Educazione spirituale (da 16° a 40°)
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Educazione spirituale (da 16° a 40°)

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Educazione spirituale (da 16° a 40°)

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Se vi piace coltivare lo spirito, se non avete deciso di punirvi restando astemi, se credete che non guasti sapere cosa bere, se pensate che l'alcool non è mai terapeutico ma senza andrebbe peggio, o anche solo se vi va di leggere un libro sofisticato, divertente e allegro, allora queste pagine sono perfette per voi.

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Informazioni

Educazione spirituale
(da 16° a 40°)

Il nettare di Plutone

La parola cocktail ha origini incerte. Nessuna delle microleggende di fondazione appare convincente. L’abitudine di miscelare vini, liquori, frutta, essenze si perde nella notte dei tempi. Qualcuno dice che il cocktail (in inglese ‘coda di gallo’) sia stato casualmente inventato dalla vivandiera Betsy Floyagan nel 1840. Durante la guerra di secessione, mischiò gli avanzi di alcuni distillati con l’aggiunta di variopinti succhi di frutta e li offrì ai soldati che furono deliziati da quelle bevande colorate, multicolori come la coda di un gallo.
Per qualcun altro, invece, si parte proprio dalla coda vera: era quello il trofeo che il proprietario del gallo vincitore si aggiudicava, a discapito del povero sconfitto, alla fine del cruento combattimento tra pennuti. Il brindisi, miscelato con liquori, si levava appunto alla «coda del gallo».
Diversa la storia che parte dal numero 437 di Royal Street a New Orleans, abitazione del farmacista massone Antoine Peychaud. Originario di Santo Domingo, accoglieva i suoi clienti con una bevanda a base di acquavite, Cognac, zucchero e varie spezie. Ogni volta la preparava utilizzando come misurino un portauovo, in francese coquette, in seguito banalizzato inglesemente in cocktail.
Il punto fermo, invece, è Jeremiah (Jerry) Thomas, considerato il padre dei mixologist americani, inventore supposto del Martini, famoso in America e in Europa: da San Francisco a Parigi, a New Orleans e a New York, in cui fu barman del Metropolitan Hotel. Thomas divenne un vero e proprio divo dello shaker, guadagnò un sacco di soldi e ne perse altrettanti giocando in Borsa a Wall Street. Nel 1862 pubblicò presso l’editore Fitzgerald di New York quella che è stata a lungo la bibbia di professionisti e appassionati: How to Mix Drinks or the Bon Vivant’s Companion. Tradotta in italiano da Feltrinelli col titolo Il manuale del vero gaudente ovvero il grande libro dei drink, codifica decine di fizz, sour, flip, julep, eggnog e punch, che furono forse, a quei tempi, la più diffusa forma di cocktail. I punch erano spesso il frutto di più ingredienti diversi miscelati in gran quantità in grosse conche (punch bowl); i julep invece si creavano sostanzialmente con menta, zucchero e liquori; i fizz con limone.
Molte di queste distinzioni sono in voga ancor oggi. Anzi: questa particolare “fenomenologia dello spirito” ne conta 19, dai collins ai grog, dai sour agli shrub; ma, lungi dall’aiutare la comprensione, queste classificazioni obsolete rischiano di confondere le idee. Conviene semmai distinguere i cocktail tra long drinks (più diluiti, come il Mojito o il Gin Tonic) e short (come il Martini o il Margarita); e poi sapere se si bevono prima o dopo mangiato, in tarda mattinata, a merenda (per i più appassionati); se funzionano meglio come aperitivo o after dinner, cioè dopo cena. Thomas doveva essere un bel tipo: commentava le sue ricette, ne inventava di nuove e ai suoi tempi divenne famoso per il Blue Blazer, da maneggiare con cautela.

