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Il mio barbiere è un italiano
Il mio barbiere è un italiano, il mio medico di famiglia è un italiano, il mio avvocato di fiducia è un italiano, è italiana la barista del caffè all’angolo, è italiano il barista del caffè di fronte, e anche quello del bar un po’ più in là, sono italiani il commesso da cui compro jeans e magliette, il cuoco del ristorante di hamburger sotto casa, l’addetto alle riparazioni del computer, è italiano l’istruttore di scuola guida di mio figlio, è italiana una sua prof all’università, sono italiani il gelataio qui sotto, il cassiere del negozio di Delikatessen, la cassiera del supermarket, il mio dentista, la fruttivendola e la maggioranza degli amici e delle amiche con cui vado a mangiare ogni tanto una pizza in un ristorante-pizzeria di Camden, naturalmente italiano, dove lavorano soltanto italiani.
Vivo a Londra da più di dieci anni, eppure a volte ho la sensazione di essere ancora in Italia. Un po’, ammetto, è colpa mia: ho un’eccessiva predilezione per gli italiani. Ma un po’ è anche colpa di Londra: di italiani fra cui scegliere amici e conoscenti, qui, ce ne sono tanti. Nel 2011 avevo usato un elenco analogo per Londra Babilonia, il mio libro sulla Londra multietnica: avevo, e in effetti ho ancora, un giornalaio pakistano, un lavasecco persiano, un imbianchino polacco, un veterinario spagnolo, un portinaio sudafricano, e così via. Ma gli italiani di Londra, che già erano tanti allora, adesso sono sempre di più. E continuano ad aumentare, di mese in mese, di giorno in giorno.
Secondo i dati del consolato generale d’Italia, nel 2015 gli italiani a Londra erano – anzi, eravamo – quasi duecentocinquantamila, e questo ne faceva la città estera con il maggior numero di nostri connazionali in Europa, la seconda nel mondo dopo Buenos Aires (che ne aveva quarantamila in più). Ma quella della capitale argentina è una vecchia emigrazione italiana, il cui flusso risale alla prima metà del Novecento e che cresce solo grazie alle nascite tra gli emigranti di allora, i loro figli e i loro nipoti, desiderosi di mantenere il passaporto del paese di origine. L’emigrazione italiana verso l’Inghilterra è invece un fiume in piena e in continua espansione: nel 2013 la nostra emigrazione oltremanica è aumentata del 65 per cento rispetto all’anno precedente, nel 2014 è aumentata di nuovo, del 77 per cento. Insomma: la Gran Bretagna è oggi il paese al mondo che attira più italiani. Entro il 2016 – stima il nostro consolato – avverrà il simbolico sorpasso su Buenos Aires, e Londra diventerà la città italiana con il maggior numero di abitanti al di fuori dello Stivale.
Ma in realtà ha già di gran lunga sorpassato Buenos Aires. I suoi abitanti italiani sono molti di più di duecentocinquantamila: questo è infatti solo il numero dei residenti ufficiali, gli iscritti all’Aire, Albo Italiani Residenti all’Estero, al quale i nuovi arrivati – che ci vengano per studio o per lavoro – si iscrivono in media soltanto due o tre anni dopo essersi trasferiti a Londra (alcuni non si iscrivono mai, anche se sarebbe obbligatorio farlo entro dodici mesi). Per ogni italiano di Londra iscritto all’Aire – calcola il consolato – ce n’è almeno un altro, e forse altri due, che ci vivono senza essersi iscritti. La reale popolazione italiana di Londra potrebbe essere dunque fra le cinquecentomila e le settecentocinquantamila persone. Si può dire che probabilmente a Londra – mescolati ai suoi otto milioni e mezzo di abitanti, dodici milioni con i sobborghi, che ne fanno la più grande metropoli dell’Unione europea – c’è la quinta maggiore “città italiana”, dopo Roma, Milano, Napoli e Torino, più popolosa di Palermo, Genova, Bologna o Firenze.
