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Difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore
Informazioni su questo libro
Paolo Borgna, spirito libero, apprezzatissimo magistrato, scrittore civile e garante dei valori costituzionali, spiega al lettore, immaginando di parlare con un suo giovane uditore, quanto sia importante la funzione dell'avvocato, come sia insopprimibile la figura costituzionale del 'difensore dei diritti', perché sia necessario per il bene stesso della società conservare a questa categoria il diritto a svolgere una professione intellettuale libera e dignitosa, non equiparabile con l'attività d'impresa e non assimilabile ad una funzione pubblica, ancorché socialmente essenziale.Guido Alpa, Presidente del Consiglio Nazionale Forense
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EconomiaCategoria
Politica economicaII. Eroi
L’aula magna del palazzo di giustizia che tu oggi frequenti è dedicata all’avvocato torinese Fulvio Croce. Al centro, in alto, c’è una pietra commemorativa in cui è scritto che Croce «affrontò consapevole morte» affinché la Giustizia «riprendesse pacifico imperio». Mai lapide fu più scarnamente vera.
Il 24 aprile 1977 Fulvio Croce, che dal 1968 è presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Torino, confida a un amico: «Questa volta mi ammazzano. Sono sempre pedinato».
Un anno prima di quella confidenza, il 24 maggio 1976, Croce era stato nominato dal presidente della Corte d’Assise di Torino, Guido Barbaro, difensore d’ufficio dei capi storici delle Brigate Rosse, rinviati a giudizio nel dicembre 1975, per banda armata e altri gravi reati, dal giudice istruttore Giancarlo Caselli.
Il dibattimento inizia il 17 maggio. Ma alla prima udienza succede un fatto senza precedenti: tutti gli imputati revocano il mandato ai loro difensori di fiducia e minacciano di morte gli avvocati che accettino la nomina di difensore d’ufficio. È la prima volta, non solo in Italia, che degli imputati rifiutano un qualunque tipo di difesa. Da Socrate a Danton, da Dreyfus ai militanti del Fronte di liberazione nazionale algerino, la storia è ricca di casi di ‘processi di rottura’: in cui gli imputati hanno trasformato il banco degli accusati in un pulpito contro i loro accusatori, l’aula di giustizia in un megafono delle loro idee. Le Br, a Torino, fanno una scelta più radicale: non contestano soltanto la legittimazione dello Stato che li accusa ma chiedono agli avvocati di ritirarsi dalla scena. È qualcosa di più del «vi proibisco di difendermi!» che il capitano Alfred Dreyfus aveva intimato al suo avvocato Labori. I brigatisti rossi eleggono gli avvocati a loro nemici. Perché – spiegano – se normalmente l’avvocato è «l’altra faccia del giudice», nei processi politici l’avvocato è «difensore di regime»; dunque, un «nemico dichiarato delle forze rivoluzionarie». Il comunicato che uno degli imputati legge alla prima udienza è, nel suo tono minaccioso, lucido e già gravido delle conseguenze che da quel gesto deriveranno. I brigatisti, sarcasticamente, dicono ai giudici: «se difensori devono esservi, questi servono a voi, egregie eccellenze». E, rivolti agli avvocati, aggiungono: «vi invitiamo a rifiutare ogni collaborazione con il Potere». La minaccia di morte è già sottintesa.
Di fronte alla revoca dei difensori di fiducia il presidente Barbaro chiede al Consiglio dell’ordine un elenco di avvocati tra cui scegliere i difensori di ufficio da attribuire agli imputati. Fulvio Croce è fuori Torino, per assistere una parente malata. Quello stesso pomeriggio i suoi colleghi del Consiglio dell’ordine designano un elenco di avvocati, noti per il loro impegno nella sinistra: quasi tutti sono appartenenti al gruppo dei Giuristi democratici o all’Associazione nazionale partigiani d’Italia. È una scelta sicuramente sbagliata: perché si presta a essere interpretata come una provocazione. È il segno della assoluta imprevedibilità di quella tragica situazione. Gli avvocati designati dal Consiglio, infatti, non accettano la nomina: un atto di difesa della propria identità politica; l’affermazione della totale estraneità della propria storia politica rispetto a quella dei brigatisti. Nel frattempo gli imputati rafforzano sinistramente le loro minacce: gli avvocati che accetteranno la nomina d’ufficio – fanno sapere in un loro comunicato – saranno ritenuti «collaborazionisti del regime, con le conseguenze che ne potranno derivare».
