Le libertà e i diritti: categorie concettuali e strumenti di garanzia
di Giuseppe Franco Ferrari
1. Introduzione
I diritti dell’individuo, o, in diverse prospettazioni, della persona, dell’uomo, del cittadino, rappresentano, alle soglie del XXI secolo, la vera e propria forza motrice del costituzionalismo. Se si volge all’indietro lo sguardo, è difficile non sentire la necessità di ricostruirne lo sviluppo storico, per meglio comprendere la realtà comparata attuale. Benché le più importanti categorie concettuali in materia siano state concepite a partire dal Seicento e fissate tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento, in fondo è tutta la storia umana, o almeno quella del pensiero giuridico occidentale, a presentarsi come il continuum, ai cui estremi stanno individuo e società, su cui la libertà scorre, collocandosi su equilibri sempre diversi e mutevoli, rapportandosi all’organizzazione del potere e variamente condizionandola [Ferrari, 2010].
Una ricostruzione diacronica della storia della libertà è dunque fondamentale per comprenderne lo sviluppo sino alle problematiche attuali. Non è un caso che alcune delle metafore qualificanti il pensiero politico-giuridico europeo dal Cinquecento a oggi (Utopia, Tommaso Moro, 1516; Il Leviatano, Thomas Hobbes, 1651; Gulliver, Jonathan Swift, 1726; Robinson Crusoe, Daniel Defoe, 1719; Il bosco, Ernst Jünger, 1926, 1934; Il riccio e la volpe, Isaiah Berlin, 1986) si riferiscano appunto al rapporto tra individuo e potere pubblico. Ne deriva che la ricostruzione storica non può limitarsi al dato normativo, ma deve rifarsi in parallelo alla storia delle idee, essendo scontato che i diritti abbiano svolto un ruolo determinante nel convertire le forme sociali in forme giuridiche. Naturalmente il percorso ideale del valore della libertà ha dovuto conoscere mediazioni e tensioni con altri valori, ma l’esperienza storica dimostra, senza indulgere al determinismo, che dopo che lo Stato moderno si è sottoposto, a partire dalla metà del Novecento, a un processo non solo di razionalizzazione del potere, ma anche di disciplinamento sociale, con la deteologizzazione e la deconfessionalizzazione dell’ordine politico-sociale, la dimensione dei diritti ha assunto un peso prioritario e non frazionabile nel panorama assiologico, oltre che nella capacità di conformare l’organizzazione del potere politico e della società.
2. I diritti degli antichi: i sistemi greco e romano
Le più autorevoli ricostruzioni semantiche [Benveniste, 1969] ritengono che presso gli antichi popoli indoeuropei la nozione di libertà sarebbe ricostruibile in termini di comune appartenenza a un gruppo, a una stirpe legata da vincoli di sangue, alla protezione derivante dalla comunità. I lemmi eleutheros e liber nelle lingue greca e latina discenderebbero infatti dalla radice leudh, che descrive lo sviluppo o la crescita in una dimensione collettiva. La configurazione della libertà come status sociale espresso essenzialmente da vincoli di appartenenza etnica è dunque almeno altrettanto risalente quanto la sua imputazione individuale come non sottoposizione a giogo di schiavitù.
D’altra parte, nel latino classico sono definiti liberi sia gli individui non soggetti a schiavitù che i figli nati nella famiglia, costruita appunto in vista del concepimento. Discendenza genetica ed esenzione da schiavitù confluiscono insomma in unico concetto, espressivo di una condizione a prevalente connotazione sociale.
