Torino è casa mia
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Torino è casa mia

  1. 190 pagine
  2. Italian
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Torino è casa mia

Informazioni su questo libro

«Questa è una guida a Torino. E Torino è Torino. Non è una città come un'altra.Oltre a essere la mia città, Torino è anche la mia casa. E come ogni casa contiene un ingresso, la stazione di Porta Nuova, una cucina, il mercato di Porta Palazzo, un bagno, il Po, e poi naturalmente il salotto di Piazza San Carlo, e quel terrazzo che è il Parco del Valentino, e il ripostiglio del Balon, e una quantità di altre cose e di altre storie. Aprire questo libro è un po' come entrare in casa nostra. Mia. Vostra».

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Lo studio

Lo studio, per me, corrisponde alla sede delle cosiddette facoltà umanistiche dell’Università di Torino, fondata nel 1404 e scelta da Erasmo da Rotterdam per studiarvi nel 1506, cosa che diede il via con largo anticipo rispetto alle direttive della Comunità Europea al progetto Erasmus. L’autore dell’Elogio della follia però frequentò la sede primigenia dell’ateneo torinese, e la lapide che ricorda il più noto tra gli universitari torinesi sta in Via Verdi, dove tra il 1713 e il 1720, su progetto dell’architetto Michelangelo Garove, venne edificato il palazzo in cui fino agli anni Sessanta hanno studiato gli iscritti a Lettere e Filosofia. Poi è arrivato Palazzo Nuovo.
Palazzo Nuovo non è noto per la sua allegria. Sfido gli iscritti a qualsiasi altra facoltà, non solo torinese ma italiana, europea, mondiale, interplanetaria, a trovare una sede universitaria più deprimente di Palazzo Nuovo. Grigio monumento al grigio, timido abbozzo di campus subalpino, tragico compromesso tra una palazzina direzionale e un casermone da edilizia popolare in stile Zen palermitano, Palazzo Nuovo è, in quanto cosa in sé e allo stesso tempo anche come fenomeno, abbandonando la tradizionale opposizione kantiana e rifacendosi alle tesi di Hegel e di Husserl, nelle quali la ‘cosa’ finisce per identificarsi in toto con il suo manifestarsi o rendersi fenomeno, ma lasciando perdere in questa sede le differenze riguardanti la cosa fenomenologica esperita per Hegel e per Husserl, perché non ho idea di che cosa sto scrivendo, Palazzo Nuovo è, si sappia, la causa principale se non unica dell’abbandono del corso di studi universitari in Lettere, Filosofia, Lingue, Giurisprudenza, Scienze Politiche o Scienze dell’Educazione. Basterebbe fare una qualche rilevazione statistica, e si scoprirebbe che chi lascia a metà, o anche prima, l’Università non lo fa perché è uno studente lavoratore al quale certi professori rendono impraticabile il proseguimento degli studi, ad esempio facendo saltare senza preavviso gli appelli degli esami, o sempre senza preavviso evitando di presentarsi nel proprio ufficio all’ora e alla data indicata dall’orario di ricevimento affisso nell’atrio della Presidenza o nelle bacheche dei singoli istituti, o magari discriminando palesemente in sede di esame chi non ha potuto frequentare le lezioni e perciò ha mancato di mettersi in bella mostra tra i banchi delle prime file di fronte alla cattedra, o ancora evitando di restituire alla scadenza prevista testi d’esame presi in prestito nelle biblioteche, senza i quali lo studente non può materialmente fare quel che dovrebbe, cioè studiare, ma a causa del luogo in cui si va a lezione e si sostengono le prove scritte oppure orali. Palazzo Nuovo ingenera nei suoi abitanti, anche se vi risiedono per poche ore al giorno e tutto sommato saltuariamente nel corso dell’anno, una sorta di pessimismo cosmico e di rassegnato fatalismo, per cui quando due iscritti alla stessa facoltà si incontrano finiscono inevitabilmente per scoraggiarsi a vicenda, raccontandosi ogni sorta di leggende, com’è ovvio nefaste, a proposito di qualsiasi argomento inerente il loro corso di studi. Se uno dice all’altro di avere infine deciso di laurearsi in una data disciplina con un dato professore, l’altro subito lo informa di aver sentito per certo da un terzo che proprio quel professore è il peggiore in assoluto con cui laurearsi, completando tale sintetica ma chiarissima affermazione con una serie di argomentazioni verosimili e circostanziate, del tipo: «Guarda che quello, mentre tu scrivi la tua tesi, continua ad assicurarti capitolo dopo capitolo che tutto va per il meglio, salvo poi dirti, quando l’hai finita, che fa schifo ed è completamente da rifare». Lo stesso vale per ogni singolo esame e/o seminario, per non parlare del terrorismo psicologico che si scatena invariabilmente a proposito degli assistenti, ovvero i portaborse, non sempre ma quasi, dei professori, bramosi di scaricare le proprie frustrazioni (portare le borse non è granché) sugli studenti.
