1. Svegliare le coscienze: ReggioNonTace
Come è nato il movimento
Anche a Catania avevo un rifugio in cui ritrovare le ginocchia di Dio: uno spuntone di roccia a strapiombo sul mare, un luogo selvaggio che si raggiunge attraverso un sentiero di lava nera. Non immaginavo che sarei stato inviato a Reggio, che lì vedevo da lontano...
Qui sono arrivato nel 2004, come assistente della locale Comunità di Vita Cristiana, comunità laicale d’ispirazione ignaziana che condivide con noi gesuiti uno stile di presenza nella storia ispirato all’Incarnazione di Cristo. Che in altre parole, secondo la formula di Paolo VI ripresa da più papi, vuol dire «stare negli incroci della storia, ove vivono i crocifissi d’oggi».
La scelta dei superiori nasceva dalla decisione, presa due anni prima dalla Comunità di Reggio, d’aderire al Jesuit Social Network, che confedera le realtà operanti nel sociale della Provincia d’Italia della Compagnia di Gesù e di laici ignaziani. La Comunità di Reggio già da dieci anni offriva assistenza a immigrati e rifugiati e io sono da lungo tempo consultore dei Padri Provinciali nel Jesuit Social Network per il sociale; inoltre, a Catania, m’era stato chiesto di far nascere e dirigere un centro d’accoglienza per immigrati, affiliato al Centro Astalli di Roma.
Oltre che assistente della Comunità, divenni cappellano dell’Università Mediterranea di Reggio, e per i primi anni mi limitai per lo più a continuare l’esistente: celebravo Messa, ero disponibile per le confessioni, proponevo percorsi biblici. C’era anche un cineforum, ma era poco frequentato e in modo quasi passivo.
Decisi allora di proporre altro, ispirandomi alla missione del gesuita, che è l’accompagnamento personale di chi desidera una Coscienza responsabile delle proprie scelte, di fede e più in generale umane. È il grande insegnamento degli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio, che rendono possibili alcuni percorsi di vita spirituale consapevole, mossi dal desiderio di mettere Gesù al centro dell’esistenza.
Avevo a mente anche il costante richiamo del mio maestro nell’arte dell’accompagnamento spirituale con gli esercizi, padre Gilles Cusson, che non si stancava di ripetermi: prima di leggere il testo biblico, verifica con quale intenzione l’avvicini, se per bisogno o per gratitudine. Insomma, pensai che fosse parte dei compiti per cui i superiori mi avevano inviato a Reggio avviare dei percorsi di riflessione per il risveglio della Coscienza civile. Decisi di affrontare, in cicli annuali, diversi temi.
Nel 2008 proposi incontri con giornalisti, locali e nazionali, sul tema «Informazione e profezia della giustizia. Quale?». Il cammino ci fece coscienti che limitare l’informazione è un furto di libertà.
Nel 2009, col tema «Conflitti dimenticati, mascherati, negati – nel mondo, in Italia, a Reggio», partimmo da un dato: parlando di conflitti si descrive una situazione in cui si affrontano dei nemici; ma spesso non è chiaro chi siano gli amici e chi i nemici, e vengono messi in atto processi di vero e proprio occultamento. Abbiamo, perciò, individuato alcuni luoghi del conflitto, geografici e sociali, e ci siamo chiesti: li abbiamo presenti? O li mascheriamo, li neghiamo? E dimenticarli è colpa di altri o anche nostra responsabilità? E perché, quando, come, torniamo a percepirli? Solo se ne risentiamo personalmente, per difendere interessi individuali? Ripristinare le categorie nemico/amico è, allora, esplicitare una realtà sottaciuta; è il punto di partenza per cercare vie nuove di non-violenza attiva e per una pace fondata sulla convivenza.