È proprio dopo questo annuncio di morte che entra in campo Fulvio Croce. All’udienza del 24 maggio 1976, di fronte al rifiuto degli avvocati nominati su indicazione del Consiglio dell’ordine, Guido Barbaro incarica della difesa d’ufficio il presidente del Consiglio dell’ordine. Fulvio Croce è un civilista puro, che non ha dimestichezza con il processo penale. Ma quel mattino, appena ricevuta notizia dell’incarico, Croce corre in Corte d’Assise. Chiede un giorno di termine per trovare altri colleghi che lo affianchino nella difesa. Li trova nel pomeriggio. E l’indomani, con otto di loro, è presente, in aula, al banco della difesa. I brigatisti leggono un nuovo comunicato:
Gli avvocati nominati dalla corte sono, di fatto, avvocati di regime. Essi non difendono noi ma i giudici. In quanto parte organica e attiva della controrivoluzione ogni volta che prenderanno iniziative a nostro nome, noi agiremo di conseguenza.
E infatti, da quel momento, ogni volta che un difensore prenderà la parola per svolgere la difesa tecnica, dal banco degli imputati voleranno insulti e minacce pesanti. Uno scarpone verrà lanciato da un brigatista contro l’avvocato Gian Vittorio Gabri. La situazione degli avvocati è drammatica. Da un lato, il dovere di fedeltà verso le istituzioni democratiche impone loro di non disertare il processo e di svolgervi sino in fondo il ruolo di difensori, sollevando, in favore degli imputati, tutte le questioni tecniche che la procedura consente. Ma ciò facendo vanno contro il volere, proclamato clamorosamente, degli stessi imputati. E rischiano di difendere soltanto la celebrazione del processo. D’altro canto, se gli avvocati obbediscono all’intimazione degli imputati di disertare il processo, rischiano di diventarne complici. È il conflitto che Fulvio Gianaria e Alberto Mittone, riflettendo trent’anni più tardi proprio su quel processo, scolpiscono in questo interrogativo: «come può l’avvocato partecipare al processo di rottura senza condividere e praticare fino in fondo una scelta così drammatica e così pericolosa, senza accettare di essere fiancheggiatore del reato oltre che del reo?».
In questo clima, alcuni degli avvocati del collegio, di cui si fa portavoce Franzo Grande Stevens, all’udienza del 26 maggio 1976 chiedono che la corte sollevi la questione di incostituzionalità degli artt. 125-128 del codice di procedura penale allora vigente, che prevedevano l’obbligo di difesa tecnica affidata necessariamente a un avvocato. Quelle norme – sostengono gli avvocati dei brigatisti – contrastano con l’art. 24 della Costituzione (che sancisce l’inviolabilità del diritto di difesa) e, soprattutto, con l’art. 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo (che prevede che ogni accusato ha diritto a «difendersi personalmente o con l’assistenza di un difensore di sua scelta»). Insomma: il diritto alla difesa – dicono gli avvocati – deve contemplare anche il diritto ad autodifendersi. Questa è la tesi, assolutamente nuova, che gli avvocati torinesi sollevano di fronte alla corte. Il processo è rinviato al 9 giugno, per consentire ai giudici di studiare il problema e di decidere se sollevare la questione davanti alla Corte Costituzionale. Ma l’8 giugno, vigilia della nuova udienza, le Br uccidono, a Genova, il procuratore generale Francesco Coco e i due uomini della sua scorta, il brigadiere Giovanni Saponara e l’appuntato Antioco Deiana. L’indomani, al processo di Torino, i brigatisti rivendicano quel triplice omicidio. Lo stesso pomeriggio la corte respinge la questione di legittimità costituzionale della norma che rende impossibile l’autodifesa. Il processo è rinviato al 16 settembre per consentire ai nuovi difensori d’ufficio lo studio degli atti, a loro fino a quel momento completamente sconosciuti. Ma a settembre il processo verrà di nuovo rinviato per un motivo procedurale: la Cassazione ha deciso che al processo di Torino devono essere riuniti degli atti trasmessi dalla Corte d’Assise di Milano. La nuova data è fissata in primavera: il 3 maggio 1977.