Per non parlare degli ascensori. Sia che uno tenti di prendere un ascensore per salire ai piani alti di Scienze dell’Educazione o di Lettere e Filosofia o di Lingue o di Giurisprudenza o di Scienze Politiche, sia che uno tenti di prendere un ascensore per scendere dai piani alti di Scienze dell’Educazione o di Lettere e Filosofia o di Lingue o di Giurisprudenza o di Scienze Politiche, l’esperienza a Palazzo Nuovo non può che rivelarsi frustrante. Innanzitutto perché può succedere che, una volta chiamato, l’ascensore non arrivi mai, ma proprio mai: e c’è chi a causa di questo non si è laureato, perché non è obiettivamente facile laurearsi, se ci si intestardisce ad aspettare l’ascensore per anni. Poi perché può succedere che, una volta chiamato, l’ascensore arrivi, e però vi porti dappertutto tranne che al piano a cui volevate recarvi: e c’è chi a causa di questo non si è laureato, perché provateci voi a laurearvi, se un ascensore vi porta da un piano all’altro tranne che a quello a cui volevate arrivare per anni. Poi perché può succedere che, una volta chiamato, l’ascensore arrivi, e però sia pieno, ma proprio pieno, e continui a esserlo ogni volta che le sue porte si aprono: e c’è chi a causa di questo non si è laureato, perché è praticamente impossibile laurearsi se non si riesce a consegnare la tesi al proprio professore aspettando inutilmente che l’ascensore si svuoti per anni. L’interno degli ascensori di Palazzo Nuovo, a detta dei pochi fortunati che sono riusciti a prenderli e a venirne fuori, è poi sommamente angusto, oltre che grigio come il resto dell’edificio, e capace di regalarvi esperienze tra le più claustrofobiche nel novero di quelle esperibili su questa terra, persino nel caso soffriate di agorafobia. Fulgida eccezione, per ciò che riguarda gli ascensori di Palazzo Nuovo, è costituita secondo le leggende metropolitane che circolano tra gli studenti dagli ascensori dei professori. Ad essi si accede solo ed esclusivamente se dotati di chiave professorale, il gadget più ambito dai ricercatori. Gli ascensori dei professori, a Palazzo Nuovo, sono stati progettati di modo che le loro porte si aprano giusto quel tanto che è necessario a farvi entrare il professore; ed è abbastanza impressionante vedere come sappiano regolarsi autonomamente a seconda della stazza del professore. Questo accorgimento fa sì che da fuori gli studenti non riescano assolutamente mai a vedere come sono fatti gli interni degli ascensori dei professori, le cui porte si aprono rapidissime per far entrare i professori e ancora più rapide immediatamente si richiudono alle loro spalle. Tale meccanismo di potere cela, va da sé, ascensori dagli interni spaziosissimi e assai particolari. Dentro di essi, i professori viaggiano con l’ausilio di ogni comfort. Giovani laureande e laureandi, rigorosamente in tanga, servono loro baronali drink, reggendo al contempo le solite borse cariche di sapienza dei signori e padroni di Palazzo Nuovo. Questi, tra un baronale drink e l’altro, si rimirano nelle enormi pareti rivestite di specchi, e godono della propria immagine riflessa più che dei baronali drink e dei giovani laureandi in tanga. Il pavimento, soffice e rivestito di candida moquette, freme ai loro piedi, felice di essere da essi calpestato. Ed essi, magnanimi come si conviene a dei veri signori e padroni, augustamente lo calpestano. Ciò spiega l’apparente contraddizione tra il fatto che innumerevoli professori risultino irrintracciabili durante i loro orari di ricevimento (quando non a lezione) e l’affermazione tipicamente professorale «non ho un momento di respiro, sono sempre a Palazzo Nuovo». Sappiatelo, dunque, studenti che eventualmente state leggendo codeste righe, sappiate almeno questo visto che già non sapete molto altro: i professori, a Palazzo Nuovo, ci sono davvero, anche quando li cercate e non si trovano. Se ne stanno a rimirarsi negli specchi degli ascensori.