Nel 2010 col ciclo «R-Esistenza e Liberazioni», approfondimmo l’impegno per la giustizia, che è cosa ben più grande del rispetto della legalità. Questa è ovviamente importante e tanto più necessaria in contesti criminali, ma non affronta le sfide d’oggi: che fare quando diventa legale ciò che è frutto di legislazioni ingiuste ed esprime un disegno che alimenta disuguaglianze economiche? Che fare della legalità che, negando opportunità di futuro, annulla la dignità? E dunque, parlare di «ri-esistenza» è un monito a risvegliarci per dare il nostro contributo alla ripresa democratica. Il che esige la riassunzione della responsabilità, che chiede cambi di stili di vita, personali e sociali, perché gli esclusi ritrovino voce. La lotta per la giustizia, infatti, non mira ad acquisire potere, ma è lavorare per trasformare la vita sociale e liberarla dalle iniquità; nasce dalla passione per la libertà e chiama a una prassi liberante, perché mai riflessione e impegno possono eludere la necessità d’incidere per trasformare le realtà ingiuste. Ed è dovere di tutti; da qui l’uso del plurale: per riconoscere che le vie della liberazione sono molte e che dialogo e collaborazione tra persone e gruppi d’ispirazioni diverse fa superare l’angustia di punti di vista particolari, che rischiano dogmatismi negatori di libertà. E poiché le ingiustizie generano vittime, non si può stare con tutt’e due le parti; solo così la lotta per la giustizia fa scegliere di stare tra le vittime.
Questi cicli d’incontri non erano conferenze e dibattiti cattedratici, ma racconti d’esperienze con testimoni d’alternative possibili e plausibili, provenienti dall’Italia e dall’estero.
Fu proprio nei giorni in cui era in corso l’ultimo ciclo di conferenze che scoppiò la bomba, e furono le persone che partecipavano ai seminari le prime a dar vita a ReggioNonTace.
Alla residenza della mia comunità si accede dal civico 4 di via Cimino. Sette metri prima c’è l’ingresso della Procura generale di Reggio. Lì, alle 4.50 del 3 gennaio 2010, venne fatto esplodere un ordigno. A noi aveva sfondato il portoncino e sbriciolato la vetrata che lo sovrasta. S’era a inizio d’anno e, svegliatomi, pensai fossero ancora i botti e mi riaddormentai. Verso le 7, invece, mi citofonò, sollecitandomi a scendere, Enzo, il mio confratello ottantenne che ogni mattina compra i giornali e poi passeggia sul lungomare, ascoltando musica in cuffia.
Alla Messa delle 10.30 – era domenica – c’era moltissima gente, la più diversa: con molte persone avevamo condiviso percorsi di riflessione. Proposi di vivere la liturgia penitenziale dinanzi alla Procura: per «chiedere perdono a Dio, per aver permesso che s’arrivasse a questo senza opporre il nostro “basta!”». Alla fine suggerii: «Stasera, alle sei, incontriamoci dinanzi alla Procura, in silenzio». Già un anno prima avevo fatto una proposta analoga: era stato ammazzato per strada un giovane, in pieno giorno, e proposi di radunarci sul luogo del delitto; quella volta eravamo solo in tredici. Per il raduno dopo la bomba eravamo circa duecento. Avevamo con noi solo un cartello: «Basta silenzio! Solidarietà alla magistratura reggina!». Rifiutammo interviste; parlavano le nostre facce. Alla fine qualcuno sollecitò a dare continuità a quell’iniziativa e prima di scioglierci stabilimmo un appuntamento per l’indomani nei nostri locali.
Ci rivedemmo – eravamo più di cento – e quella sera stessa nacque l’idea di creare un movimento. Ci dividemmo in vari gruppi. I più giovani ci hanno aiutato a scrivere il manifesto con un linguaggio il più possibile chiaro. Il 3 febbraio, dopo tre assemblee sempre più partecipate, di nuovo davanti alla Procura, lanciammo il movimento ReggioNonTace. Raccogliemmo subito oltre 400 firme.
Nel manifesto l’obiettivo fu dichiarato senza giri di parole: «La situazione della nostra città è così drammatica che impone il risveglio della Coscienza di tutta la cittadinanza responsabile. Attraverso la non-violenza e la forza persuasiva del dialogo, intendiamo creare spazi di solidarietà e resistenza, che non si limitino ad azioni di contrasto alla ’ndrangheta, ma abbiano il fine di rendere possibile la giustizia sociale, indispensabile presupposto per una convivenza civile e pacificata».