Una “Little Italy” londinese, in effetti non tanto “little”. Ogni mese l’Aire di Londra conta duemila nuovi iscritti, e quindi secondo lo stesso calcolo i nuovi immigrati reali sono almeno due o tre volte tanti. Ormai è un esodo. O una grande fuga. Di proporzioni tali che il nostro consolato londinese ha creato un apposito “sportello” per i nuovi arrivati: si chiama Primo Approdo e consiste in una serata al mese in cui avvocati, commercialisti, medici, esperti di servizi sociali – tutti italiani già residenti a Londra – siedono a un tavolo offrendo gratuitamente consulenze agli italiani appena sbarcati sotto il Big Ben. Gli argomenti principali sono: come trovare lavoro, come trovare casa, la salute e gli studi accademici. “Lo facciamo per essere vicini ai nostri cittadini, per rispondere a un’esigenza che abbiamo sentito sempre più ampia e urgente”, spiega Pasquale Terracciano, l’ambasciatore d’Italia a Londra, che ha promosso l’iniziativa, coordinata dal console generale Massimiliano Mazzanti e dal console Sarah Castellani.
Chi sono questi nuovi emigranti italiani che “approdano” a Londra in cerca di un’occupazione, una specializzazione, un futuro migliore di quello offerto loro dall’Italia? Secondo i dati del consolato, il 57 per cento sono laureati, percentuale che sale all’89 per cento se si includono i possessori di un diploma scolastico superiore: un fenomeno ben diverso dall’emigrazione italiana del passato, quando a partire era la popolazione meno istruita. La parte migliore d’Italia che se ne va? La tanto lamentata fuga di cervelli? Sì, ma l’ambasciatore avverte che molti diplomati e laureati, almeno all’inizio, si adattano a fare mestieri che non richiedono un titolo di studio: cameriere, barista, commesso. Inoltre, altra novità, un tempo la nostra emigrazione proveniva principalmente dal Meridione: oggi, il 52 per cento viene dal Nord. E le medesime statistiche indicano come origine non solo le grandi città, ma anche i piccoli comuni, la provincia.
Questi “seminari per immigrati” – su cui un giovane cineasta italiano, Luca Vullo, a sua volta immigrato a Londra, sta girando un documentario – si svolgono in un luogo geograficamente appropriato: il nostro consolato è infatti in Farringdon Street, a due passi da Clerkenwell, la strada della prima immigrazione italiana nel Regno Unito; inoltre, in Clerkenwell Road c’è St Peter’s Church, la più antica chiesa italiana di Londra, in cui tutte le domeniche si dice messa – naturalmente in italiano – e in cui parte della comunità si ritrova in occasione delle festività religiose più importanti: ricordo una messa di mezzanotte, a Natale, qualche anno fa, con la neve artificiale che scendeva dal soffitto, un neonato nei panni del Bambin Gesù e padre Carmelo – che di St Peter è stato il parroco per decenni – che al termine della funzione stringeva la mano a ciascun fedele augurandogli un buon pranzo di Natale, a seconda dell’accento che sentiva, a base di lasagne, tortellini in brodo, orecchiette e altre specialità regionali varie. Gli special effects – la neve artificiale – erano da Hollywood, ma l’atmosfera da vecchia tradizione iconografica dell’immigrazione. Del resto, intorno a Clerkenwell Road sorge il quartiere della prima “Little Italy” londinese. Nei dintorni visse in esilio Giuseppe Mazzini, nella cui casa fu ricevuto Giuseppe Garibaldi: l’Eroe dei Due Mondi ebbe un’accoglienza così trionfale da parte della monarchica Inghilterra, a dispetto della fama di rivoluzionario e repubblicano, che gli ci vollero quattro ore per percorrere tra due ali di folla il tragitto dalla stazione ferroviaria Victoria fino al centro della capitale. Proprio al numero 138 di Clerkenwell Road c’è il più antico Delikatessen italiano di Londra, il primo negozio di alimentari nostrani in città, Terroni, aperto nel 1878 dal fondatore Luigi Terroni, all’epoca in cui trovare una bottiglia di olio d’oliva, da queste parti, era come fare un buco per terra e veder zampillare il petrolio. È qui che si tiene ogni anno, in luglio, la festa della Madonna di Monte Carmelo, paragonabile per atmosfera a quella di San Gennaro a New York.