Il parto in assoluto più interessante di Palazzo Nuovo è stato e continua ad essere, per la città di Torino, il Torino Film Festival. In principio era il Cinema Giovani, manifestazione nata nel 1982 grazie all’entusiasmo cinefilo del professor Gianni Rondolino e di alcuni suoi studenti. Poi il Cinema Giovani è cresciuto, e sotto la direzione di Alberto Barbera e Stefano Della Casa è diventato per l’appunto il Torino Film Festival: in Italia, il secondo festival del cinema dopo Venezia. Così, molti di quelli che hanno avuto la fortuna di assistere alla nascita della manifestazione raccontano dei tempi pionieristici e già epici in cui le giornate a base di corti girati dai loro colleghi di Università (assidui frequentatori dell’Aula 36, famosa a causa dei vetri oscurati così da permettere le proiezioni delle pellicole del corso di Cinema) costituivano il vero e proprio epicentro di quella settimana a base di millimetri, con una schiacciante superiorità dei sedici sui trentacinque. Tra le edizioni memorabili, si ricorda quella in cui al Cinema Romano si tentò di proiettare Sid & Nancy, il film di Alex Cox sul bassista dei Sex Pistols Sid Vicious, benissimo interpretato dal bel tenebroso Gary Oldman. Dopo pochi minuti, alcuni ragazzi presero possesso del palco e interruppero la visione, urlando che le cose in realtà non erano andate a ‘quel modo’. Quale fosse, ‘quel modo’, non si poté sapere, dato che le luci in sala non si spensero più: e dire che alla realizzazione del lungometraggio avevano collaborato, sia in veste di consulenti del regista, sia per la colonna sonora, alcuni vecchi e si presume attendibili compagni d’avventura del musicista e martire del punk, a cominciare da Paul Cook e Steve Jones. Il Torino Film Festival ha scoperto in anticipo registi come Jane Campion, e per tradizione si è sempre tenuto nelle sale del centro. Come dicevamo in precedenza, dopo una breve parentesi al Lingotto, dal 2004 si è tornati all’antico, con le proiezioni sparse generosamente nei cinema del centro dai nuovi direttori Giulia d’Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto. Evviva.
Il cinema, è noto, nasce in Francia grazie ai fratelli Lumière nel 1896. Poi valica le Alpi, e si ferma a Torino. Dove, ai primi del Novecento, nasce l’industria cinematografica italiana. Le prime case di produzione si chiamano Ambrosio Film, Itala Film, Gloria e Aquila. In città sorgono laboratori e teatri di posa, e nel 1914 viene prodotto Cabiria, il primo kolossal, girato da Giovanni Pastrone con la collaborazione per le didascalie di Gabriele D’Annunzio. Il cinema, potente strumento di propaganda, traslocherà a Roma nell’Era Fascista con la fondazione di Cinecittà. Oggi, oltre al Torino Film Festival, la città ospita tra gli altri il Festival Internazionale Cinema delle Donne, il Festival Internazionale Cinemambiente, il Festival Internazionale di Film a Tematiche Omosessuali, il Sottodiciotto Film Festival, l’Anteprima Spazio Torino, il Festival del Cinema Trash e il Tohorror Film Festival. A Torino ha sede la Film Commission, nata allo scopo di attirare in Piemonte troupe cinematografiche e televisive. E se il cinema a Torino vi interessa particolarmente e volete saperne di più, date un’occhiata al sito www.torinocittadelcinema.it. Fermo restando che parlando di cinema, a Torino, non si può non parlare del nuovo Museo Nazionale del Cinema: ossia del simbolo della città, la Mole Antonelliana.