Blue Blazer

Ecco come Thomas descrive la spettacolare performance da baraccone dei divertimenti:
Usate 2 grandi caraffe argentate con manici; 1 bicchiere da vino di scotch whiskey [sic! whiskey con la “e” è irlandese, e non può dunque essere scozzese]; 1 bicchiere da vino di acqua bollente. Mettere il whiskey in una caraffa e l’acqua bollente nell’altra, dare fuoco al whiskey con un fiammifero e mentre brucia mescolare i due ingredienti versandoli quattro, cinque volte da una caraffa all’altra, avendo cura che la fiamma non si spenga e tenendo la caraffa da cui si versa molto più in alto dell’altra. Se l’operazione è riuscita, sembrerà una cascata di fuoco liquido. Addolcire con un cucchiaino di zucchero bianco e servire in un piccolo tumbler con un pezzetto di scorza di limone. Chi assiste alla preparazione di questo cocktail può pensare che si tratti di un nettare di Plutone anziché di Bacco. Il neofita dovrà fare attenzione a non scottarsi quando mescola gli ingredienti. È pertanto consigliabile fare un po’ di pratica con acqua fredda prima di versare il liquido infiammato da una caraffa all’altra.
Ancora negli anni Trenta il grande Harry Craddock del Savoy Hotel di Londra usava questa ricetta insieme a molti altri cocktail assai complessi. Oggi si tende a semplificare, anche se la fantasia già codificata (attenzione alle invenzioni personali!) non ha quasi limite. Ecco qualche bel nome di cocktail: O Harry!, Zazarac, Tom & Jerry (un’altra famosa creazione di Thomas, a base di rum, uova e brandy), Peto cocktail con arancia, vari vermouth, gin, maraschino, Alaska (inventato nel Sud Carolina)... D’altra parte anche oggi non si scherza, coi nostri Cerebral, Russian Sombrero, Between the Sheets... Come se i cocktail non fossero altro che brevi racconti liquidi, nuovi oppure riletti ogni volta daccapo.

Avabar

A me, che a 12 anni ero alto 1 metro e 82, mia madre diceva: «attento! bere alcolici blocca la crescita!». Forse ho cominciato presto per questo, per sprezzo, dall’alto d’una già acquisita (non meritoria) statura. Assodato che non conviene cominciare in tenera età a bere alcool; che gli anni iniziatici sono sempre un po’ il caotico, chiassoso prolungamento di un sé incerto; una volta superato lo scoglio del bere per stonarsi, si dovrebbe evitare l’equazione bere uguale dissetarsi, con il relativo disprezzo per l’acqua.
Non crediate: c’è acqua e acqua, e un bevitore che si rispetti ne conosce le differenze, sa tenere d’occhio il residuo fisso, ha sempre un bicchiere d’acqua gelata accanto al suo whisky, ne piazza sempre un po’ tra l’ultimo sorso di Sauvignon e il primo di Barbaresco, la usa per migliorare Cognac scadenti.
Più in generale, sa che quel bicchiere cristallino è uno scalino su cui sedersi ogni tanto durante una notturna discesa agli inferi. Partire con l’acqua e conoscerne la qualità è un consiglio basilare, sempre e ovunque, anche nel proprio bar, pubblico o privato.
Se non ne avete uno, oltre a quello di casa, scegliete i bar dei grandi alberghi. Sono sempre accoglienti e a moderata densità umana. Spesso hanno divani e poltrone; sono silenziosi, appartati nel cuore d’un via vai di persone.
Un posto col gagliardetto triangolare AIBES in bella vista (è l’Associazione Italiana Barman e Sostenitori) vi garantisce un barman che conosce i fondamentali della materia. Meglio se si presenta con giacca bianca o avorio, camicia bianca e cravatta nera, pantaloni neri. Un autentico barman è molto di più di colui che semplicemente sta dietro il banco, è qualcuno a metà tra Virgilio e Sancho Panza; deve avere una sua personalità, un suo passato o un suo entusiasmo, un acume sottile e silente con cui accogliervi. Indaffarato e partecipe, saggia il vostro umore in un attimo, capisce non solo che tipo di bevitore siete, ma che giorno avete passato e che serata vi aspetta. Potete essere habitué o di passaggio, comunque v’inquadra e come sempre lascia a voi la prima mossa, perché è un bonario Caronte che vi accoglie per traghettarvi verso piacevoli gironi di bottiglie, bicchieri, appetizer. E, in certi casi, si prende cura della vostra solitudine.
Alle sette di sera, tra la fine del giorno e l’alba della notte, cominciate così a coltivare il vostro interludio (termine rivelatorio, deriva dal latino interludere, ‘giocare, scherzare nel mentre’): da soli, con amici o estranei compagni di viaggi stanziali. Il bar diventa allora il pontile al quale si approda dalla maretta che vi ha accompagnato nel lavoro; da dove si comincia a scrutare l’orizzonte nel buio. Qui si può condurre un gioco di specchi col proprio doppio e parlare al barman perché qualcun altro intenda: un triste signore infagottato come Cardarelli nel suo spigatone doppiopetto o un gruppetto di mamme, finalmente lontane da mariti, figli, cani, tintorie, corsi di recupero, tennis; tutte felicemente via, insomma, dalla poco pazza folla domestica.
Entro un recinto di tavolini, morbide seggiole imbottite, divani, trespoli o gomiti sul bancone, potete finalmente diventare il vostro “avabar”, in un andirivieni di osmosi istantanee tra la vostra immagine che occhieggia...

Indice dei contenuti

  1. Educazione spirituale (da 16° a 40°)
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