Nel 1900, gli italiani di Londra erano circa diecimila. La nostra prima emigrazione lungo le rive del Tamigi era fatta così: intellettuali ribelli come Mazzini o droghieri come Luigi Terroni. Dopo la Seconda guerra mondiale, una nuova ondata di emigranti si stabilì a Soho, all’epoca quartiere malfamato e a buon mercato, trovando lavoro nei caffè e ristoranti della zona e importando dall’Italia, poco alla volta, prodotti esotici, mai visti prima, come gli spaghetti, l’olio d’oliva e il caffè espresso.
Oggi è diverso. Oggi la Italian London è quella del fashion: da Prada ad Armani, da Max Mara a Fiorucci, da Gucci a Tod’s, le boutique che costeggiano Bond Street, Carnaby Street e Chelsea, passando per piccoli artigiani di qualità come la bottega di scarpe Fiorentini&Baker, con negozi a Bologna, Beverly Hills e... Notting Hill. Perfino la Fiat, sorry, la FCA, Fiat Chrysler Auto, nostra maggiore azienda nazionale e ormai globale, formalmente si è stabilita a Londra, sua nuova sede legale, dove riunisce una volta al mese il consiglio d’amministrazione, mentre la nuova Cinquecento seduce gli inglesi, onnipresente nelle strade della capitale, in competizione con la Mini – anche questo, un segno di italianità londinese.
La verità è che, partiti più di mezzo secolo fa con la ristorazione, adesso siamo a Londra con la moda, con l’industria dell’automobile e con ogni altra professione, arte o mestiere immaginabile. I nostri immigrati oggi vengono nella “Piccola Italia” per fare di tutto: il banchiere, l’avvocato, il manager, l’architetto, il medico, l’ingegnere, lo scienziato, il barista, il cameriere, il cuoco, il commesso, la nanny, il traduttore, l’assistente fotografo, l’artista, l’insegnante, l’artigiano, o per farsi da soli una start up. C’è perfino un sito, con pagina Facebook e account Twitter, chiamato Italian Kingdom, dove ogni italiano di Londra può raccontare sé stesso e la propria esperienza: non più United Kingdom of Great Britain, ma Regno Italiano di Gran Bretagna. Il motivo è semplice. A Londra, magari dopo qualche settimana o qualche mese di ricerche, il lavoro si trova, o è più facile crearselo. Magari non il lavoro, quello sognato, bensì un lavoro: temporaneo, perlomeno nelle intenzioni, ma sempre meglio che niente.
Attirano indubbiamente anche altri fattori, per esempio il desiderio di imparare l’inglese, fare un’esperienza all’estero, vivere in una megalopoli globalizzata e trendy: ma il motivo principale è che nella capitale britannica l’occupazione non è una chimera. Merito dell’economia che tira, con il Pil che cresce a un ritmo fra i più alti in Europa, e di una disoccupazione ai livelli tra i più bassi della Ue, a dispetto delle lamentele un po’ xenofobe contro gli immigrati che ruberebbero posti di lavoro agli inglesi (quando in realtà tutti gli studi dimostrano che l’immigrazione crea ricchezza per la nazione ospitante). Merito anche di una normativa più semplice e più liberale: essere assunti è facile, l’unico ostacolo burocratico è procurarsi il Nin – National Insurance Number, equivalente del nostro codice fiscale – compilando un formulario e facendo un colloquio nel Jobs Centre della propria zona; così come, d’altro canto, è facile, facilissimo, essere licenziati su due piedi se non vai più bene, senza bisogno di tante spiegazioni.