Nel diritto greco, l’aggettivo eleutheros e il sostantivo che ne deriva descrivono sia la posizione dell’uomo libero contrapposta a quella dello schiavo sia la condizione della città non soggetta a potere esterno. Nel periodo classico (dal VII al V secolo a.C.) la libertà viene rivendicata come orgoglioso primato sui barbari e contrassegno di civiltà verso l’esterno, mentre all’interno esprime sicurezza della proprietà, non assoggettamento a servitù per debiti, almeno dopo le riforme di Solone (593-594), e uguale partecipazione alle funzioni pubbliche, legislative, amministrative e giudiziarie. Sotto il profilo interno la condizione individuale dipende dal nomos, che assicura l’ordinato svolgimento della politica e insieme garantisce l’eguaglianza dei cittadini nelle funzioni essenziali per la vita della collettività. Solo i polites ad Atene hanno titolo alla proprietà di immobili, sono tenuti a versare imposte ordinarie o straordinarie, hanno diritto all’assistenza in caso di malattia o emergenza, sono tenuti a rendere il servizio militare e possono partecipare a manifestazioni religiose. Tali prerogative sono riservate ai maschi adulti, non si estendono alle donne, ai minori, agli stranieri anche se residenti e agli schiavi. Una cittadinanza attenuata è riconosciuta ai meteci, stranieri di origine greca o barbara residenti da lungo tempo, assoggettati a tributi appositi, tenuti al servizio militare in corpi separati e capaci di obbligazioni contrattuali ma non della titolarità di diritti reali. A Sparta, ancora peggiore è la condizione degli iloti, schiavi pubblici legati alla terra ma vendibili separatamente da essa, vittime della caccia dei giovani spartani durante il loro addestramento bellico.
I diritti di partecipazione politica nella polis democratica si manifestano nel concorso alle funzioni di governo (presenza alle riunioni popolari, presentazione di denunce o suppliche, eguale diritto di parola in assemblea in vista della deliberazione, diritto di ricoprire cariche politiche o amministrative, di norma assegnate per periodi brevi e a rotazione) e di giudizio (proclamazione giurata contro singoli, con il rischio di soccombenza del denunciante e delle sanzioni correlate, diritto di partecipare ai collegi con funzioni decisionali previa estrazione a sorte). A Sparta il principale diritto politico è quello alla partecipazione alla vita militare, l’aspettativa di far parte dell’Assemblea degli anziani (gerousía) scattando solo alla fine delle obbligazioni militari, all’età di sessanta anni. In nessun caso sussistono diritti verso il potere pubblico, o spazi di autonomia del singolo, anche nei confronti della famiglia o di altri gruppi sociali. La struttura sociale non ammette ambiti di vita privata difesi dall’interferenza della comunità o dell’opinione pubblica. Nelle piccole democrazie la tensione permanente verso obiettivi politici dà corpo a una face-to-face society [Laslett, 1956; Finley, 1973], nella quale non vi è posto per spazi di riservatezza individuale. Gli atteggiamenti rivendicativi sono considerati antisociali e fonte di disordine, l’ambizione stadio iniziale della corruzione, l’eccessivo amore della libertà premessa della ricerca della tirannide. I diritti di libertà non possono dunque dilatarsi all’estremo ma subiscono limitazioni in chiave civica in relazione ai valori sociali dominanti (c.d. moralizzazione del concetto). Le libertà sono fruibili soltanto all’interno della comunità e non sono rivendicabili contro di essa; il dato partecipativo esaurisce il ruolo del singolo, in quanto l’organizzazione politica e amministrativa non è separabile da quella che sarà chiamata società civile e non si danno pretese della seconda verso la prima. I diritti attribuiti all’individuo sono fortemente funzionalizzati all’interesse della collettività.
Nel diritto romano di età antica e repubblicana manca del pari qualsiasi separazione tra l’organizzazione giuridica della civitas e la volontà collettiva del gruppo; è fortissima l’unità solidaristica della collettività, cementata dal culto degli antenati e dalla dimensione religiosa che compenetra di sé la convivenza comunitaria e scandisce i tempi della vita politica e di quella individuale; al centro di queste ultime è il merito individuale, attestato mediante il comportamento privato e la capacità di ricoprire cariche magistratuali. Libertas non è quindi aspettativa individuale, ma espressione della vita politica e formula riassuntiva di forma di Stato e di governo [Wirszubski, 1950]. La fruizione della libertà è comunitaria; l’eccesso di individualismo è percepito come una minaccia per la comunità. Civitas e libertas sono indissolubilmente legate: entrambe si perdono per la prigionia in guerra, mentre il rientro del captivus nei confini (postliminium) lo restituisce alla condizione di ingenuus. La capacità giuridica del soggetto è legata allo status familiare e solo il paterfamilias è vero soggetto di diritti, essendo gli altri componenti della famiglia privi di attitudine ai rapporti patrimoniali e a quelli personali, in quanto soggetti a una potestà assoluta, simile al dominium ex iure Quiritium sulle cose. Anche la donna è soggetta, se coniugata, a una forte limitazione della capacità di agire, che si attenua solo dopo Diocleziano, ed è del tutto incapace sul versante del diritto pubblico, non potendo esercitare diritti politici.
