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Quello che ci dice
la teoria finanziaria tradizionale
Se vogliamo capire quali sono i limiti della teoria finanziaria tradizionale, dobbiamo prima illustrarne i concetti base. Ad esempio, come risponderebbe quella teoria alla semplice domanda: che obiettivi si dà un investitore che sta costruendo un suo portafoglio di investimenti? Secondo la teoria economica, ogniqualvolta siamo chiamati a prendere una decisione, compresa quella che riguarda la selezione dei nostri investimenti, valutiamo le alternative disponibili sulla base dell’utilità che ci aspettiamo di avere facendo una scelta piuttosto che un’altra. E la nostra scelta sarà quella che ci attendiamo possa darci l’utilità maggiore.
L’utilità ha però due componenti. La prima è il valore atteso. In pratica, si tratta del valore derivante da una decisione ponderata in base alla probabilità che questo valore si materializzi.
Un esempio. Consideriamo l’ipotesi in cui vi chiedano se preferite ricevere (a) 5 milioni, oppure (b) con il 50% di probabilità 1 milione, e con il 50% di probabilità 10 milioni. Se ragionaste solo in termini di valore atteso, scegliereste (b) (il valore atteso è 0,5% ∙ 1 + 0,5 ∙ 10 = 5,5 milioni).
Ma qui interviene la seconda componente, ossia l’avversione al rischio (che è alla base della regola aurea «pochi, maledetti e subito»). Un’avversione al rischio che a sua volta dipende dall’utilità decrescente di qualsiasi bene, compreso il denaro. L’utilità di qualcosa, infatti, non può che ridursi man mano che di quel qualcosa cresce la disponibilità . Se sto facendo una marcia nel deserto, un bicchiere d’acqua ha per me un valore enorme; ma che valore può avere per me quello stesso bicchiere d’acqua nella vita di tutti i giorni, in una situazione, cioè, nella quale posso bere tutta l’acqua che voglio e in qualsiasi momento? Molto, molto minore.
Se si ragiona quindi in termini di utilità – e il denaro ha un’utilità sufficientemente decrescente man mano che aumenta –, nell’esempio si sceglierà la soluzione (a). La Tabella 1 illustra la relazione fra denaro e utilità (i valori sono ovviamente soggettivi).
Tabella 1. Relazione fra denaro e utilitÃ
| Milioni di euro | 1 | 2 | 3 | 4 | 5 | 6 | 7 | 8 | 9 | 10 |
| Utilità | 1 | 1,95 | 2,85 | 3,7 | 4,45 | 5,1 | 5,65 | 6,05 | 6,3 | 6,4 |
| Utilità del milione aggiuntivo | 1 | 0,95 | 0,9 | 0,85 | 0,75 | 0,65 | 0,55 | 0,4 | 0,25 | 0,1 |
Come si vede dalla seconda riga, l’utilità di 1 milione è 1, mentre quella di 10 milioni è 6,4. Nell’esempio che abbiamo fatto l’utilità di (b) è quindi 0,5 ∙ 1 + 0,5 ∙ 6,4 = 3,7, molto meno dell’utilità (4,45) dei 5 milioni!
Nell’esempio, si sceglierà pertanto (a), cioè 5 milioni sicuri. L’implicazione qualitativa è che si cercherà sempre di privilegiare scelte che danno vantaggi certi, anche a costo di sacrificarne altre con rendimenti che sulla carta sono maggiori.
La teoria economica e il buon senso suggeriscono quindi che l’obiettivo finale alla base delle scelte di portafoglio è duplice: la massimizzazione del rendimento atteso per un dato livello di rischio che si ritiene accettabile (concetto che può anche essere espresso come minimizzazione del rischio per un dato livello di rendimento accettabile).
Ma come facciamo, nella pratica, ad assicurarci che il portafoglio composto dagli investimenti che abbiamo selezionato raggiunga l’obiettivo di massimizzare il rendimento per un dato livello di rischio? Analizziamo velocemente i due concetti. Il rendimento atteso rappresenta ovviamente il guadagno che ci aspettiamo di realizzare effettuando uno specifico investimento. Le nostre aspettative in proposito possono derivare da convinzioni personali, da evidenze statistiche o – come spesso accade – da una combinazione di queste due cose.
Per quanto riguarda il rischio, secondo la teoria tradizionale l’indicatore da cui partire è la varianza. La varianza è un parametro che descrive la distribuzione di probabilità e illustra quanto i singoli numeri si trovano lontani dalla media. In questo senso è un indicatore di volatilità , e quindi di rischio.
Ceteris paribus, non c’è alcun dubbio che un investimento con volatilità inferiore sia preferibile. Ma che fare quando lo stesso investimento offre un rendimento veramente modesto rispetto ad altri? Se confrontiamo, ad esempio, azioni e obbligazioni nel lunghissimo periodo (gli ultimi cento anni) scopriamo che la volatilità delle obbligazioni è stata molto inferiore a quella delle azioni, ma anche il rendimento lo è stato (in media 4% annuo, contro il 10% delle azioni). Per investimenti a lungo termine il rendimento delle azioni è quindi talmente superiore a quello delle obbligazioni (più del doppio!) da rendere facilmente accettabile il rischio di una maggiore volatilità . Naturalmente questo non implica che tutti gli investimenti in portafoglio debbano essere azionari. La vera minimizzazione del rischio non si può avere investendo tutto in un solo titolo o tipo di strumento.
Ma che cos’è un portafoglio? Non è altro che l’insieme di investimenti diversi fra loro effettuati da un singolo investitore. Il tentativo è di diversificare in modo appropriato gli investimenti, così da minimizzare il rischio. Ad esempio, dato che investire in oro viene considerata un’operazione «difensiva» (l’oro, bene rifugio, dovrebbe aumentare di prezzo quando c’è una crisi finanziaria globale), avere in portafoglio fondi indicizzati all’oro e titoli obbligazionari dovrebbe intuitivamente generare un livello di rischio complessivo inferiore a quello che si avrebbe investendo in un solo settore.
Ed è a questo punto che diventano importanti i concetti di covarianza e correlazione. Per due investimenti X e Y la covarianza è positiva se, mediamente, X e Y subiscono oscillazioni concordi (quando X supera il valore medio anche Y supera il valore medio), negativa se subiscono oscillazioni discordi (quando X supera il valore medio Y non lo supera, e viceversa), nulla se subiscono oscillazioni indipendenti (quando X supera il valore medio Y a volte lo supera a volte no). La correlazione tra X e Y è invece il rapporto tra la loro covarianza e la loro volatilità , e risulta sempre definito tra –1 e +1.
L’effetto diversificazione si ha non appena la correlazione è meno che perfettamente positiva, ossia quando è minore di 1. Se veramente si volesse diversificare, occorrerebbe considerare, ad esempio, accanto a X uno strumento Y che non solo si muove in misura diversa verso l’alto e verso il basso, ma si muove sempre in direzione opposta a X: in questo caso la correlazione tenderebbe a –1, e sarebbe ragionevole attendersi che in ogni periodo la somma dei prezzi dei due titoli possa rimanere decisamen...