Gli otto mesi che vanno dal settembre 1976 a fine aprile 1977 sono costellati di omicidi. Ormai le Br, come dicono loro, hanno «alzato il tiro»: dalle gambe al cuore degli uomini inermi scelti come bersagli. Il 2 settembre 1976, a Biella, nel corso di un ordinario controllo di polizia viene ucciso il vicequestore Francesco Cusano. Il 14 dicembre 1976, a Roma, un colpo alla tempia uccide l’agente di polizia Prisco Palumbo, mentre è al volante dell’auto di servizio. Il giorno dopo a Sesto San Giovanni, durante l’irruzione in un covo, vengono uccisi il maresciallo di polizia Sergio Bazzega e il vicequestore Vittorio Padovan. Il 19 febbraio 1977 un altro omicidio: il brigadiere di polizia Lino Ghedini è ammazzato durante un normale controllo del traffico a Rho. Un mese dopo, il 22 marzo, l’agente di polizia Claudio Graziosi riconosce, su un autobus, una terrorista latitante. Si accinge ad arrestarla ma un altro terrorista interviene e gli spara, uccidendolo.
È l’inizio di una catena che alla fine conterà 128 persone uccise soltanto dal terrorismo di sinistra.
Anche a Torino le Brigate Rosse alzano il tiro. Il 12 marzo 1977, sotto casa sua, mentre si sta recando in ufficio, viene ucciso Giuseppe Ciotta, brigadiere della polizia di Stato.
Il 20 aprile una brigatista spara, all’altezza del cuore, contro Dante Notaristefano, consigliere comunale della Democrazia cristiana. Per istinto Notaristefano alza la borsa di cuoio gonfia di fogli, con cui sta tornando dall’ufficio: la pallottola trapassa le carte e si ferma sul lato interno della borsa. Notaristefano lavora, come segretario, alla Procura generale di Torino. Il mattino dopo torna subito in ufficio: la prima persona che lo cerca, per esprimergli solidarietà , è l’avvocato Fulvio Croce. Gli dice: «Ma che mondo è questo! Sparare a persone come lei...». Manca soltanto una settimana alla sua morte.
Tredici giorni dopo deve riprendere il processo ai capi storici. Croce è determinatissimo a esserci e a adempiere il suo dovere. In quelle ultime settimane si è accorto d’essere seguito per la strada. Non ha alcuna scorta. Ne parla con alcuni amici avvocati. E gli amici lo invitano a fermarsi: «guarda che per te è troppo rischioso; ci sono altri colleghi più giovani pronti a sostituirti». Il 24 aprile 1977 è una domenica. Croce è nella sua casa di campagna, a Castelnuovo Nigra. Ed è qui che, a un vecchio amico di quando era ragazzo, confida: «questa volta mi ammazzano». L’amico lo invita a rimanere per qualche tempo a Castelnuovo, a godersi la serenità del paese. Ma Croce risponde che a Torino lo aspetta il suo lavoro di presidente del Consiglio dell’ordine.
Giovedì 28 aprile è una giornata di pioggia. Alle tre di pomeriggio, dopo essere stato a casa per pranzo, Fulvio Croce rientra, sulla sua Fiat 125, al lavoro, in un vecchio palazzo di via Perrone 5, nel cuore di Torino. Posteggia l’auto nel cortile e si avvia nell’androne verso lo studio. È un uomo solo, di oltre 70 anni, che cammina appoggiandosi al bastone, masticando il solito mezzo toscano. La voce di un giovane uomo lo chiama: «Avvocato!». Mentre Croce accenna a voltarsi, gli sparano alla schiena cinque colpi con una pistola Nagant. I terroristi diranno che hanno ucciso «non la persona ma la funzione».
La città è atterrita. Giorgio Agosti, ex magistrato, capo della Resistenza e questore della Liberazione a Torino, il 30 aprile scrive sul suo diario:
Ai funerali di Croce, dove la folla è enorme. Franzo [Grande Stevens] angosciato e teso: e più di lui Giuliana. Si è ormai tutti in prima linea, ma nel modo più assurdo, senza possibilità di libere scelte [...]. Questi terroristi non hanno l’appoggio della popolazione (al contrario dei partigiani), anzi ne sono odiati: anche se hanno mezzi mi pare assurdo che questo basti ad assicurare loro così assoluta libertà di movimenti. La verità è che la polizia è smarrita e impaurita, e lo lascia anche capire.
