa: riguardo al suo viaggio in Sicilia, egli parla esplicitamente della vergogna che provava «al pensiero di essere solo un parolaio, incapace di intraprendere di mia volontà una qualche iniziativa» (328 c), una testimonianza che si oppone a un’interpretazione in chiave puramente utopistica del suo pensiero.
Al centro della riflessione che deve condurre alla rifondazione della città si colloca, fin dagli esordi, la concezione della giustizia: si tratta del tema più ricorrente all’interno del dibattito politico, che si è arricchito, nella seconda metà del V secolo, degli apporti innovatori forniti da una parte dai nuovi intellettuali, i sofisti, e dall’altra da Socrate, grazie al quale la dikaiosne, in quanto virtù dell’anima, è diventata oggetto del discorso morale. Componendo la Repubblica, Platone ha di fronte a sé un compito immane: ripensare nella sua globalità questa multiforme t...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. La nascita della città e il problema del buon governo
  3. II. Il V secolo: le dinamiche del potere
  4. III. Socrate: il politico paradossale
  5. IV. Platone: alla ricerca della giustizia
  6. V. Il moderatismo ateniese del IV secolo: riforme politiche e rinnovamento morale
  7. VI. Aristotele: la scienza della politica
  8. VII. Dalla «pòlis» ai grandi regni: l’età ellenistica
  9. VIII. «Graecia capta»: pensiero greco e realtà romana nell’età repubblicana
  10. IX. Il principato: il difficile rapporto tra autorità e libertà