La Mole Antonelliana è, con la vicina Fetta di Polenta, casa che i torinesi chiamano così perché edificata per scommessa proprio a forma di fetta di polenta su un triangolo di terreno in Corso San Maurizio, la maggiore follia di Alessandro Antonelli, architetto sublime e geniale, al contrario di innumerevoli suoi successori che in un modo o nell’altro hanno deturpato pezzi di città. La storia del singolare edificio è questa: un bel giorno la comunità israelitica di Torino commissiona all’Antonelli una nuova sinagoga. L’Antonelli la progetta, e nel 1863 cominciano i lavori. Sei anni più tardi però la comunità israelitica decide che il tempio è troppo costoso, e vi rinuncia. Il cantiere resta fermo per dieci anni. Poi, per fortuna, il Comune rileva il tutto, e tra il 1878 e il 1897 la Mole viene completata. Con i suoi 167,5 metri di altezza diventa la più alta opera in muratura d’Europa: altro record che inorgoglisce i torinesi amanti dei primati. Da quel momento, tuttavia, diventa un Luogo Eventuale: non si sa che farne. La Mole, per Torino che in fin dei conti è Torino e non è New York, è troppo ‘avanti’. Anticipa i grattacieli del XX secolo, e mischia stili apparentemente inconciliabili, dal neoclassico al neogotico passando per il corinzio; stupefacente, tra l’altro, la tecnica concepita dall’Antonelli per costruirla, detta non a caso antonelliana: un mix di fulcri e tiranti metallici, in grado di scaricare le spinte strutturali malgrado l’utilizzo di murature piuttosto sottili. Sia come sia, da qualche anno a questa parte finalmente la Mole Antonelliana contiene qualcosa. Il Museo Nazionale del Cinema, appunto. Venuto alla luce dopo un lungo travaglio, sulle prime il museo ha lasciato i torinesi esterrefatti. Non è possibile, ci si diceva per strada, col tipico understatement, non è da Torino; normalmente ci si imbatte altrove, in strutture simili. E invece. Non a caso, forse, la trasformazione della Mole Antonelliana da Luogo Eventuale a Museo Nazionale del Cinema è avvenuta in base al progetto di un architetto svizzero, monsieur François Confino. E gli svizzeri con i musei ci sanno fare, basta farsi un giro a Basilea per rendersene conto. Così, il nuovo Museo Nazionale del Cinema di Torino è un’autentica ghiottoneria, con le sue lanterne magiche, i suoi fenachistiscopi, i suoi zootropi, le sue anamorfosi catottriche, i suoi dagherrotipi, le sue macchinette cronofotografiche, i suoi manifesti, le sue fotografie, i suoi spezzoni di pellicole che hanno fatto la storia del cinema. Ma il tutto non parrebbe altrettanto gustoso se ogni cosa non fosse sistemata in modo da coinvolgere il visitatore in una sorta di gioco, il gioco del Cinema, concepito in modo da far sì che uno non fa quasi in tempo a entrare che già ritorna bambino e si lascia irretire dalle ombre cinesi e dalla camera oscura, dagli scherzi ottici e dalle manovelle degli aggeggi di cui sopra, girando vorticosamente le quali è possibile assistere con la stessa meraviglia di duecento anni fa ai primi ‘film’, che però nessuno si sognava ancora di definire tali. Il Museo Nazionale del Cinema naturalmente ha un suo cinema: il vicino Cinema Massimo, in Via Verdi. Recentemente ristrutturata, questa multisala ospita rassegne di film d’autore grazie alle quali i torinesi hanno il privilegio di poter vedere sul grande schermo pellicole che altrove si vedono solo in tivù, o su dvd.