Gli avvocati torinesi sono impietriti. Il 29 aprile si riuniscono in un’assemblea a cui partecipano anche magistrati e cancellieri. Che fare? L’assemblea sbanda. Si divide. Alcuni avvocati sostengono che l’unico modo di onorare Fulvio Croce è di consentire la celebrazione del processo, svolgendovi completamente il proprio ruolo di difensori. Altri invece sono convinti che si debba semplicemente far celebrare il processo nel più breve tempo possibile; parteciparvi con un ruolo meramente formale: senza sollevare eccezioni e senza entrare nel merito delle accuse. Altri ancora dichiarano che il processo non può più celebrarsi a Torino perché tutti gli avvocati devono considerarsi parti offese, essendo stato assassinato il loro presidente. Nel Consiglio dell’ordine prevale, per un attimo, quest’ultima tesi. Viene approvato un ordine del giorno in cui si dice che i consiglieri, di cui Croce era stato collega e amico affettuoso, non potranno mai accettare un incarico a difesa di chi ha rivendicato il suo omicidio. Ma nel volgere di pochi giorni si forma un nuovo collegio di difensori d’ufficio, composto sia da alcuni dei più affermati penalisti della città sia da giovanissimi loro colleghi. Sono un drappello di valorosi che per primi comprendono e pubblicamente testimoniano di non potersi tirare indietro da quella prima linea di cui Agosti parlava nel suo diario segreto. Difendendo gli imputati, difendono ed esaltano la loro dignità di avvocati e di cittadini. Scrivono, coralmente, una delle pagine più belle dell’avvocatura.
Per questo, Francesco, voglio che tu ricordi i loro nomi: Aldo Albanese, Giovanni Avonto, Luigi Balestra, Gianfranco Bonati, Vittorio Chiusano, Geo Dal Fiume, Valerio Durante, Antonio Foti, Gian Vittorio Gabri, Fulvio Gianaria, Francesco Gilardoni, Bianca Guidetti Serra, Maria Magnani Noya, Graziano Masselli, Carlo Umberto Minni, Alberto Mittone, Vittorio Negro, Emilio Papa, Elena Speranza, Gian Paolo Zancan. Il loro coraggio ci appare ancor più grande se si considera il clima culturale di quel periodo storico. Oggi, un giovane come te, che era sui banchi del liceo nei mesi delle stragi di Capaci e di via D’Amelio e che dunque ha sempre sentito celebrare la legalità come un valore fondante della convivenza civile, rimane incredulo nel leggere certe pagine scritte in quegli anni. Ma quelli erano i tempi in cui importanti intellettuali italiani proclamavano lo slogan «né con lo Stato né con le Br». Erano i tempi della viltà , accarezzata e teorizzata: in cui un premio Nobel e senatore a vita, una settimana dopo l’omicidio Croce, intervistato dal principale quotidiano della borghesia italiana, dichiarava che egli comprendeva e giustificava i cittadini che, estratti a sorte come giurati, si tiravano indietro. Perché – diceva – non si può chiedere a nessuno di essere eroe. Perché non c’è, per i cittadini, un principio etico che li obblighi a partecipare all’amministrazione della giustizia. E anzi, è comprensibile il cittadino che, estratto a sorte, invoca il precetto evangelico di non giudicare. L’area di simpatia verso il terrorismo era, nell’opinione pubblica, davvero molto ristretta. Ma molto più estesa era l’area di indifferenza. Anche se la si imbellettava di motivazioni politiche o addirittura filosofiche, riaffiorava l’immortale stato d’animo italiano del ‘chi me lo fa fare’.
Ebbene, il sacrificio di Fulvio Croce e il comportamento degli avvocati che ne seguivano l’esempio furono una sfida e un segnale a quell’area della viltà . Una voce che diceva che in Italia non c’era, in quel momento, alcuna situazione pre-rivoluzionaria. I terroristi non erano i soldati di un esercito che avrebbe scalato il paradiso e costruito l’ordine nuovo. Non erano le avanguardie, ancora incomprese, di una ‘rivoluzione che non si processa’, ma erano soltanto assassini che sparavano a uomini soli.