Consultando Londranews.com, uno dei tanti siti internet rivolti agli italiani di Londra, si leggono offerte di lavoro in ogni settore e per ogni categoria, anche se non è affatto facile trovare un lavoro davvero buono e ormai la concorrenza è agguerrita anche per un impiego da barista in una delle tante caffetterie all’italiana – Starbucks, Caffè Nero, Costa Cafè – che per molti ragazzi e ragazze italiani sono il punto di partenza, e talvolta purtroppo anche di arrivo, al minimo salariale di 6 sterline (8 euro) all’ora.
Non tutto è così luccicante come sembra visto da lontano, attraverso il mito, i programmi televisivi, i film, i racconti degli amici, le foto ricordo di una vacanza. Andare all’estero a cercare lavoro – visto che in Italia non ce n’è – scegliendo come destinazione quella che forse è la città più cara d’Europa e del pianeta può sembrare assurdo: gli affitti a Londra sono esorbitanti, un letto in una camera per due persone in un appartamento con tre o quattro camere può costare 400 sterline al mese (550 euro); l’abbonamento alla metropolitana, la Oyster Card (oyster vuol dire “ostrica” – forse perché per viaggiare si sta chiusi dentro) che è in tasca a tutti, se ne porta via altre 130 (160 euro), sempre che tu non abiti troppo lontano dal centro, nel qual caso spendi ancora di più; aggiungi telefonino e bollette di luce, gas, acqua e hai speso mille euro al mese senza avere ancora neanche mangiato un pezzo di pane (per fortuna, se lavori in un ristorante o in un caffè il problema è almeno in parte risolto gratis). E poi le distanze sono immense, i ritmi frenetici, le abitudini nuove.
“Bisogna imparare a fare la coda, ad arrivare in orario, a essere sempre cortesi e rispettosi”, scrive nel suo blog “Londra chiama Italia” Cristina Carducci, sociologa di studi, immigrata anche lei da quattro anni, attualmente impiegata come cambiavalute e blogger part-time. “È una città darwiniana”, ammonisce Gian Volpicelli, master in giornalismo alla City University, con il sogno di diventare reporter ma per ora assistente di un giornalista inglese che gira un documentario e ha bisogno di qualcuno che “parli italiano”. Un luogo, insomma, dove sopravvive il più forte, o perlomeno sopravvivi se sei abbastanza forte, mentre i deboli si arrendono, non ce la fanno, dopo un po’ tornano indietro.
Ma se vengono in tanti significa che ne vale la pena, che ci sono comunque abbastanza opportunità per tutti – o che appunto è l’Italia migliore, la “più forte”, quella che sbarca a Londra, con laurea o senza, l’Italia che resiste. Bisogna dire che in un certo senso l’emigrazione è sempre stata così: ci vogliono coraggio e determinazione per partire, lasciare quello che si ha e si conosce, per quanto poco valga, e lanciarsi verso l’ignoto, sebbene sulla carta si possa avere l’illusione di non ignorare niente di Londra, di conoscere già tutto attraverso guide turistiche, romanzi di Nick Hornby, film con Hugh Grant e Keira Knightley, qualche summer school di lingua inglese, una gita scolastica. “Elementare, Watson”, direbbe Sherlock Holmes, ma poi si scopre che non è così elementare, e che di questa città ci sono un sacco di cose che non sappiamo, un sacco di aspetti da scoprire.
Non è una giungla esotica, e neppure d’asfalto, ma bisogna imparare e adattarsi, ringraziando le nuove tecnologie della rivoluzione digitale e le compagnie aeree a basso costo, comunicando in videotelefonata via Skype con familiari e amici, tornando a trovarli una volta ogni due, tre mesi – o persino più spesso – con i voli di EasyJet da Gatwick e Ryanair da Stansted, che diventano i nuovi porti d’ingresso nel pianeta Anglia, e di occasionale uscita per prendere una boccata di italianità, sole e cielo azzurro. Seppure non sia del tutto vero che questi ultimi manchino: “Se a Londra non ti piace il tempo che fa”, dice un proverbio locale, “aspetta cinque minuti”. Il barometro segna sempre variabile: un rapido sprazzo di primavera arriverà anche in mezzo a una giornata piovosa.