Il Museo Nazionale del Cinema, con la sua magnifica sala centrale cosparsa di comodissime chaise longue dalle cuffie incorporate e il suo straordinario ascensore che conduce sparati nel vuoto dritti in cima alla Mole, da cui si gode una vista impagabile sulla città, sulla collina e sulle Alpi, va in questo modo ad aggiungersi all’altra vera gloria cittadina in fatto di musei, e cioè al Museo Egizio. Se chiedete a un torinese del Museo Egizio, il torinese per prima cosa vi comunica: «È il più importante al mondo, dopo quello del Cairo». Torino deve le sue mummie a Bernardino Drovetti, piemontese e console generale di Francia all’epoca dell’occupazione dell’Egitto da parte delle truppe napoleoniche. Drovetti era un collezionista di reperti archeologici, e nel giro di qualche anno accumulò ottomila pezzi. Nel 1824 il re Carlo Felice comprò la collezione, e integrandola con le egizie antichità in possesso dei Savoia creò il primo Museo Egizio del mondo: altro record di cui si vantano i torinesi amanti dei primati. Alla fine del XIX secolo, il direttore del museo, Ernesto Schiaparelli, si recò di persona a scavare in Egitto. E negli anni Trenta del secolo successivo la collezione raggiunse gli oltre 30.000 pezzi. Elencare qui i tesori custoditi nell’edificio di Via Accademia delle Scienze, che ospita anche la Galleria Sabauda e che venne progettato da Guarino Guarini a partire dal 1679 per poi essere portato a termine da Michelangelo Garove, edificio in cui un tempo i gesuiti formavano i rampolli della classe dirigente di Torino, non è possibile. Le mummie, e alcuni corpi liberati dalle bende, sono abbastanza impressionanti. In città si parla da tempo immemorabile dei sotterranei del palazzo, che farebbero parte dei luoghi della famosa Torino ‘magica’. Di recente, il Museo Egizio è stato affidato ad Alain Elkann: per essere il secondo museo al mondo dopo quello del Cairo, l’Egizio di Torino era un po’ troppo polveroso. E per il prossimo futuro, l’intenzione è quella di spolverarlo e rilanciarlo.
E poi naturalmente c’è il Museo d’Arte Contemporanea al Castello di Rivoli: che però, lo dice il nome stesso, sta non a Torino ma oltre la fine di Corso Francia, e cioè a Rivoli. È qui che i torinesi che amano l’arte contemporanea si sentono davvero in Europa: perché il Castello di Rivoli, inaugurato nel 1984, è forse il solo museo italiano capace di stare al passo con i grandi musei internazionali. Al Castello di Rivoli hanno esposto Helmut Newton e Nan Goldin, Wolfgang Tillmans e Vanessa Beecroft. E la collezione permanente spazia dai protagonisti dell’arte povera, come Mario Merz e Giulio Paolini, a quel genio della manipolazione mediatica che è Maurizio Cattelan. A Torino città invece c’è la GAM, o Galleria Civica d’Arte Moderna. Le opere di Burri, Fontana, Casorati, Moranti e Sironi potrete ammirarle qui, in Via Magenta angolo Corso Galileo Ferraris. La Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, nata nel 1995, ha inaugurato nel 2002 il suo spazio dietro Corso Lione, nel quartiere San Paolo, e per l’occasione ha messo in mostra gli abitanti di quel quartiere periferico, immortalati in una serie di scatti. Progettata dagli architetti Silvestrin e Hardwick, è attenta al lavoro di artisti giovani, non ancora consacrati, e ospita anche festival di musica elettronica con dj notevolissimi, per esempio il tedesco Isolé: ma di musica si parlerà più avanti. Alle ‘vernici’ della Fondazione SRR, così come a quelle che si tengono nelle gallerie intorno a Via della Rocca, trovate la Torino che non ha mai lavorato in Fiat al reparto verniciatura. Un museo particolare, che al momento non esiste più, era il Museo del Grande Torino: demolito dalle ruspe insieme con il Campo Filadelfia alcuni anni orsono, e in attesa di degna sistemazione. Poi ci sono il Museo del Risorgimento e di Pietro Micca e della Montagna e dell’Artiglieria e della Sindone, che sta proprio dietro casa mia ma non l’ho mai visitato.