ReggioNonTace non è l’ennesima associazione antimafia, che porterebbe con sé il rischio di personalismi, manovrabilità e deleghe, con pericolose sovraesposizioni. Abbiamo individuato un valore positivo nel nostro modo d’agire: la vera sconfitta della ’ndrangheta passa attraverso percorsi di Coscienze democratiche che assumono responsabilità personali. Siamo, come dice il nostro slogan, un «no alla ’ndrangheta senza etichette»! E la forza di ReggioNonTace risiede nell’essere costituita da molte persone della più diversa provenienza. Con un leader forse correremmo di più, ma non ci sarebbero i tanti con cui camminiamo. Forse, fatti così, i nostri passi sono più brevi e lenti, ma sono di tutti, più reali e – speriamo – duraturi. Siamo persone che si sono incontrate e stimate, e sogniamo insieme; e m’ha arricchito sperimentare che non è necessario essere cattolici: perché è umano lottare contro la ’ndrangheta, e io sono cristiano se sono uomo!
La prima decisione (solo in seguito abbiamo sperimentato quanto sia faticoso mantenerla) è stata quella di incontrarci il 3 di ogni mese per riflettere e confrontarci su questioni legate alla criminalità e alla vita della città, avviando percorsi di risveglio della Coscienza civile ad ampia partecipazione.
Man mano è nato un coordinamento, dove ciascuno partecipa a titolo personale. C’incontriamo almeno due volte al mese; la prima, per confrontarci su situazioni che riteniamo importanti, e, la seconda, per organizzare il successivo appuntamento del 3, che coordiniamo a turno. La pianificazione di lungo periodo e le strategie di fondo, invece, le decidiamo in assemblee annuali del movimento. Grazie all’impegno volontario dei più giovani, abbiamo imparato a comunicare soprattutto via web, creando il sito www.reggionontace.it e la pagina Facebook «movimento ReggioNonTace», in cui si dà notizia delle tante iniziative in corso e si tiene memoria, anche attraverso video, degli eventi già conclusi.
Piano piano ReggioNonTace è diventato un interlocutore riconosciuto. Sia perché si percepisce la sua opera di risveglio della Coscienza civile personale; sia perché, senza etichette, rappresenta la possibilità di sostenere chi vuole lavorare per un futuro non soggiogato ad alcuna forma di potere. L’indipendenza è garantita anche dall’assoluta gratuità, che ci rende trasparenti, ingestibili e spesso indigesti. Ci ha fotografati bene l’intercettazione tra due ’ndranghetisti, che il procuratore Giuseppe Pignatone ha ricordato in più occasioni: «Se la gente non ci ama più e comincia a ribellarsi, siamo finiti!». Sulla stessa lunghezza d’onda, un quotidiano locale ha commentato: «La società civile minaccia la ’ndrangheta».
Per risvegliare le Coscienze, la nostra azione si propone di rischiarare tutte le «zone grigie» tra malavita e società civile: ordini professionali, club, massonerie, chiesa, amministrazione pubblica, politica... A tutti poniamo domande chiare e da tutti esigiamo risposte altrettanto chiare. Ognuno è chiamato a scegliere tra collusione con la ’ndrangheta – omertà, ricerca di favori e guadagni illeciti – e liberazione della città dall’oppressione.
Il passo in più l’abbiamo fatto con le elezioni amministrative del 2011, lanciando un «Patto tra i politici e la città alla luce del sole», con richieste esplicite a candidati e segretari di partito. Con l’aiuto di alcuni avvocati del movimento, esigevamo la trasparenza nell’impegno contro la ’ndrangheta, sino a chiedere la promessa di dimettersi, qualora il gip avesse dichiarato ammissibile un procedimento penale nei loro confronti. La proposta non ebbe grande successo: alle nostre richieste aderì solo un giovane di Rifondazione comunista, che non fu eletto. Ma non ci siamo arresi. Eletto il sindaco Demetrio Arena, gli chiedemmo subito un incontro per ribadire le nostre richieste, esprimendogli la convinzione che se l’amministrazione non trae forza dai cittadini, non può resistere alla ’ndrangheta. Non avendo mantenuto gli impegni che a parole aveva preso, gli chiedemmo d’applicare una norma dello statuto comunale, in vent’anni mai utilizzata, che prevede la possibilità d’indire un’assemblea richiesta dai cittadini su un preciso ordine del giorno. Erano necessarie 400 firme e in una settimana ne abbiamo raccolte 850; tuttavia fummo ignorati, nonostante i solleciti. Al novantesimo giorno, ultimo utile per la risposta del sindaco, dopo un sit-in, chiedemmo l’intervento del prefetto. Per tutta risposta, il gruppo consiliare del suo partito, il Pdl, fece convocare un’altra assemblea di lì a pochi giorni. Decidemmo d’andarci, ma senza parlare: erano presenti poche decine di persone e, dopo un’ora d’assoluto silenzio, ce n’andammo.