Qualcosa da imparare ce l’avrebbero anche i turisti italiani, che secondo una massima di Tony Green – editorialista del “London Evening Standard”, il quotidiano della sera free press letto dai londinesi che tornano a casa dal lavoro in metrò – “vengono a Londra perché credono che incontreranno la regina a Buckingham Palace, trascorreranno il loro tempo con Hugh Grant in una libreria di Notting Hill e mangeranno fish and chips sotto il Big Ben, mentre la realtà è che passeranno le notti in un ostello su Old Kent Road, perdendo la famiglia in metropolitana e spendendo una fortuna in una bisteccheria per un’Angus”. In verità, i nostri connazionali non sono più così disinformati, arrivano muniti di guida Lonely Planet e navigatore satellitare su smartphone: sanno bene cosa li aspetta, dai musei ai parchi, allo shopping, ai pub, e come arrivarci – più o meno. Proprio per questo sono sempre più numerosi, ormai un milione all’anno, e dunque contribuiscono anche loro a far aumentare la popolazione italiana di Londra, specie a Pasqua, a luglio-agosto e quando cominciano i saldi da Harrods – periodi in cui, fra Regent e Oxford Street, per strada senti parlare soltanto italiano e potresti credere che quel milione di presenze italiane a Londra sia confluito sul Tamigi tutto nello stesso giorno, alla stessa ora, nello stesso posto, proprio dove stai passando anche tu.
Si può scommettere tuttavia che ciascuno di quei turisti italiani a Londra, preparati o meno, ha pensato o detto nel corso della vacanza, mentre fotografava a tutto spiano con l’iPhone: “Io però qui ci vivrei, almeno per un po’”. Londra ci piace perché è straniera, ma anche familiare: dopotutto, sono stati i nostri progenitori, gli antichi Romani, a fondarla su un’ansa del Tamigi, nel 43 dopo Cristo, con il nome di Londinium.
Il problema però non è viverci “per un po’”, sei mesi, un anno o qualche anno, bensì stabilircisi, permanentemente, fare di Londra la propria “casa italiana” per sempre: perché se è difficile vivere in due in una stanza a quattrocento sterline a letto quando hai venticinque anni, è ancora più difficile – nel senso di maledettamente costoso – trovare un’abitazione per mettere su famiglia a trent’anni e oltre. Il prezzo medio delle case ha raggiunto il mezzo milione di sterline (settecentomila euro), ed è una media che prende in considerazione tutte e nove le zone coperte dall’Underground – il metrò su cui viaggiano tre milioni di passeggeri al giorno, che i londinesi chiamano “tube” –, in pratica l’intero territorio dentro all’M25, l’autostrada che gira intorno alla città, lunga 270 chilometri. Ma se cerchi casa in “centro”, nella zona uno o anche nella due, con mezzo milione di sterline compri una “one bedroom”, cameradaletto-soggiorno-bagno-cucinino. Senza contare le scuole, quelle private da trentamila sterline di retta annuale (mandarci due figli, dall’asilo al diploma di scuola media superiore, costa quasi un milione di euro), quelle statali un terno al lotto per entrarci, se sono buone, un metal detector all’ingresso per convincerti a restarne fuori, se sono cattive.
“Save our housing”, che si potrebbe tradurre con “risolveteci il problema degli alloggi”, titola il settimanale “Time Out”, bibbia del weekend londinese. “London is changing”, Londra sta cambiando, è lo slogan di una campagna pubblicitaria sull’impatto del carovita in una città in cui sceicchi arabi, petrolieri russi e nuovi ricchi di tutta la Terra fanno salire i prezzi del mattone alle stelle, rendendolo proibitivo per gli altri. “Abbiamo deciso di trasferirci al mare e non ce ne siamo pentiti affatto”, è il messaggio di uno dei cartelloni della campagna, e non si tratta di uno scherzo: conosco gente che si è trasferita a Brighton, sulla Manica, dove con i soldi ricavati vendendo un appartamentino di sessanta metri quadri a Londra si è comprata una villetta di tre piani vi...