Nel frattempo, però, vengono meno i giudici popolari estratti a sorte per comporre la giuria.
All’udienza del 3 maggio 1977, fissata per la prosecuzione del processo ai capi storici, sul tavolo del presidente Barbaro giungono pacchi di certificati medici inviati dai cittadini giurati per giustificare la loro indisponibilità . Su quasi tutti ci sono scritte due parole: «sindrome depressiva». Riassumibili in una sola: ‘paura’. Barbaro è costretto a rinviare ancora il processo. Questa volta a data indeterminata. La città sembra in ginocchio. La domanda è ormai se sia ancora possibile, a Torino, esercitare la giustizia nelle sue forme ordinarie.
Nel suo diario privato Giorgio Agosti è sferzante:
Il processo alle Br non si fa più perché buona parte dei giudici popolari si sono dati ammalati. Impotenza della giustizia e assurdità della giuria popolare, relitto di tempi medioevali. Nel giudice popolare si rispecchiano nitidamente le passioni più faziose: dall’animosità verso i giudicati alla vigliaccheria personale. Preferisco il peggiore dei giudici togati a questi giudici improvvisati e inesperti, che non possono più trovar posto nel mondo delle tecniche e delle specializzazioni moderne.
Ma il disperato pessimismo di Agosti si rivelerà eccessivo. Torino, ancora una volta, reagisce in tutte le sue espressioni: dalle istituzioni politiche al quotidiano della città , «La Stampa», dal sindaco Diego Novelli alla mobilitazione del sindacato nelle fabbriche. È ormai chiaro che le anguste aule del vecchio palazzo di giustizia sono inadeguate per la celebrazione del processo. Novelli vola dunque a Roma e ottiene immediatamente dal ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, i fondi per ristrutturare e allestire come aula i locali di una ex caserma. Viene inoltre cambiato, con una riforma legislativa, il meccanismo di estrazione a sorte dei giudici popolari: non ci si fermerà più alla decima estrazione (come prevedeva la legge precedente), ma il sorteggio andrà avanti finché non si riuscirà a comporre la corte. E alla fine ci si riuscirà : dopo centocinquanta estrazioni si trovano sei cittadini che accettano l’incarico di giudice popolare e altri dieci che accettano di presenziare al processo come supplenti; tra di loro la segretaria del Partito radicale Adelaide Aglietta, che ha la residenza a Torino. Insieme a Guido Barbaro, a Fulvio Croce e agli avvocati che lo seguirono, l’Aglietta diventa, in quei giorni, il simbolo del rifiuto di fuggire di fronte alle proprie responsabilità civiche.
È «il coraggio d’essere giusti», come titolerà Alessandro Galante Garrone, dieci giorni dopo l’omicidio Croce, un suo editoriale su «La Stampa», in cui, alla dichiarazione del senatore a vita che aveva giustificato la diserzione dei giudici popolari, opponeva le parole di un giovane estratto a sorte che aveva accettato, e che, intervistato dalla televisione, aveva spiegato la sua scelta dicendo, semplicemente: «Lo Stato siamo noi». Il nostro Stato: così si chiama la rubrica in cui, su «La Stampa», il vicedirettore Carlo Casalegno scrive spesso della risposta ferma e civile che va data al terrorismo. I brigatisti gli sparano in faccia, il 16 novembre 1977, mentre rientra a casa a piedi. Casalegno morirà dopo tredici giorni di sofferente agonia.
Eppure, tutto questo non ferma il processo ai capi storici delle Brigate Rosse. Il 9 marzo 1978 riprende il dibattimento pubblico. E i terroristi ricominciano a uccidere a Torino. L’indomani mattina, alle otto meno un quarto, il maresciallo di polizia Rosario Berardi sta aspettando in largo Belgio l’autobus che lo deve portare in ufficio. Per anni ha lavorato al nucleo antiterrorismo della questura torinese. Ha partecipato alla scoperta di covi e all’arresto di brigatisti. È stato testimone in un precedente processo a una brigatista rossa....
Indice dei contenuti
- I. Contro la «vulgata»
- II. Eroi
- III. Dialettica
- IV. Occhio sul mondo
- V. Le scelte
- VI. Indipendenti e responsabili
- Nota bibliografica