Torino è una città molto attenta all’arte contemporanea. Ci sono gallerie famose, come Persano in Piazza Vittorio Veneto, che da sempre investono sui nuovi artisti, come di recente nel caso di Paolo Grassino. E c’è una galleria assai sui generis, la Adelinquere in Via Barbaroux, che apre solo ogni tanto per promuovere talenti sconosciuti al grande pubblico ma assai interessanti, vedi Claudio Cassano. Caso più unico che raro, la Adelinquere espone del tutto gratuitamente, nel senso che non percepisce una percentuale sulle opere vendute. C’è poi per ciò che riguarda l’arte contemporanea un vero e proprio investimento dell’amministrazione cittadina, che parallelamente al radicale rinnovamento urbano di determinati quartieri (con quella che si potrebbe definire l’operazione Un Condominio Per Ogni Torinese) ha pure deciso di commissionare a una serie di artisti di fama internazionale svariati lavori. Si tratta del progetto Arte Pubblica a Torino, che sul percorso del cosiddetto ‘passante ferroviario’, da Corso Bramante a Corso Vittorio Emanuele II, prevede l’installazione di undici opere. La Fontana Igloo di Mario Merz è stata la prima ad essere inaugurata nel dicembre 2002, proprio nel punto in cui Corso Mediterraneo si biforca in Corso Lione e Corso De Nicola: e, come si accennava in precedenza, immediatamente ai giornali sono arrivate le lettere di protesta da parte dei residenti, perché tantissimi torinesi sono fatti così, a loro le novità non piacciono.
Ma torniamo in Via Verdi. In Via Verdi, a pochi passi dalla Mole Antonelliana, c’è la sede torinese della Rai: che tra parentesi, è bene ricordarlo, è nata proprio a Torino, ennesimo motivo di soddisfazione per i torinesi amanti dei primati. Alla Rai di Torino hanno lavorato, oltre a Bruno Gambarotta, anche Umberto Eco e Gianni Vattimo, Topo Gigio e Licia Colò. Da come butta, invece, pare che ci si lavorerà sempre meno. Il che è obiettivamente un peccato, oltre che per così dire un insulto alla bontà dei mezzi e dei tecnici a disposizione. I notiziari della sede Rai di Torino sono indicati per i telespettatori immigrati in città da ogni parte del mondo, nel caso desiderino seguire corsi gratuiti ma sistematici di dizione piemontese: basta sintonizzare il televisore di casa su Rai 3 intorno alle 14 o alle 19, quando ai microfoni del tiggì regionale opera tra gli altri il mitico Renato Girello. All’altro capo di Via Verdi, dove questa fa angolo con Piazza Castello, c’è il Teatro Regio, edificato tra il 1738 e il 1740 da Benedetto Alfieri, distrutto da un incendio nel 1936 e ricostruito nel dopoguerra per venire nuovamente inaugurato nel 1973 secondo il progetto di Carlo Mollino, cui è intitolata l’adiacente piazzetta. Il Teatro Regio è stato il primo teatro wagneriano d’Italia, e il suo palco è secondo in Europa solo a quello dell’Opéra Bastille di Parigi. Il foyer di Mollino, molto anni Settanta sia nelle forme sia nei materiali, è davvero splendido. Nell’atrio del Teatro Regio, fin dalla metà degli anni Ottanta, si danno appuntamento i b-boys torinesi, e cioè i seguaci dell’hip-hop. Praticando la breakdance nell’atrio del Teatro Regio con i loro ghetto-blaster sprigionanti rap allo stesso modo dei loro colleghi francesi a Parigi a Les Halles o al Trocadero, i b-boys rendono a modo loro un po’ più europea la città. Un tempo a quest’altezza di Via Verdi ovvero nell’atrio del Regio si davano appuntamento anche gli skaters. Per anni il rumore delle tavole da skateboard che tlack ricadono sul marmo ha fatto parte del panorama acustico a quest’altezza di Via Verdi: dove ogni tlack corrispondeva in genere alla conclusione di una qualche evoluzione. In passato i tlack si succedevano l’uno dopo l’altro, a raffica, tlack tla...

Indice dei contenuti

  1. Cronologia
  2. Intro
  3. L’ingresso
  4. Il corridoio
  5. La cucina
  6. Il salotto
  7. La sala da pranzo
  8. La camera da letto
  9. Lo studio
  10. Il ripostiglio
  11. Il bagno
  12. Il terrazzo
  13. La cantina
  14. Il solaio
  15. Il garage
  16. Quello che manca
  17. Cantieri
  18. Fine
  19. Sotto il tappeto
  20. Ringraziamenti
  21. Mappa Torino carta bianca