In una città in cui si è abituati ad arrendersi, insistemmo: facemmo ricorso al Tar, che ingiunse al sindaco d’indire l’assemblea e condannò il comune al pagamento di 1800 euro di spese processuali. È stata la vittoria della partecipazione contro l’arroganza; ed è una sentenza che, essendo la prima del genere in Italia, fa giurisprudenza. Eppure, fuori da Reggio, non se ne è avuta notizia (unica eccezione è l’università di Deusto a Bilbao, che ne ha fatto oggetto di studio!). Sapendo in quali condizioni versano le casse del comune abbiamo rinunciato ai soldi delle spese processuali e l’avvocato, autore del ricorso di centinaia di pagine, ci ha rimesso di tasca sua. Ma neppure dopo l’intervento del Tar il sindaco ha convocato l’assemblea. Secondo la procedura, a quel punto il tribunale avrebbe dovuto nominare un commissario ad acta che avrebbe sostituito il primo cittadino, ma prima della scadenza è stato sciolto il consiglio comunale «per contiguità ’ndranghetista». Sei giorni prima dello scioglimento, l’ultimo atto del sindaco è stato il ricorso al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar: sarebbe costato alla comunità ben 30mila euro! Appena arrivati i commissari, abbiamo rivolto a loro la richiesta dell’assemblea e l’hanno accolta subito, rispondendo così all’accusa che di solito si solleva, e cioè che col commissariamento è sospesa la democrazia perché governano dei non eletti. La riuscita dell’assemblea è stata superiore a ogni aspettativa: hanno partecipato oltre mille persone, con sessantacinque interventi in tre ore. Sul tappeto sono stati posti, in vario modo, i temi all’ordine del giorno: trasparenza, legalità e partecipazione.
Purtroppo i commissari hanno in seguito deluso le aspettative dell’assemblea. Nonostante avessimo ribadito che far riferimento ai cittadini li avrebbe riparati dalle ingerenze della ’ndrangheta e della politica «contigua», le scelte sono state fatte nel chiuso dei loro uffici, senza alcuna condivisione. Il dissesto finanziario ha fatto innalzare al massimo livello le tasse. Sono stati salvati i posti di lavoro dei dipendenti assunti dalle società partecipate (le cui infiltrazioni ’ndranghetiste sono tra le cause principali dello scioglimento del consiglio comunale); e ciò non ha fatto diminuire l’accumulo di spazzatura sui marciapiedi, né ha migliorato la situazione della carenza dell’acqua o del dissesto stradale.
Alla fine, suscitando ulteriore sfiducia nelle istituzioni, è arrivata la chiamata al ministero degli Interni del capo della terna commissariale, in seguito allo scandalo riguardante Alma Shalabayeva, fermata insieme alla figlia nel maggio 2013 in un blitz della polizia italiana vicino Roma e riconsegnata alle autorità kazake. Era appena passato un anno dal commissariamento e questa decisione ha rischiato di riconsegnare il comune di Reggio alle condizioni di prima (nuove elezioni si sono avute solo nell’ottobre 2014).
Non ci siamo dati per vinti e abbiamo intrapreso un’altra iniziativa che ha dell’incredibile qui, dove ci si abitua presto a subire passivamente, come fosse un destino, anche le ingiustizie più palesi. Come accennato, per evitare il completo dissesto finanziario i commissari si erano limitati ad aumentare le tasse, di fatto facendo risanare il debito ai cittadini e salvando l’intera classe politica colpevole della disastrosa situazione. Ci siamo detti che l’unico modo per punire i colpevoli fosse una condanna per le loro scelte amministrative: contro quegli amministratori abbiamo perciò presentato un ricorso alla Procura regionale della Corte dei Conti, che ha la facoltà di decidere, prima dell’esito del processo penale in corso, il sequestro preventivo dei beni degli imputati; sarà poca cosa rispetto al denaro scomparso, ma era un segnale forte. In 28 abbiamo sottoscritto il ricorso e abbiamo successivamente raccolto oltre 3000 firme di adesione.
Anche stavolta, se l’esito risulterà positivo, sarebbe la prima volta in Italia: la Corte può anc...