La prevalenza della politica sulla sfera sociale è espressione della ricerca di un sistema di valori conformato per durare diacronicamente di generazione in generazione: la libertas è funzionale alla conservazione della forma di Stato e di governo e si traduce essenzialmente in istituti partecipativi, concernenti i comitia curiata e l’inclusione in gentes quiritiae come presupposto per ricoprire cariche politiche o amministrative di qualsiasi tipo. Nei comitia e nei concilia plebis il voto avviene per tribus e centurie, non per teste e in forma palese almeno fino alle leges Gabinia (139 a.C.) e Cassia (137 a.C.).
Come in Grecia, insomma, la democraticità complessiva del sistema deriva non da ambiti riservati alla persona, ma dal controllo sociale sull’operato personale e pubblico dei magistrati e dei candidati, che governa la formazione del consenso. L’allargamento progressivo della cittadinanza tende ad ampliare la partecipazione consolidando la legittimazione del sistema politico. Il dato partecipativo si attenua naturalmente durante l’età del Principe, quando i bona libertatis vengono rimpianti da molti, ma la concezione organicistica del potere sopravvive e si trasferisce in capo al Principe come centro di imputazione della intera res publica, tanto che si parla di libertas augusta o publica.
3. Concezioni filosofiche e religiose del cristianesimo e del tardo Impero
La crisi del modello politico classico, con l’affermazione del dominio macedone prima e di quello romano poi sulla Grecia, favorisce il trasferimento dell’idea di libertà dal terreno della fruizione sociale e politica a quello del rapporto del singolo con la collettività indifferenziata dei soggetti umani. Già Platone aveva individuato nella parte razionale dell’io il fattore distintivo del libero dallo schiavo e auspicato l’avvento in luogo del demos della supremazia intellettuale dei filosofi; la sofistica aveva poi introdotto elementi di relativismo nella valutazione della condizione umana. Gli epicurei, inoltre, raccomandano la ricerca della felicità fuori dalla società civile, della virtù fuori dalla partecipazione; gli stoici, infine, collocano la libertà nella sfera psicologica, cercando la concordia nella comunità dei saggi.
La libertà così, nel momento del declino della democrazia greca, in età ellenistica, si sposta sul terreno meramente intellettuale, in cui il saggio può prescindere dalla condizione sociale e dallo stesso stato di schiavitù, cercando rifugio nella dimensione interiore.
Alla stessa stregua, in Roma dopo la stabilizzazione della forma imperiale, la filosofia e la cultura politica fiancheggiano l’involuzione autocratica, favorendo l’impegno nella vita privata e nell’insegnamento come alternativa alla politica e ai doveri civili classici o la ricerca dell’otium, in vista di un’autarchia realizzabile a prescindere dal contesto politico e dalle sue implicazioni giuridiche, in mera armonia con la natura.
La libertà del saggio deriva dalle degenerazioni politico-istituzionali e si afferma come concettualizzazione ideale, pur non tradotta in modelli normativi.
In un quadro storico analogo e anzi in parte coincidente si colloca la concezione cristiana, in cui la libertà assume la veste di liberazione dal peccato, ma anche dal rigore delle regole antico-testamentarie, insufficienti alla redenzione, e in ultima analisi dalla morte, divenendo irrilevante la posizione sociale occupata e la conformazione dell’ordinamento politico, cui comunque è dovuta obbedienza. Anche in questa versione, la condizione spirituale diventa indifferente all’evolvere della politica e prescinde dalle forme del potere; solo che compare per la prima volta una impostazione dogmatica, trascendente, funzionale alla visione apocalittica del percorso umano, insieme all’esistenza di un vincolo alla concezione spirituale della libertà. È Agostino di Ippona, sul finire del IV secolo d.C., a inserire nel libero arbitrio la necessità dell’apporto della grazia, come condizione che rimuove un ostacolo al pieno dispiegarsi di esso.
Infine, nasce in questi stessi secoli l’idea di libertas religionis o ecclesiae, che si manifesta dapprima in forma di rivendicazione di tolleranza nel clima delle persecuzioni e presto, conquistata la libertà di ...
